11 Gennaio 2023

“Sono nella merda”. Hervé Guibert vs. Jonathan Bazzi

L’11 gennaio 1989, Hervé Guibert – pedigree francese ed eterea avvenenza, negli occhi la dannazione dell’angelo – ha trentaquattro anni ed è in procinto di ricevere il verdetto che ne conclamerà la sieropositività. Ha già scritto le prime quarantaquattro pagine del suo romanzo infinito, All’amico che non mi ha salvato la vita (GOG edizioni, 2022) e nelle more dell’infausta sentenza è pronto a raccontare la storia della sua malattia.

L’11 gennaio 2016, Jonathan Bazzi – milanese di nascita, sguardo macilento cerchiato da lenti stilose – è sull’orlo dei trentun anni e ha il corpo assediato da una febbre che non andrà più via. Piretica apparizione che diviene incontrovertibile manifestazione della sua sieropositività. Pubblicherà, tre anni dopo, Febbre (Fandango, 2019) – sfiorando lo Strega 2020 – per denunciare la storia della sua malattia.

Al netto di spicciole coincidenze numerologiche – un 11 foriero di caotici cambiamenti – e profetiche speculazioni, ad attrarre è l’incomparabile similitudine fra i due romanzi. Uno ammantato d’eternità, l’altro incipriato d’effimera modernità. In Guibert, alla francese maniera, il plasma infetto è plasmato in letteratura d’assalto, in Bazzi il virus si fa greve retorica, pietismo all’italiana.

Febbre è la cupa rappresentazione del romanzo contemporaneo. Narrazione amorfa, sguaiato narcisismo e condotta engagé. L’intimità della malattia che si mescola alla denuncia sociale. Uno “shaming” sempre pronto per ogni occasione d’uso. La smania del riscatto morale che degrada la letteratura a occasione perduta.

La retorica del disagiato di periferia – piazze di spaccio, case popolari, meridionali trapiantati al nord. Quella dell’omosessualità repressa – giochi da maschio e da femmina, bambole e trucchi contro robot, la ‘paura del figlio ricchione’. “Sono nato a Rozzano ma non so menare, leggo, scrivo, balbetto, mi piacciono i maschi”. La retorica del primo della classe fra compagni analfabeti. Quella del figlio di genitori separati – vite che si incrociano solo nei giorni festivi o per decreto del giudice. La retorica del malato che grida al mondo di essere uno come tanti. Quella del derelitto. Del depresso.

Il risultato è un romanzo plastico, esala sintetica compassione.  

A distanza di trent’anni, Guibert e Bazzi sono i metteur en scène di quel che, per le numerose assonanze, potrebbe essere il medesimo libro. E asserire che ciascuno sia figlio del proprio tempo suonerebbe come sorda banalità.

Perché si scrive per necessità. O per scelta.

E per Hervé Guibert scrivere è un’urgenza. Quando dà vita a un nuovo libro – dichiara – lo fa per avere un compagno, un interlocutore, qualcuno con cui mangiare e dormire, presso il quale sognare e fare incubi. Una creatura da sopportare, per lui, che si accorge di non amare gli uomini. Fino a reputarli indegni di triviale odio.

All’amico che non mi ha salvato la vita è un romanzo spudorato perché consapevole della muta raffinatezza del pudore. Si muove con disinvoltura nell’intimità più oscena, nel dirupo della dissipazione. Cronicamente incurabile, Guibert osa con la leggerezza dei classici, lasciando tiranneggiare il romanzo contro se stesso. Un processo di graduale deterioramento, come quello in atto nel suo sangue. Forma di narcisismo che raggiunge l’acme allo specchio, al cospetto della propria immagine, quando il riflesso è già cadavere, non gli appartiene più.

“Il mio libro tocca il fondo e l’abisso si richiude su di me. Sono nella merda. Fin dove mi vuoi vedere sprofondare?”.

Bazzi non osa – Febbre è un libro stazionario, come quel 37 che non sale né scende dalla colonnina di mercurio –, sceglie di non scegliere. Peggio. Si accoda. Ai vari Giordano, Missiroli, Ciabatti, Desiati et similia. Letteratura di piccolo cabotaggio buona per affollare le “classifiche di qualità”. Aderisce alla corrente del nulla egotico, si affilia al club, produce l’ennesimo volume di narrativa deperibile, avariata alla nascita. Nulla di più spersonalizzante.

“Giustizia è che almeno tutti sappiano la verità. Storie proibite, storie permesse – trovare il coraggio di una riscrittura”.

Privo di più sostanzioso nucleo, il libro si tuffa nella brodaglia sociale, racconta con guaiti la vita di periferia e la scoperta della sieropositività, camuffando il tutto da gesto sovversivo. Più moderno della modernità e pertanto in ritardo, Bazzi punta sulla volgarità della condivisione, nell’era in cui il ‘paese reale’ è nitidamente avvezzo a rendere la propria esistenza cibo per social. Non proprio avanguardia pura.

Il contatto con l’umanità però sembra imprescindibile. Condividere i risvolti della malattia è faccenda assillante, prima e dopo il test dell’HIV.  

“Ho sentito i miei amici su WhatsApp, nel gruppo che abbiamo da anni. Li ho avvisati: guardate che mi hanno chiamato, devo andare in ospedale. Sicuramente ce l’ho. […] Ho già informato parenti, amici, tutti quelli a cui mi andava di dirlo. […] Luce ovunque, si veda tutto”.

Per Guibert, invece, il cruccio della confessione, la generosità di lasciar vivere le amicizie in libertà. L’apprensione di iniettare la morte attraverso lo sguardo, negli occhi altrui.

“Confessarlo ai miei genitori significherebbe espormi al fatto che il mondo intero mi caghi il cazzo nello stesso momento, vorrebbe dire farmi frantumare i coglioni da una massa di mediocri in terra, lasciarmi spaccare la faccia dalla loro merda infetta”.

Il primo maschera la vergogna da presunta impudicizia. L’altro, con rigoroso snobismo, la disprezza. Teme solo il momento in cui la malattia potrà negargli la libertà del suicidio.

Jonathan Bazzi ambisce a tradire la tradizione del pudore. Ed etimologicamente ci riesce. Consegna infatti la propria storia, opinabilmente infiocchettata, all’editoria corrente. Che ne fa lauto pasto di una stagione. È la scrittura come scelta.

Hervè Guibert nasce scrittore. Lo è, ben al di là della sua malattia. All’infuori del suo corpo – emaciato Apollo. Jonathan Bazzi diventa scrittore a partire dalla sua malattia. Unico corpo autenticamente narrativo. Il resto sono lacrime in punta di penna.

“Devo essere io – il malato, il paziente, il figlio fuori controllo, l’amico a cui è andata male – a raccontare come si sta da quest’altra parte, a dare un segno”.

Infinocchia il lettore con la favola dei segni. Delle visite in ospedale come rito di iniziazione. Mazzi di tarocchi alla mano ed esoterismo prêt-à-porter, propinando roba da divinazione coi fondi di caffè. Di quel ‘coraggio di una riscrittura’ nemmeno l’ombra. Pare piuttosto il tarocco di Guibert. Arcani esclusi.

“Chiarisco, calmo magoni incipienti, faccio il punto della situazione, aggiorno un immaginario fermo agli anni Ottanta”.

Che poi la percezione dell’HIV negli ultimi trent’anni, quantomeno nel mondo civilizzato e semicolto che acquista romanzeria targata Fandango, sia chiaramente mutata, Bazzi pare dimenticarlo. Sembra rimasto, lui sì, ai tempi di Guibert – il virus come flagello di omosessuali e tossicodipendenti, lo scetticismo diffuso. Così Febbre si fa opuscolo medico, sterile corso di aggiornamento sanitario. La letteratura però è cosa altra. Altera. Ambizione d’eternità. Epifania di morte. Sacralità del corpo contro protocollo ospedaliero. Uomo allo specchio. Sangue denudato ed esposto.

E poco importa essere nati fra i palazzoni della periferia sud di Milano o nell’epicentro dei salotti parigini, insegnare yoga in palestre scadenti o disquisire con Michel Foucault, su un canapè in rue du Bac, della comune sorte tanatologica che trasuda dal virus.

Perché “la vita non sa che farsene dell’ingombro di un’agonia”, ma l’agonia può divenire letteratura, mai patologica, sempre vitale, erosiva. Bacillo che non muore mai. Peste.

Gruppo MAGOG