Sylvain Tesson ha compiuto da poco cinquant’anni: il padre, Philippe, decano del giornalismo francese, è quasi centenario. I libri di Tesson sono crudi, semplici, pregni di un lirismo frugale, sagace incrocio tra Corto Maltese e Paul Morand, uno dei lari di Tesson insieme a Jean Raspail, l’eroico inaccettabile. Icona dello scrittore in viaggio, moderno Wanderer, Tesson ha definito la sua opera Énergie vagabonde (così un volume complessivo del 2021):
“Cammino in una foresta, parlo con uno sconosciuto e gli dico cose più intime che a un fratello perché non lo rivedrò mai più. L’energia errante è attraversamento dell’effimero, perennemente rinnovato. L’energia errante consiste nel raccogliere idee da colline ispirate. Un giorno, questi appunti diventano un libro… Credo nelle virtù della comunanza e del distacco”.
A suo modo, Tesson è uno dei re della letteratura francese contemporanea. Più che ai dolori dell’uomo e al delirio della società – le provocazioni di Houellebecq, le magnetiche isterie della Ernaux – è interessato all’individuo nel gorgo della natura. Tesson ama la prova, il rischio, la solitudine. Prima che reazionario, è reattivo.
Ogni suo libro, ormai, pare un percorso di spoliazione. L’energia della giovinezza – le spedizioni nel Borneo, la traversata delle steppe dell’Asia centrale, le missioni archeologiche in Pakistan, l’eremitaggio nelle foreste siberiane – si è stemperata in spirito contemplante. Tesson è riuscito, come scrive, a “fare del viaggio una preghiera”. Così, è naturale che dopo l’ultimo libro, La panthère des neiges (2019; che gli ha consentito il Prix Renaudot), poetico inseguimento – tra poste, posture, disfatte – verso la leggendaria pantera delle nevi, tra Tibet e Nepal, nei reami himalayani, Tesson abbia scelto di affondare nel mistero del bianco, dando alla neve divinità. L’ultimo libro, Blanc, appena edito da Gallimard – di cui traduciamo il primo capitolo e l’intervista rilasciata da Tesson –, assembla il racconto di una serie di scalate compiute, da Mentone a Trieste, tra il 2018 e il 2021, con Daniel du Lac, guida alpina e genio dell’arrampicata.
“Nel Bianco tutto si annulla – speranze e rimpianti. Perché dunque ho amato errare nella purezza?”
Questa è la domanda che fa da viatico al libro, cavalcatura mistica. Così, l’ascesa si fa ascesi, il viaggio si muta in pellegrinaggio, il miracolo è la gloriosa disfatta di sé. Il Bianco ferisce come un colpo d’ascia in mezzo agli occhi: le creste alpine, ultimo brandello di gioia, sembrano la china di Moby Dick: elevano inabissandosi.
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Un libro nel segno del Bianco, con la maiuscola…
È il colore della neve, ovvio, un ecosistema in cui ho passato, per diversi tratti di tempo, quattro anni. Per me è più che un colore: è una sostanza; ed è più che una sostanza: è uno stato. Come se esista un biancore interiore, costituito dall’oblio di sé, per semplici ragioni di sopravvivenza, da una grande attenzione al mondo, nella permanente alternanza tra veglia e ripiegamento interiore. Questo biancore spirituale si salda a un sentimento di dissoluzione totale del tempo, di dilatazione dello spazio. In una giornata, percorriamo una dozzina di chilometri, a volte ci vogliono due o tre ore di fatica incessante per salire trecento metri di un ghiacciaio ripido. Il contrasto con il nostro consueto rapporto con lo spazio, rapido all’eccesso, è assoluto.
Questa escursione si è svolta nell’arco di quattro anni, a gruppi di due, tre, a volte quattro persone. Si può parlare ancora di solitudine?
In effetti, ho effettuato queste traversate tra il 2018 e il 2021, con il mio amico Daniel du Lac, una guida di alta montagna, per tre o sei settimane di cammino ogni anno: non è stata un’avventura solista. Ma la solitudine è un sentimento relativo. Eravamo nei luoghi più selvaggi d’Europa: per stare da soli, oggi, in Europa, occorre ascendere. L’altitudine è la chiave della felicità. D’altra parte, in tre formiamo una comunità, una comunità alla macchia.
In questa solitudine, in tale spoliazione, la lettura continua ad avere un ruolo importante…
Solo nella forma della poesia. Quando devi portare ciò che ti serve sulla schiena, fino a dieci chili, ogni grammo è decisivo e i romanzi sono proibiti. Ma la poesia è lettura necessaria perché inesauribile: può essere riletta all’infinito. È sufficiente una piccola antologia, leggerissima, per nutrirci profondamente. D’altra parte, anche nei rifugi si trovano dei libri, si fanno scoperte incredibili: Sant’Agostino in Alta Savoia, L’Homme foudroyé di Cendrars nel Queyeras, Proust nell’Ubaye… La letteratura è ovunque, perché è l’altro piano del mondo.
Questa dissoluzione nel bianco è anche una dissoluzione dello spirito?
In effetti, accade una dissoluzione, ma non una dissoluzione del mondo nel bianco: avviene una dissoluzione del sé. Lo sforzo fisico è così intenso, il paesaggio così risolto, unico, assoluto, originario, elementare, che non trovi spazio per rimpianti, rimorsi, ansie, ambizioni. Pensieri negativi sul passato, promesse slanciate nel futuro: tutto questo non esiste. Tutto si riduce, passo dopo passo, in quel luogo che pare non esistere, perché il bianco è l’anestesia dei sensi. L’occhio non ha attrazioni, gli odori si annullano, i suoni svaniscono, il tatto è iniquo. Il viaggio è mentale. Siamo una specie di corteccia in movimento.
Ogni fase della traversata era dunque identica alla precedente?
Proprio così. Che siate in Slovenia, a tremila metri, o a quattromila metri nelle Alpi dell’Alta Savoia, in Alto Adige, in Engadina o nel Ticino italiano, è la stessa patria, un impero. L’impero del bianco, del vuoto, dell’altitudine. È un sistema, il sistema bianco. Paul Morand aveva intitolato le sue riflessioni di viaggio, “Nient’altro che terra”; qui è “Nient’altro che il bianco”. Nient’altro.
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Che fare?
Aveva nevicato. Abbiamo divinato la neve prima ancora di guardare fuori dalla finestra. Il cielo è svanito, il mondo è bianco. Avevo passato la notte vicino al camino, in un rifugio di montagna. Il mio amico, la guida Daniel du Lac, era sdraiato contro un nido di corde.
Volevo alzarmi, penetrare nel silenzio. Il Bianco cela i suoi misteri. La neve detta il pensiero del cielo alla Terra. Ma il brulichio della nebbia, con la sua tintura di cadavere, scoraggia le esplorazioni. All’alba, nessuno vuole spingere le porte di un obitorio. Tuttavia, basta scostare il primo velo.
“Du Lac”, gli dissi, “perché non sprofondiamo nel Bianco? Abbiamo qualcosa da trovare”.
“Che fare?”, ha domandato Lenin sul letto di morte. I russi amano quella domanda. Più tardi se ne sarebbero posta un’altra: “Che cosa abbiamo fatto?”.
La Storia ce lo prova di continuo: il domani non canta. La geografia, invece, mantiene le sue promesse. Insegna che la vita è movimento. Du Lac mi ha risposto: “Traversiamo le Alpi con gli sci!”.
Aveva un progetto: partire d’inverno dal mar Mediterraneo, dove le montagne sprofondano nei covoni. Montare verso nord-est, seguendo la scia della catena alpina, fino a Trieste, la città impossibile sull’Adriatico, dove le convenzioni fissano il termine delle Alpi. Lungo il percorso, saremmo rimasti il più vicino possibile alla cresta assiale. Avremmo dormito in rifugi, celle, eremitaggi. Un giro, con gli sci, tra due mari. Altro che neve! Centinaia di chilometri da percorrere, metro dopo metro. Pareva un duro lavoro, una sfida. In verità, è stata una manna dal cielo: la definizione di felicità è avere un osso da rosicchiare.
La più infima tratta in montagna dissolve il tempo, dilata lo spazio, rinfocola lo spirito, lo riporta nel suo fondo. Nella neve, lo scintillio annienta la coscienza. Importa soltanto procedere. Lo sforzo cancella ogni cosa – ricordi e rimpianti, desideri e rimorsi.
Ma cosa si ottiene in questa attraversata, di mesi e mesi; cosa si guadagna infliggendosi tali fatiche? Quella mattina, lo ignoravo ancora: non si trattava di varcare un massiccio ma di fondersi in una sostanza.
Il mio sogno, a lungo inseguito, si sarebbe avverato: fare del viaggio una preghiera.
Un anno dopo, era una mattina di marzo, eravamo in piedi, con gli sci in mano, su una spiaggia, a Mentone, presso il confine con l’Italia. Avevo insegnato a Du Lac il motto di Paul Morand, “Altrove è una parola più bella di domani.
Abbiamo risposto alla domanda, Che fare?: avevamo una meta.
Sylvain Tesson