Lo sconcerto, in questo libro di abbagli, arriva a pagina 65. Una stagione in Paradiso. Così s’intitola l’ultima porzione di un libro anomalo, arcano, antartico, atipico, scritto scortato da tre titaniche ombre – Baudelaire, Rimbaud, Rilke, che puntellano le pagine all’ingresso del libro – a valicare, spudoratamente, ogni educazione lirica. Giorgio Anelli, consapevolmente, colpevolmente poeta, autore di allucinata ispirazione, rimedita il poeta di Arthur e lo ribalta: la vera “stagione”, oggi, va giocata in Paradiso, troppo a lungo abbiamo baloccato all’Inferno. Che conversione magnifica, appropriata al poeta che aggioga le nuvole, ne indirizza la transumanza e vede giaguari nell’impeto dell’abete. “Svanire – piuttosto che essere di questa terra, offrire lacrime all’oracolo – senti le campane suonare nello specchio”, è uno dei versi in prosa, sempre tesi ad auscultare gli aldilà, di questo beato rimbaudiano.
Ammetto che ho un debole per Giorgio Anelli, perché è un poeta che non si adatta alla vita, che non si addomestica al vivere, che abita l’urlo e ha dottrina nell’ispirazione. Giorgio è sempre estraneo e sempre estremo, “in speranza immortale”, sigilla le sue lettere di cui mi rende privilegiato. Basta toccare il magma lirico della sua paradisiaca stagione (“tutto è compiuto quando un fratello a te vicino muore – finalmente qualcuno ha il coraggio di affermarlo! – solo allora l’angelo prende vita tutt’altro che tremendo – ritornano scosse che esigono schietta chiaroveggenza”) per sentirsi pretesi, afferrati, affratellati dal tormento della totalità lirica. Il libro ultimo – che è poi poema che altera i generi – di Anelli, in cui è conficcata la Stagione in Paradiso, s’intitola Lettera da Noversch (Giuliano Ladolfi Editore, 2018). La ‘lettera’, una effervescente, delirante, demonica, prometeica riflessione sulla necessità dello scrivere – come se le parole fossero corde sulla parete dentata del vivere – è anche un omaggio alla figura di Simone Cattaneo, in una spirale livida (“Farò la stessa fine di Cattaneo? Mi conviene? Non è che ci pensi. Uscire di scena… per la gloria? O per una sconfitta dietro l’altra? Scomparire, perché?”). La ‘quarta’ è in questo senso esplicita e accattivante. “John Barleycorn, poeta misconosciuto, non insegna, non dirige case editrici né tanto meno riviste poetiche. In una parola, è povero. Ma ha un dono: incanta quando scrive. Il contesto storico in cui vive è quello di una notizia apparsa su La lettura del «Corriere della Sera», che annuncia la morte dell’ultimo poeta maledetto italiano, Simone Cattaneo”. Nel libro, dai radiosi squarci (“Stasera la valle è grigia. Il Monte Rosa si nasconde sotto una sottana spessa di nebbia. Lys, prosegue imperterrito, con la sua lingua di mercurio. Le luci del castello, lo guardano come fiamme ispide di candela. Si terrà certamente un concerto, stasera. Sono due giorni che non esco di casa. Piove ininterrottamente. La natura, se vuole, ti inghiotte in un passo”), va da sé, il poeta incontra una donna angelicata – Sofia – e fa i conti con tutto, fino all’osso primo. Scritto con un vigore narrativo che ricorda la prosa dei primi del Novecento, i fiumi lirici di Giovanni Boine e le visioni di Scipio Slataper, Lettera da Noversch è una primizia, una rosa che ti esplode tra le mani, la riscossa di un maledettismo purissimo, una voce allenata all’argento di un William Blake della provincia italiana, che trae auspici e bestemmie dalla gola idiota dell’era presente. (d.b.)
Da dove arriva la tua “Lettera da Noversch”, per chi l’hai scritta, seguendo quale scia dell’ispirazione?
Il romanzo arriva un bel giorno, quando meno te lo aspetti; e decidi di incominciare a scrivere. Certo, con un desiderio nato già da prima. Ma i tempi non sono tuoi. C’è qualcosa in me che assolutamente travalica lo scrivere a tavolino. Anche perché, quando ho iniziato a scriverla ‒ la trama ‒ c’erano intenzioni iniziali ben diverse, da come poi l’ho portata avanti. La mia lettera l’ho scritta per due persone alle quali tengo particolarmente. Una di queste è una musa. Perché, lo sai, le muse esistono ancora oggi, e creano un’attrattiva ipnotica e creativa, come fece Salomè per Nietzsche e Rilke, ad esempio. E sono altrettanto fascinose e pericolose. L’altra persona è un poeta misterioso, che ha avuto e continua ad avere ‒ pur nel nascondimento ‒ un ruolo rilevante nel mondo della letteratura italiana odierna. Per questo motivo, ne narro in parte la vicenda, romanzandola ovviamente. Inizialmente avevo scelto un altro titolo da dare al libro ‒ questo fa supporre un’ipotetica trilogia, anche se il romanzo ha storia sua autonoma.
L’ispirazione ha mille volti, inaspettati. Noversch è il nome di una frazione di un paesino di montagna. È un luogo fantastico. Che non conoscevo. Dovresti vederlo. Una volta che ne scopri l’esistenza, te ne innamori. L’ispirazione è un sentimento panico, una catarsi, una tragedia che straborda bellezza e inquietudine. Sento come delle scosse, che fanno vibrare tutto il mio corpo.
Ci sono, in controluce, tante letture nella tua scrittura. Io vi leggo la prosa d’arte del primo Novecento, e il totem di Dino Campana. Vorrei chiederti, oltre a denunciare i tuoi ‘padri’, di dirmi cosa pensi della letteratura contemporanea italiana. Esponi il gergo della tua lotta.
Amo smisuratamente tutti i romanzi, i racconti e i testi teatrali che sono stati scritti tra l’Ottocento e il primo Novecento. In una parola: i classici. Senza la loro esistenza, non so come farei a fare letteratura. In più, è un onore per me essere avvicinato a Dino Campana. Mi chiedi se ho padri ‒ o maestri. Ho desiderato molto averne uno in carne ed ossa. Però il desiderio, all’epoca, non fu contraccambiato. Perciò, ho dovuto arrangiarmi da solo, rimboccandomi le maniche. Se devo denunciare qualcuno? Do la colpa a Goethe, Baudelaire, Kafka, Dostoevskij, Čechov, Majakowskij, Shakespeare, Céline, Gogol’, Pirandello, Testori, Hemingway, Carver, eccetera, eccetera… La letteratura contemporanea italiana è costellata, nel guazzabuglio generale, da alcuni piccoli falò, che ti abbagliano nella notte quando meno te lo aspetti. E ‒ accecandoti (cioè, sorprendendoti!) ‒ ti danno quel filo di speranza al quale aggrapparti. Si chiamano eccezioni, o outsider. Altrimenti, non leggerei proprio nulla di contemporaneo. Io, sono figlio di quest’epoca così bugiarda, ma non appartengo ad essa. Quindi, una volta assodato che in questo aldilà, nessuno ti aiuta, non puoi far altro che partire in difesa, saltellando sul ring del mondo letterario, che poi è molto simile a quello della vita quotidiana. Occorre disciplina, per saper lottare. Occorre amare tutto quello che leggi e scrivi, nonostante possa farti sanguinare, nonostante tu possa trovare davanti uno più bravo di te, che ti lavora ai fianchi, senza darti tregua. Occorre amare il tuo sacrificio, è il tuo altare.
Che senso ha scrivere – soprattutto, che senso ha, ora, pubblicare, per te?
Scrivere è vocazione. Lo è sempre stato, nel mio caso. Ci nasci, dentro le parole. Poi te ne rendi conto e devi cercare di accendere una fiamma nella notte. Fosse anche solo quella di una candela, che ti permette di scrivere parole sul taccuino. Oggi, pubblicare, per me, ha un senso profondo. Prima, sognavo che un giorno forse ce l’avrei fatta, e che sarei stato pubblicato da qualche grossa casa editrice. Lo spero ancora, s’intende! È il mio peccato originale. Ma qualcosa è scattato in me, parlandone con due amici. Volevo fare il salto di qualità, provare a proporre il manoscritto a una grossa casa editrice, appunto. E invece, come spesso accade nella vita, è andato tutto al contrario. Mi sono fidato delle parole di questi due amici. Le ho trovate affini. Ovvero: quello che a me oggi interessa, è l’opera. Io do fino al midollo la mia vita per la letteratura, senza risparmiarmi. Tutto quello che arriverà in più lo accetterò ben volentieri, ma l’importante è prendere sul serio quello che faccio. Fare letteratura è prendere sul serio le mie responsabilità e menzogne, trafitto dall’inquietudine del verbo; provocando l’impossibile, affinché diventi possibile.
Lavori da vent’anni alla “Stagione in paradiso”, controcanto a Rimbaud, di cui si può leggere un vasto assaggio in “Lettera da Noversch”. Perché il ‘paradiso’, che cosa intendi per paradiso? E perché questo lavoro così lungo, nel massacro?
È vero. Sono vent’anni che lavoro a questo poemetto. Se ci penso, mi vengono i brividi. Ma non poteva essere altrimenti. E il lavoro continuerà, probabilmente. Per la mia Stagione, ho scelto la parola paradiso, innanzitutto per fare eco all’inferno di Rimbaud. Poi, paradiso perché intendo mettere in luce ‒ oltre ai crepacci visionari e profetici che mi contraddistinguono sempre più quando scrivo poesia ‒, il tormento etico e metafisico di questa era o civiltà apocalittica, nella quale ci siamo trovati. Senza tralasciare il fatto che un paradiso (in qualsiasi accezione il lettore possa intenderlo e o viverlo), ci è dato, se non come promessa, quanto meno come qualcosa di sofferto, al tempo stesso buono, e definitivo; se non addirittura, presente e cosciente.
Un lavoro così lungo, può essere solo motivato nella macerazione. È qualcosa che, nell’intenzione, doveva vedere la luce in pochi anni. Invece, quando prendi coscienza di quello che davvero vuoi rendere con le parole incise sulla carta, tutto cambia. Ti rendi conto che la poesia non ammette scorciatoie. Pretende che tu viva immancabilmente tutta la realtà, che poi forse la dimentichi, per infine forse riesumarla e renderla, in versi, quasi perfetta. Nel mio caso, occorreva indistintamente tutta la sofferenza e la bellezza che ho dovuto affrontare in questi quattro lustri. Qualcuno, saggiamente, me lo fece notare proprio all’inizio dell’avventura.
A un certo punto, nel libro, scrivi: “Farò la stessa fine di Cattaneo?”. Ti tenta il suicidio? Ti tenta come bel gesto artistico (morire nell’opera) o come dramma esistenziale?
Innanzitutto, devo dire che non l’ho scritto né per fare bella figura (perché altrimenti sarei un tapino) né per specularci sopra. Bisogna porsi delle domande. Tante. Nella vita. Se la letteratura non ti scatena domande e non apre crepacci sotto i tuoi piedi, puoi anche fare a meno di incominciare. Non mi tenta affatto il suicidio. Questa parola non l’ho usata come vezzo. Sarò sincero, il pensiero ‒ ma, attenzione, solo il pensiero ‒ mi ha sfiorato in un paio di occasioni. Forse, per troppa immedesimazione nel personaggio. Forse, in un momento difficile della mia vita. Ma la cosa è finita lì. Piuttosto, occorre fare due considerazioni. La prima: mai come oggi il suicidio viene visto dalle persone in crisi, come probabile soluzione e sbocco al dramma esistenziale che vivono. Il singolo individuo, sempre più spesso, esplode in una società sempre più corrotta, egoista, senza umanità verso alcuno. È una scelta che purtroppo, statisticamente, viene sempre più presa in considerazione. Quindi, la mia, da una parte, è una denuncia di un dato di fatto e di un disagio che troppo spesso non si vuole nemmeno prendere in considerazione. Si accusa chi lo mette in pratica. Quando, invece, occorrerebbe per lo meno capirne i segnali e le ragioni. D’altro canto, un amico, un giorno mi confidò che per evitare di arrivare al gesto estremo, era riuscito a far morire se stesso nel personaggio del suo romanzo. Morire nell’opera richiede quasi lo stesso coraggio che morire nel mondo. A tal proposito, occorre fare una rivelazione. Come Swift, ad esempio, che nel suo romanzo I viaggi di Gulliver, ha scritto un’opera per dire altro, andando oltre alla meraviglia di ciò che inventò, ovvero scrivendo una satira contro l’uomo e la civiltà del suo tempo, così il lettore attento intenderà che lo specchio di cui parlo nel mio romanzo, non è nient’altro che la collana Specchio della Mondadori, dalla quale il genio di John fu realmente estromesso per l’invidia ‒ e quant’altro ‒ di molti.
Che futuro alla scrittura, per chi, come noi, raccatta pietre pensandole stelle?
La scrittura è fondamenta portante dell’uomo. Senza scrittura non può esistere civiltà. Se si crede di raccogliere ciottoli e di vedervi pulsare stelle, allora il futuro della scrittura avrà senz’altro speranza di continuità. La parola profeta ‒ per dire ‒ ha un doppio significato. Profeta non è solo chi prevede il futuro, bensì ‒ in senso biblico ‒ chi ti presta la sua bocca, la sua parola. Testimoniare di andare controcorrente, saltellando come un pugile magari, davanti al silenzio sia della sconfinata pagina bianca, che del pregiudizio invidioso di molti, ha permesso a Simone Cattaneo e ‒ mi auguro, permetterà ad altri, in vita ‒ di bucare come pesci la rete che soggioga lo scrittore in un eremo o in una stigmatizzazione ingiusti. Anche Vincent van Gogh, agli inizi si era messo a raccattare pietre, per stare vicino ai suoi fratelli, in miniera, e guarda poi cosa ne è scaturito: una meravigliosa notte stellata.