
“L’innocenza è svuotarsi ogni giorno”. Scrivere per Dino Campana, infermo d’assoluto
Poesia
Isabella Bignozzi
La prima volta che ho visto Flavio Santi era il 2001, vent’anni fa. Di mezzo c’era un lago: e i laghi, si sa, rendono arcane le memorie e non distinguono tra cadaveri e pietre. Nel lago, insomma, si affonda e si scintilla. Il suo intervento – perché era un convegno, quello, organizzato dalla rivista “Atelier” – simulava, nel titolo, Philip K. Dick, I poeti sognano pecore elettriche? “Io esigo una poesia che si renda conto di essere entrata nel ventunesimo secolo, nel terzo millennio”, diceva Flavio, “l’immaginazione è stata bruciata da internet”, diceva Flavio, “ogni cellula, ogni frammento di realtà è stato filmato e immagazzinato lì dentro”, diceva Flavio, “non abbiamo più bisogno di immaginare l’orrore, lo abbiamo in perenne connessione”. Quell’anno, il 2001, con Marsilio, aveva pubblicato una raccolta di poesie, Rimis te sachete, di avveniristica bellezza; aveva già pubblicato, con PeQuod, il primo romanzo, Diario di bordo della rosa. Ero troppo orfico, orfano di mondo, per capirlo – non abitavo la meccanica dei suoi versi, mi pareva intelligentissimo, brutale nella sintesi, felice, uno che sposava i quanti a Ovidio, che mescolava Orazio al delirio politico, a Don DeLillo, che aveva mangiato, con vampira fame, tutti i cadaveri di Pasolini che da più di quarant’anni ci seppelliscono. Abbiamo pianto, insieme, parecchi anni fa, con la dilapidata severità di chi non piange mai; abbiamo litigato, per futilità letterarie. Il giallo pubblicato da Mondadori nel 2016, La primavera tarda ad arrivare, non mi era piaciuto, l’avevo sentito come un tradimento: uno che doveva fare La montagna incantata s’era messo a scrivere “La prima indagine dell’ispettore Furlan”. Flavio aveva preso male il mio articolo, inatteso, dispettoso, “Dunque non accetto lezioni di morale, perché i miei comportamenti sono dettati ad assoluto rispetto e lealtà. E soprattutto a una totale fiducia nella scrittura. Sempre. Le scorciatoie le lascio agli altri”, mi scrisse. Fine delle comunicazioni, o quasi – le amicizie, d’altronde, vanno provate nell’acido e nel duello.
L’ultimo libro di poesie di Flavio è di dieci anni fa, Mappe del genere umano, per Scheiwiller; ha tradotto, tra i tanti, Ian Fleming per Adelphi, Fitzgerald e Melville per la Bur. È sempre stato pronto all’intrepido editoriale: ricordo, nel 2010, la traduzione di un bel libro di Maurice Chappaz, Vangelo secondo Giuda, oltre al “Voyage” di de Maistre per La Grande Illusion, nel 2019. Per Industria & Letteratura, così, industriosa collana diretta da Niccolò Scaffai e Gabriel Del Sarto, FS pubblica una specie di antologia per “Truciolature, scie, onde”, che sta tra Sbarbaro (Trucioli) e la science fiction, tra Nadia Cassini, “dattilografa delle nostre oscene debolezze”, la macchina di Turing, l’al di là della poesia. S’intitola Quanti, e la parola, che dice della moltitudine e della scienza, dello scempio, accerchia frantesi e finisce in un’apocalisse, “così minacciosi incombono gli anni dei secoli dei millenni perché tutto finirà”. “Non esistendo più, temo, un ‘reale’ pubblico della poesia (ma questo l’aveva già intuito Paul Valéry in tempi non sospetti), non posso che concepire la poesia come profondo gesto di amore/amicizia”, scrive Santi nella “nota finale” (che si autodistruggerà in 10, 9, 8…). Privo di pubblico, in effetti, il poeta non pubblica, poeta, semmai, abita una barbarica (funesta?) libertà (o l’abbaino del proprio narcisismo): può fare gol dal calcio d’angolo nella propria porta.
Ho scoperto FS che scimmiottava Philip K. Dick: lo rivedo che cita Michelangelo. “A me morendo vivo è uno spicchio di verso di Michelangelo. Oltre che una perfetta sintesi di come mi sento in generale”, scrive. Per esteso, il verso è questo: “Vivo al peccato, a me morendo vivo”. È il frammento di un sonetto, scritto a matita, sul retro di una lettera inviata a Michelangelo, da un amico, nel 1525. Frammenti, matite, supporti casuali: in questa indecente fragilità si mangia la poesia, oggi, come chi è turbato dalle rovine, fino a crederle casa. (d.b.)
**
Era stato il telefono,
quando la pioggia
era tutta ormai
spaesata tutta, a partire
dalla finestra amara
tra le venette
degli stipiti.
Era stato il telefono,
quando si infilava
come serpe tra
i nostri orecchi.
Era stato questo
uso del verbo
imperfetto.
La corrente
elettrica
passa per
i fili, dici che
ci possa aumentare
il voltaggio d’affetto?
Poi la pioggia
– sillabando –
sdrammatizzò.
Quella stessa.
*
Donna sì, ma che donna:
nel tuo fingerti
meno donna e più
luna.
Femmina sì, ma
accorto dramma,
specimine poco
interpretato per
evidenti difficoltà
di traslitterazione.
Ma per ovviare
stanno
preparando
un dizionario Chiara/Flavio
Flavio/Chiara.
*
Sparato
sul duro crepitio del corpo
un bengala per
far luce.
*
Ma io che vorrei
scriverti migliaia di
bronzee lettere, con una
busta aperta che a ogni
metro o chilometro variabile
si riempia delle cose:
ghiande da strada, balconi
andati all’aria, giberne
ghiacciate, fossati e
rammendi o anche frammenti così:
«Che storia e che
svolo, piccolo mio
appartamento, o randa o cucina,
dove dal soffriggere di cipolla o di mare
penso alle sue mani, al
suo sale». Anche così.
E per francobollo una nottola,
un cherubino, un animale,
un fine funerale.
Flavio Santi
*I testi sono tratti da: Flavio Santi, “Quanti (Truciolature, scie, onde, 1999-2019)”, Industria & Letteratura, 2020
**In copertina: J.M.W. Turner, Brennendes Schiff, 1830