25 Gennaio 2024

“Resto puro. Responsabile unicamente per me stesso”. Dannato Kafka!

I racconti di Kafka sono luoghi o situazioni senza entrata e senza uscita, in cui improvvisamente ci si trova costretti. Gregor Samsa si risveglia una mattina tramutato in un gigantesco insetto, un essere con numerose zampe e la schiena convessa e bruna, una specie di immenso coleottero, grande almeno quanto un piccolo cane, altrimenti non riuscirebbe ad aprire la porta della sua stanza, issandosi sulle zampe viscide e girando la chiave con le mandibole. La porta si apre lentamente. Gli astanti, i suoi genitori e il suo datore di lavoro, sono o impauriti (la madre, il datore di lavoro) o furiosi (il padre), mentre Gregor si arrabatta sul pavimento e infine esce dalla stanza e cerca invano di tranquillizzare il suo datore di lavoro, di rincorrerlo, per tema che lo licenzino. Ma questi fugge via. Gregor viene ricacciato nella sua camera, dal padre, che lo pesta con violenza, quale l’insetto disgustoso che è, fino a farlo sanguinare. La porta si richiude e torna il silenzio.

La trasformazione di Gregor Samsa è un punto di non ritorno. “Da un certo punto in là non c’è più ritorno” scriveva Kafka nelle Considerazioni. “È questo il punto da raggiungere.” E ne La metamorfosi c’è una scissione della realtà, che pure stilisticamente rimane tale, fissa, come le descrizioni dei pensieri o dei movimenti di Gregor Samsa, questo punto di non ritorno che è Gregor divenuto insetto, mostro, dinanzi alla sua famiglia spaventata o irosa, pronta a fuggirlo o scacciarlo via, a pestarlo e rinchiuderlo nella sua stanza. Soltanto Gregor non sembra stupirsi più di tanto della propria mutazione, forse perché deve farvi fronte fisicamente, reimparare a muoversi, ubbidire a ciò che innegabilmente è, al suo nuovo stato di mostruoso insetto.

Da questo punto di non ritorno, ovvero il suo corpo umano tramutato in mostro, Gregor evolve, pensa, osserva le porte che si aprono e si chiudono e la famiglia intorno a sé, la sorella e i genitori, la famiglia Samsa, che, come ha scritto Nabokov nelle sue lezioni, altro non sarebbe che la mediocrità che circonda il genio, cioè l’insetto Kafka. Perché Kafka, nei suoi diari, non sembra descriversi meno mostruosamente di come abbia descritto il povero Gregor, magro com’è, inadatto alla vita e condannato a una disperata solitudine e forse a una morte precoce, a un destino di tristezza e di impotenza, di malattia. “Certo è che uno dei principali ostacoli al mio progresso è dato dalle mie condizioni fisiche” scrive nel 1911.

“Con un corpo così non si può raggiungere niente. Dovrò avvezzarmi ai suoi continui fallimenti”.

E fallirà, Kafka, nel lavoro e nell’amore, nella vita, forse persino nell’arte, a suo modo di vedere, fra manoscritti non finiti e da bruciare, la sua opera inconclusa. Bisognerà bruciare tutto, scrive più volte a Max Brod, nel 1922, ormai prossimo alla morte, a eccezione de La metamorfosi e de Il digiunatore e di poche altre pagine; bisognerà bruciare i diari, i manoscritti, le infinite lettere, tutto quanto, perché tutto deve, compreso Kafka stesso, scomparire. Naturalmente Max Brod non ha rispettato le ultime volontà del suo amico. Anche la morte di Kafka, il suo ultimo desiderio di silenzio e fiamme, forse di pudore (o di rassegnazione?), è stata un fallimento.

Oggi di Kafka sappiamo tutto, grazie al diario e alle lettere e agli scritti degli amici, alle testimonianze dello stesso Max Brod o di Milena Jesenská e agli scritti dei suoi infiniti biografi e critici: oggi Kafka è non soltanto la sua opera ma anche la sua vita, di riflesso all’opera, il suo corpo scritto, o meglio vissuto attraverso la scrittura, e nella scrittura, con la scrittura, morto e riesumato, sezionato sulla pagina. La tentazione Kafka, per il lettore, è leggere ogni suo scritto in base alla sua vita, che sia La metamorfosi o Il castello o Il processo, ossia fare ciò che Milan Kundera chiama, condannandola, “kafkologia”, ciò che Proust critica postumamente a Sainte-Beuve, leggere l’opera in base all’uomo, all’artista. Ma gran parte dell’opera di Kafka è, apertamente o meno, autobiografica; basti pensare alla Lettera al padre o alla stanza dello stesso Gregor Samsa, tanto simile alla stanza di Franz Kafka, come il terrificante padre di Gregor è simile al padre di Franz, o come il processo subito da Joseph K. ricorda le accuse che Felice Bauer e Grete Bloch rivolgevano a Kafka, o come la labirintica tana descritta poco prima di morire da Kafka, minacciata da un misterioso nemico esterno, riporta alla sua stessa vita da malato di tubercolosi, al suo rintanarsi nella scrittura.

“Chi crede che a Kafka fosse dato di separare il proprio mondo interiore da quello esteriore” scrive Elias Canetti ne L’altro processo, “non possiede alcun mondo interiore dal quale anche solo separare qualcosa”. E allora una mattina, destandosi da sogni inquieti, Gregor Samsa si ritrova trasformato in un essere terribile, in Franz Kafka. Il racconto della sua vita potrebbe cominciare e concludersi così. Gregor Samsa si tramuta non in un mostruoso insetto bensì in un uomo disperato, in Franz Kafka, che pure a un insetto potrebbe assomigliare. Gregor Samsa, come Kafka, si agita, vorrebbe vivere, però non ne è capace. Soltanto la scrittura, che pure rifiuta o restringe la vita alla clausura e alla solitudine, cioè alla negazione della vita stessa, gli è concessa. Qualunque anelito di felicità è destinato a frantumarsi nel suo essere Franz Kafka, un uomo destinato per natura al digiuno e alla rinuncia o al fallimento, al non saper o poter dire né sì né no di fronte agli inaccessibili incanti della vita, restando sempre alle soglie dell’esistenza, che mai gli apparterrà davvero, esitando, procrastinando ogni scelta, infine negandosi o fuggendo o rifugiandosi nella scrittura o nella meditazione, che alla scrittura lo rimanda, o nella malattia.

Non è un caso che uno dei suoi artisti prediletti sia Van Gogh, un paria, anch’egli inadatto a vivere realmente, escluso da ogni felicità. Quando tenta di vivere come gli altri, come chi non scrive e vive e basta, per esempio fidanzandosi con Felice o corteggiando Milena, agognando la pienezza dell’amore anche per sé, un’isola di compagnia e di eros che lo salvi da se stesso e dal suo nulla, tutto quanto gli è negato, Kafka finisce immancabilmente nel disastro, nell’angoscia del suo essere, e drammaticamente, Franz Kafka. Come potrebbe essere altrimenti? Kafka vorrebbe sposarsi. “Sembra così brutto essere scapoli” scrive una notte nel diario, nel 1911, prima di conoscere Felice (che si pronuncia Feliss, alla francese, come ricorda Ervino Pocar in una prefazione). Ma sposarsi significa perdere purezza, e calma, ossia capacità di scrittura e di meditazione, come noterà qualche anno dopo sempre nel diario, proprio nel periodo di corteggiamento a Felice, elencando i benefici del celibato:

“Sono celibe. Resto puro. Ho tutte le mie forze. Sono responsabile unicamente per me stesso. Non ho nessun problema. Posso concentrarmi sul lavoro”.

E difatti non si sposerà mai, Kafka, annullando il fidanzamento con Felice e più tardi con Julie Wohryzek e poi negandosi a Milena, alla quale scriveva: “Talora ho l’impressione che abbiamo una camera con due porte, l’una di fronte all’altra, e ognuno stringe la maniglia di una porta e basta un battere di ciglia dell’uno perché l’altro sia già dietro la sua porta e basta che il primo dica una parola e il secondo ha già certamente chiuso la porta dietro di sé e non si fa più vedere.” O ancora:

“Tu scrivi che forse verrai a Praga il mese venturo. Quasi vorrei pregarti di non venire. Lasciami la speranza che se un giorno, nel bisogno estremo, ti pregherò di venire, verrai immediatamente, ma adesso è meglio che tu non venga perché dovresti ripartire”.

È meglio che tu non venga, dunque, così scrive Kafka alla sua amata, allontanandola, rimandando l’incontro, cioè la vita vera, e anche Milena, come già Felice e Grete e Julie, sarà perduta, un amore mancato e mai posseduto veramente. La scrittura, l’opera che tutto osserva e tutto ultima, richiede angoscia e solitudine, alfine di preservare intatta l’assolutezza del proprio io, che alla scrittura è collegata e che sarebbe negata o distrutta da ogni vita in comune, da ogni esistenza vissuta pienamente. Ma non si tratta soltanto di questo, per Kafka. Anche la scrittura, come l’orrida vita vera, può essere un inganno. “Lo scrivere mi sembra tutto privo di valore, e lo è” scrive in una delle sue tante crisi. Perché scrivere per Kafka è una maniera di proteggersi dal mondo, di scavare una tana o erigere una barriera fra sé e gli altri, a protezione del proprio imperfetto io, che tuttavia proteggendosi, contemplandosi a perpetuità nel diario o nei racconti o nei romanzi incompiuti, si rovina, si autodistrugge, e quindi anche lo scrivere, ogni scrivere, può diventare privo di valore, vano come la vita stessa – come sempre in Kafka: tutto è volto all’annullamento di sé.

Vivere è sofferenza e disperazione, anche e soprattutto sulla pagina, scrivendone, giacché di fronte all’incapacità di essere al mondo, la parola non ti salva, semmai ti costringe alla solitudine e al silenzio, cioè al diniego della vita stessa, diniego anch’esso disperato, come la vita che rifiuta. Kafka è un maestro dell’angoscia, nei racconti e nella vita, soffermandosi sempre sull’impossibilità di esistere realmente, di compiersi in quanto uomo, come quando l’agrimensore K. è confinato nel villaggio, fuori dal castello, che ha infiniti ingressi a lui interdetti, simili alle porte della stanza di Gregor Samsa, ingressi e porte che si aprono e si chiudono a ripetizione mentre lui, K., Gregor, Kafka, è costretto in uno stato di perpetua immobilità, come sospeso fra due mondi, sul punto di non esistere – e così ne La metamorfosi non c’è scampo per il povero Gregor, e Kafka non potrà mai essere felice con Milena, e non c’è nessuna ragione per l’arresto di K., e Kafka si perde fra un primo e un secondo fidanzamento con Felice e altrettante rotture, e mentre tutto affonda bisogna “affondare più velocemente di ciò che affonda davanti a noi”, come si legge in una terribile pagina del suo diario.

Non c’è speranza alcuna, nemmeno nella scrittura. Kafka osserva la propria angoscia lucidamente, con occhio clinico, da allievo di Flaubert qual è, mettendo agli atti la propria impossibilità di esistere davvero. Questa è la forza del suo diario, o delle lettere, forse di ogni suo scritto, dai racconti ai romanzi incompiuti, ponendo lo stile come unica barriera fra sé e il mondo, un’esattezza emozionale e tecnica che preservi il suo sguardo intatto e lo trasponga al di là del dolore, schiacciando le sue stesse piaghe dall’interno, senza pietà che non derivi dal suo stile, da uno sguardo disincantato e lucido. La malattia, da questo punto di vista, può essere un sollievo, come il digiuno. Kafka infatti si nutre appena, come molti suoi personaggi, in una sorta di purezza stoica, che lo lascia spesso alle soglie dell’esistenza, come il digiunatore di un suo racconto o lo stesso Gregor Samsa, che rifiuta il cibo portatogli dalla sorella, ovvero rifiuta la sorella stessa, gli altri, la mediocrità che circonda il genio, l’artista (o semplicemente l’uomo), lasciandosi perire.

Kafka sa fin dal 1910 che morirà prematuramente, che forse non supererà i quarant’anni. La tubercolosi, il male diagnosticatogli nel 1917, è per lui la prova del suo fallimento generale, il giudizio ultimo, e divino, sulla sua esistenza. Altri vivono, amano, procreano; Kafka si ammala e scrive e soffre, e ne muore. Lascerà definitivamente Felice, con la quale non c’era in ogni caso nessuna speranza di amore autentico, di matrimonio. Rimasto solo, come Gregor ne La metamorfosi, assiste fatalisticamente alla propria inevitabile tragedia, che non può cessare. “Il cervello e i polmoni si sono messi d’accordo a mia insaputa” scrive a Max Brod. “Così non si può andare avanti, ha detto il cervello, e dopo cinque anni i polmoni si sono dichiarati disposti a dare il loro aiuto”.

I polmoni, il corpo, lo uccidono lentamente; Kafka sputa sangue a grumi e fatica a respirare, tossisce, ansima, e nondimeno mantiene verso la malattia “l’atteggiamento che ha il bambino verso le pieghe della gonna materna alla quale si aggrappa” – la malattia lo salva, cioè, è “più un angelo custode che un diavolo”, soccorrendolo da un’esistenza che non vive, che non ha mai vissuto veramente. Da quando è malato, tutti sono buoni con lui. Si tratta di un nuovo inizio, per Kafka, una malattia del corpo e dello spirito che riaffiora sulla pagina e che diviene la sua forza, la sua unicità. “Non credo che esistano persone la cui situazione interiore sia simile alla mia” scrive nel diario.

“Certo me le posso immaginare, queste persone, ma che intorno alla loro testa voli continuamente il corvo segreto come intorno alla mia, non me lo posso neanche immaginare”.

E il corvo segreto sono gli spiriti, i demoni o gli angeli che soffiano il fuoco sacro della parola, la sua scrittura, nel diario e nelle opere. In questo senso Kafka non ha mai smesso di essere, o di considerarsi, un malato.

Kafka scrive La metamorfosi. È il novembre del 1912, e quello che dovrà accadere, i fidanzamenti con Felice e le lettere a Grete, a Julie, a Milena, gli amori vani e la guerra e la malattia e la morte e il successo postumo, la posterità di Kafka, non è accaduto. Tutto deve ancora compiersi. Gregor Samsa è rannicchiato sul pavimento del soggiorno, fuori dalla sua stanza, un debole insetto immondo. Hanno bussato alla porta. È suo padre, forte e immenso, di ritorno nel racconto; entra e prende a rincorrerlo, per punirlo, per schiacciarlo. Gregor fugge. Suo padre gli lancia delle mele addosso, con violenza, e lo ferisce. Gregor perde i sensi e il racconto si interrompe.

Il padre è stato una delle grandi malattie di Kafka. Ne La metamorfosi la violenza indebolisce il figlio e rafforza il padre, che è il vero mostro del racconto, con la madre e la sorella, il mostruoso mondo esterno che circonda Gregor e Kafka. Anche nella vita reale, come testimonia la Lettera al padre, il padre è un essere tremendo, minaccioso, che gli impedisce di esistere, di realizzarsi in quanto uomo. Il padre di Franz Kafka diviene il mondo intero, invade il mondo intero dell’esistenza del figlio, proibendogliela fisicamente, sdraiato di traverso sulla mappa della terra, e il figlio, Franz, non può esistere nelle zone ricoperte dal padre; Franz Kafka non può esistere e basta. Il padre è gigantesco, un uomo vero, mentre il figlio è magro e debole, uno scheletrino, scrive Kafka nella Lettera al padre.

Il padre è feroce, come quando scimmiotta la figlia a tavola, animalescamente, senza “la minima traccia di amabilità o di umorismo”, e lui, il figlio impotente, resta sgomento a guardare, e scrive. La scrittura lo salva dal padre, anche se scrivendo Kafka si sente un verme, aggiunge nella Lettera, un verme che si salva a stento dai piedi del mostruoso padre, in parte schiacciato, strisciando via ferito. La scrittura, la parola, è l’unica vita possibile, per Kafka, la sola accettabile dimensione del reale, un punto di equilibrio tra l’essere e il non essere, cioè lo scomparire. Nei diari, nelle lettere, nei racconti, Kafka è, esiste, finalmente libero dai gioghi del padre. “Che significa conservare siffatti lavori, falliti persino artisticamente?” chiede a Max Brod, riferendosi ai suoi manoscritti incompiuti, anni prima di volerli bruciare – perché alla fine il fallimento dovrà essere completo.

“Significa sperare che con questi pezzetti si componga in avvenire la mia intera figura, è come un’istanza d’appello al cui petto potrò bussare in caso di bisogno”.

Perciò scrivere, anche in maniera frammentaria, è vitale, per Kafka; gli consente di ricostruirsi nell’interruzione, nel non finito, che pure è un rifiuto, nell’impossibilità di andare avanti. Kafka non smetterà mai di scrivere, di continuare. “Tu non hai capito abbastanza, credo, che lo scrivere è la mia unica possibilità di vivere” aveva scritto a Felice. E difatti seguiterà a scrivere fino alla morte.

Kafka accompagna Gregor Samsa, o ciò che ne resta, verso la fine del racconto. La morte è prossima, Gregor sta male, è ferito e denutrito, fra la famiglia ostile, pronta a liberarsi di lui, e la mela marcia scagliata dal padre piantata nel dorso. È la sua ultima notte. Gregor pensa con amore e riconoscenza ai genitori e alla sorella, e concorda con loro: deve scomparire. Fuori sta spuntando l’alba. Tutto è chiaro e definitivo. In una pagina di struggente esattezza, il mostruoso insetto, Gregor Samsa, crolla il fragile capo e esala il suo ultimo respiro. La mattina dopo verrà trovato dalla domestica, che gli assesterà dei colpetti con la scopa, sincerandosi della sua morte. “È crepato davvero!” esclama. Gregor è morto.

Uno scarafaggio stramazzato sul pavimento, ormai simbolo del mal di vivere universale, esposto nella teca della grande letteratura di tutti i tempi. Il racconto è concluso. L’ultima immagine è il luminoso e terribile gesto della sorella, che stira il suo giovane corpo, preparandosi a vivere ancora. “Il lato crudele della morte” ha scritto Kafka nei Quaderni in ottavo, “è che porta con sé il dolore reale della fine, ma non la fine stessa”. La fine, come tutto il resto, appartiene agli altri, a chi può vivere senza scrivere, senza dannarsi nella parola, e quindi non a Kafka.

Edoardo Pisani

Gruppo MAGOG