Tempo di uccidere, il primo e ultimo romanzo di Ennio Flaiano, nel 1947 vinse l’edizione inaugurale del Premio Strega. Anni dopo l’autore ricordò che la sera della premiazione se ne tornò a casa da solo, convinto che il premio fosse frutto di un equivoco e che in realtà del suo libro non avessero capito niente. Anche in quella notte d’estate Flaiano si sentiva un uomo fuori posto mentre camminava per le strade di una Roma deserta con un’aria malinconica e la “sensazione che ogni successo, in fondo, è un malinteso”.
*
Il libro deve la sua nascita in buona parte all’editore, Leo Longanesi. È Flaiano stesso a ricordare la circostanza in cui si assunse l’impegno di scriverlo: «Passeggiavamo cortesemente, una sera di dicembre [1946], quando si fermò e mi disse: “Mi scrive un romanzo per i primi di marzo?”. Io scoppiai a ridere, ma lui diceva sul serio… Quando ebbi detto (per dire qualcosa) come vedevo un romanzo, una storia assolutamente fantastica, tanto fantastica che non la immaginavo in Italia, ma in Africa, nell’Africa di Erodoto e Solino, Longanesi disse: “Se comincia subito le do un anticipo”».
E in tre mesi il romanzo fu pronto.
*
Il titolo è tratto dalla Bibbia (Ecclesiaste cap. III, v. 3; “Tempo di uccidere, tempo di sanare, tempo di abbattere, tempo di costruire”) e vuole intendere la vanità degli sforzi che gli uomini mettono in campo per modificare l’ineluttabilità degli avvenimenti. È la storia di un tenente dell’esercito italiano in Abissinia, durante la campagna del 1936. Al centro della trama, l’incontro e il conseguente rapporto intimo con una ragazza indigena che il protagonista poi ucciderà per errore. Da quel momento, e dalla scoperta che il turbante da lei indossato è il possibile segno di distinzione dei lebbrosi, il tenente comincia una serie di peregrinazioni in quell’angolo remoto di mondo, roso dal dubbio di poter essere denunciato per l’omicidio e di aver contratto la malattia.
*
Quando il romanzo venne pubblicato la critica fu severa e si concentrò tutta sugli aspetti formali più che su quelli sostanziali. Tanto per confermare quello di cui si era reso conto Flaiano la sera della premiazione allo Strega e cioè che del libro non aveva capito niente nessuno.
In realtà Tempo di uccidere è un romanzo spietato con il lettore perché lo prende alla gola, lo sbatte contro il muro e lo lascia lì a fare i conti. Non con la guerra, l’Africa, il colonialismo o il fascismo che sono solo dei pretesti. Il vero tema centrale del libro è la ricerca individuale, quel viaggio dentro se stessi per capire chi siamo veramente e che inevitabilmente ci allontana dagli altri e ci spinge verso la solitudine. Il protagonista è un giunco alla deriva in balia del caso, vero regista di tutta la vicenda raccontata. Se mi si perdona un passaggio ardito, penso al protagonista del romanzo dello psicoanalista Georg Groddeck Lo scrutatore d’anime, tanto divertente quanto profondo. Per molti versi, il non eroe tragico di Flaiano è l’altra faccia dello scanzonato eroe di Groddeck che non agisce e non vive più, ma è agito e vissuto dall’Es, l’autentico motore dell’universo. Forse mi sono lasciato trasportare troppo in là, ma in qualità di lettore appassionato rivendico la facoltà di partire per la tangente quando e come mi pare.
*
Per tornare al nostro tenente di Tempo di uccidere, siamo di fronte a un uomo con le idee poco chiare fin dall’inizio, ma che al termine del romanzo lasciamo, se possibile, con le idee ancora meno chiare. La sua grandezza sta lì, nella sua piccolezza, che lo rende fratello di tanti altri meravigliosi inetti della letteratura del Novecento. Alla fine del romanzo resta solo con il suo senso di colpa per il delitto che ha commesso e una battuta nelle ultime pagine del libro riassume bene il senso tragico della storia: «Il prossimo è troppo occupato coi propri delitti per accorgersi dei nostri».
*
Nessuno ha denunciato il tenente per il suo reato e non è ricercato come credeva di essere. Si rende conto che non pagherà per l’omicidio che ha commesso. I conti dovrà farli solo dentro di sé. E poi dovrà vedersela con la lebbra che temeva di avere contratto, perché, anche se al momento non ci sono segni evidenti della malattia, lui sa bene che può manifestarsi anche a distanza di molti anni. E allora, per dirla con le parole dello stesso Flaiano: «forse non si tratta più di lebbra, si tratta di un male più sottile e invincibile ancora, quello che ci procuriamo quando l’esperienza ci porta cioè a scoprire quello che noi siamo veramente. Io credo che questo sia non soltanto drammatico, ma addirittura tragico».
Silvano Calzini