“Sono solo, ma non mi lamento”. Julien Gracq, lo scrittore assoluto
Letterature
Silvano Calzini
Doveva sbucare fuori da qualche recesso della letteratura, Luc Dietrich, ad informarci che la felicità appartiene ai tristi. Pubblicato da Portatori d’acqua, per la cura e la traduzione di Matteo Morea, il romanzo autobiografico di Raoul-Jacques (questo il vero nome) Dietrich, La felicità dei tristi, è uno sguardo genuinamente infantile sul mondo, un’innocenza originaria cui lo scrittore – svanito troppo presto nei fragori della guerra nel 1944, a trentun anni – tenterà sempre, contro l’invadenza del dolore che lo trafigge, di rimanere fedele. Ma che cos’è questa felicità di cui solo i tristi sono i fieri e insospettabili padroni? È qualcosa che si sedimenta lì, sul fondo di un’amarezza, dove solo chi non bara col proprio dolore può arrivare e non pensa di dover fingere allegria di fronte “a qualcosa di complicato”. Chi fa il furbo, scrive, finisce a ridere solo come Giuda. I tristi costruiscono chiese e ponti, continua, due punti che suggeriscono incontri autentici con un altro, rispettivamente con la maiuscola e senza; gli altri cinema, negozi e stazioni.
Una narrazione che pare snodarsi come una serie di ritagli di stoffa cuciti poco a poco, ci restituisce il tempo in cui un bambino si fa adulto imparando la vita dalle piante e dagli animali. Chi osserva bene i compagni di Creato, chi compie l’apprendistato presso fiori e stelle, sa che a loro non verrebbe mai di chiedersi se la vita valga la pena.
Scrive Rainer Maria Rilke, in una lettera ad un lettore russo che gli chiede lumi sull’Elegia VIII, che la differenza tra piante, animali e uomini risiede tutta nella circostanza che i primi stanno nel mondo con una radicale e assoluta devozione al proprio destino, come chi non abbia ricevuto il privilegio/pericolo di sottrarsene, perché non sanno e non possono volere. Magnifici e feroci proprio per questo. Gli uomini sperimentano una simile libertà solo nei “primi istanti dell’amore e nell’elevazione a Dio”. Certo è singolare che il poeta boemo chiami libertà quella che ai nostri occhi appare come cieca necessità, vista l’impossibilità di scegliere. Ma il nostro volere, che trasforma il mondo in oggetto, chiudendosi su di sé, ci sottrae a questa bellezza. Forse Luc Dietrich aveva un sospetto simile per scrivere che la nostra infelicità deriva dal non essere “del tutto soddisfatti di ciò che siamo, senza però sapere davvero che cosa vorremmo essere”. È una “scia d’argento” la vita degli uomini, destinata a consumarsi troppo rapidamente; cibo per ombre.
Dietrich ci trascina nel suo dischiudersi alla vita da quando, bambino, affidato alle cure poco pazienti degli zii, finisce in una specie di manicomio. Altrove, la madre lotta per liberarsi dalle sue dipendenze, poi fa ritorno e costruisce insieme a lui, con fatica e tenerezza, una vita in comune. Lo osserviamo mentre cammina tra le età, sui confini mobili che le separano, e lo troviamo in una specie di boschetto, avamposto improvvisato, dove tenta di proteggere il suo cuore ardito dal nemico più efferato, la quotidianità degli adulti: quella regione esistenziale, grigia e arida, in cui gli uomini hanno dimenticato per sempre che in un banale copriletto si cela la pelle di pantera di Eliogabalo.
Scorrono volti di ragazzi e soprattutto nomi di fanciulle, che dileguano come sogni al primo, incerto sfarfallio di palpebre del risveglio. Al ragazzo, poco più che adolescente, l’amore per l’altra non sembra suggerirgli ancora qualcosa di alto; amare vuol dire salvare senza chiedere nulla in cambio – dice – e i sensi, con i primi turbamenti sembrano invitarlo, piuttosto, ad un inabissamento cui, con ostinazione, si nega. Tutto l’amore che vuole dare, di cui tracimano come fiumi i pochi anni di ragazzo che ha, è rivolto alla missione di strappare la madre alla micidiale morsa della dipendenza da oppiacei. Lui che conosce a fondo le piante, dichiara guerra ai papaveri del paese in cui vive, ottenendo una vittoria momentanea che rimanda ad un dopo di poco lontano, la resa dei conti con quella ferita di abbandono che sanguina sempre, ad ogni volto che perde forma.
Sulla soglia del mondo adulto, a diciott’anni, quello che sarà un futuro scrittore e che avverte la vertigine del vuoto, scopre il senso recondito dell’affanno degli uomini. Dopo aver imparato a conoscere la durezza del cuore, che sia piegato dal lavoro in campagna o dalla frenesia vuota della città, dove tutti sembrano correre verso destinazioni corte, tutto lo scopo del vivere degli altri pare risiedere in un’impresa folle, che ancora gli impedisce di abbandonarsi all’amore di una ragazza:
“trattenere con le mani e con le braccia coloro che non possono toccare col cuore e col pensiero”.
Allora, i diciott’anni di Dietrich sembrano sfumare in quelli che sono stati (o sono ancora) i nostri; uno spazio in cui ci giochiamo la sorte dei bambini che ancora sostano dentro di noi.
Che l’infanzia non marcisca nel futuro adulto, dipende forse anche da questo: dal capire la differenza tra sapere e volere amare. È sempre vano stringere una scia d’argento.
Livia Di Vona