06 Febbraio 2019

“Ha vissuto più vite messe assieme, è un mostro, pare uscito da un album della Marvel”: Gian Ruggero Manzoni eroe da romanzo raccontato da Pier Paolo Giannubilo

Da una parte mi azzanno le dita, dall’altra giubilo. La prima volta – per quello che diceva, mescolando l’alfabeto divino di Abulafia alle poesie di Scipione, le memorie di Amelia Rosselli al manuale di un monaco stilita – poi c’era quel viso, quel cranio, austero come uno scudo acheo – e la fuga e la foga del Nostromo di Joseph Conrad – vedete, la prima volta mi era sembrato di essere al cospetto di Kurtz. Quello di Cuore di tenebra. Però riletto, nella giungla guerresca, da Coppola, Apocalypse Now, dove Kurtz è un colonnello americano con il ceffo indimenticato di Marlon Brando. Gian Ruggero Manzoni. Famiglia di schiatta nobile, villa decadente nella folta provincia romagnola, a Lugo, terra di sgozzapreti, di falsari, di banditi, un po’ sciamano, un po’ pistolero. Alchimista. Pericoloso. Di albina generosità. Artista. L’incontro con Gian Ruggero Manzoni, ideatore di imprese letterarie garibaldine e banditesche, di riviste e di cenacoli – feci parte di quel gruppo di “poeti per una metavanguardia”, era il 2004, c’erano, tra gli undici accoliti accolti, Andrea Ponso e il compianto Danni Antonello – dall’impeto poundiano, ha sempre come esito un KO, uno schianto. GRM è l’emblema dell’eccesso: eccessivamente ambiguo, eccessivamente obbediente, radicale nella conversione e nella passione. Avrei dovuto farci un romanzo. Lo ha fatto un altro. Pier Paolo Giannubilo. Scrittore di pregio (Corpi estranei, 2008; Lo sguardo impuro, 2014), incrocia GRM nel 2004, gli parla nel 2008, lo rivede nel 2012, gli scatta l’indole dell’idea. Una intervista. In cui GRM confessi tutto. Vita, onori, amori, dissapori. Soprattutto. Gli anni delle missioni impossibili nei Balcani e in capo al mondo, su cui aleggiano leggende torbide. Esito di un patto contratto con le forze dell’ordine per evitare la prigione durante i Settanta, quando GRM alterna le chiacchierate con Tondelli alla lotta armata (si fa per dire: le armi sarà costretto a prenderle, per davvero, dopo). Giannubilo si chiude in casa Manzoni per giorni. Raccoglie il materiale. Roba da far rileggere ai puri di cuore trent’anni di storia patria. C’è tutto, lì dentro: assassinio e rapina del talento, amori estremi, vendette, tradimenti, il perdono, l’assioma della disciplina. Nasce così, sinuosa divagazione sul tema amore&morte, Il risolutore (Rizzoli, 2019), in cui Giannubilo racconta gli estremismi di un personaggio assoluto, senza tinte agiografiche, piuttosto – mungo la morale – dimostrando come solo chi precipita nel sottosuolo, nella tenebra umana, nel nulla, può con altrettanto slancio gettarsi nell’abbraccio del Perdonatore, può lasciarsi disintegrare nella luce bianca del Figlio dell’Uomo. L’unico appunto al romanzo, che ha un ritmo invidiabile (incipit che folgora: “Il bisonte è smandriato, confuso, incespica sugli zoccoli e ruzzola con la gobba nella polvere. Si rialza sulle zampe e si rilancia al galoppo nella prateria, seguendo la rotta obbligata che lo conduce sull’orlo del precipizio”), pare un raffinato film d’azione di Michael Mann, è che lascia alle voglie del lettore – di solito, ignoto – il gusto di affrontare il GRM artista, cioè quello che, finita la buriana della vita, resterà, il poeta che ha dissezionato dall’azione opere di superba potenza. Ho avuto il privilegio di far pubblicare uno smilzo, potente romanzo di Manzoni, Acufeni (Guaraldi, 2015), ‘GianRuggente’ sa che amo più di tutto Il morbo, romanzo dalla corrusca grandezza edito da Diabasis nel 2005. L’opera micidiale, però, è quella poetica, disseminata in diverse edizioni d’arte, raccolta nel 2003 da Il Bradipo in un libro-culto, Scritture scelte. Ecco, spero che uno degli esiti ultimi del romanzo di Giannubilo – bello di per sé, sia chiaro – sia anche quello di pubblicare e di far ripubblicare come si deve GRM, uno dei grandi scrittori del nostro tempo, assai più vasto di tanti decantati americani o francesoidi (GRM si pappa a colazione Carrère, quel fustino, per dire). Altrimenti resterà in gola il bilioso paradosso: abbiamo GRM ridotto a personaggio ‘da romanzo’, ma ci manca, ovunque, nelle librerie patrie, lo scrittore, l’artista, il genio del verbo. (Davide Brullo)

Parto citandoti. “La sua vita è la favola nera più scioccante che io abbia mai ascoltato”. In questa ‘favola nera’ – eppure, così piena di gioia creativa – si confonde l’io che narra, cioè tu: è così? Cosa hai rivisto di te in Manzoni?

Fra Manzoni e me c’è stato fin dal principio un involontario e inatteso gioco di specchi, e presto mi è stato chiaro che il racconto avrebbe preso la piega di un viaggio anche nella mia storia personale, oltre che nella sua. Come scrivo a un certo punto del romanzo, mentre lui mi rendeva partecipe dei suoi segreti nel corso dell’intervista, ne ero spaventato almeno quanto ne ero attratto. Poi, però, più scavavo nelle contraddizioni del personaggio, nel pozzo delle sue ambiguità psicologiche, più sentivo che ciò che avevamo in comune non era qualcosa di marginale. E non parlo di questioni che riguardano solo me in senso stretto, ma tanti della mia e della sua generazione. La dipendenza dal riconoscimento altrui. Una sorta di inesausta fame d’amore surrogata in certe dinamiche seduttive. L’esigenza costante si farsi percepire performanti. La volontà di lasciare un segno del proprio passaggio sulla Terra. Tornando alla questione degli specchi, è stato come prendere coscienza un po’ alla volta che Manzoni, pur col suo vissuto così radicale, non era affatto un alieno, ma un uomo fatto della stessa sostanza mia e della gente comune. Il bisogno di risarcimento, le rimostranze nei confronti della specie umana possono innescare processi spaventosi. A Manzoni, diciamo così, la situazione è decisamente sfuggita di mano.

Anni Settanta, Servizi segreti, Biennale di Venezia, mortai, pallottole, poesia. Missioni clamorose e Tondelli. Nobile genia e desiderio di perdizione. Amore e morte. Perché hai scelto proprio Gian Ruggero Manzoni, artista noto ai sapienti ma ignoto ai più, come icona per un romanzo? Che tipo di fascino e di ‘contemporaneità’ emana, al di là delle storture macchiettistiche, da fumetto?

Per il paradosso che ho introdotto prima, Manzoni ha in sé contemporaneamente i caratteri del monstrum, nel senso latino del termine, di prodigio, di essere strano, e dell’uomo qualunque, il conoscente della porta accanto. Al di là della sua vicenda umana fuori dall’ordinario, mi ha molto colpito la sua aspirazione a redimersi. Ha vissuto l’equivalente di un numero esagerato di vite messe assieme, è una miniera di esperienze e storie al limite della plausibilità, pare davvero uscito da un albo della Marvel. Una vicenda biografica così iper-romanzesca andava assolutamente raccontata, ma non solo per il fascino maledetto che promana, bensì per quanto può insegnare.

Una grande vita feconda sempre una grande contraddizione?

Direi proprio di sì. Nelle esistenze letterarie come in quelle reali. Ma parimenti, grandi contraddizioni fecondano grandi vite.

Qual è il cuore della vita di Manzoni, a tuo avviso, il momento della svolta esistenziale? E quale l’episodio che ti ha più divertito narrare? E quello che ti ha intimorito di più?

Potrei rispondere facilmente: la seconda missione bosniaca, dove è sopravvissuto per grazia ricevuta. Ma il suo percorso è stato così complesso e ingarbugliato che non ha, a mio giudizio, un solo punto di svolta, piuttosto è una serie ininterrotta di scatti in avanti, ritorni, fughe, ripensamenti e ripartenze… Più facile individuare un fil rouge, e parlo dell’amore che ha portato e porta a due persone: suo padre e sua figlia. Non credo di peccare di un eccesso di romanticismo se dico che il desiderio di strapparsi di dosso la vecchia pelle abbia avuto a che fare essenzialmente con i suoi sentimenti verso queste due persone, che sono poi il suo sangue.  Per quanto riguarda gli aspetti più leggeri, l’episodio di Manzoni nella zona a luci rosse di Bordeaux insieme al Macellaio, il camionista col quale viaggiava in giro per l’Europa, mi strappa un sorriso ogni volta che ci ripenso.  Quanto all’ultima questione, il Risolutore è un’infilata di situazioni raggelanti, alcune delle quali mi hanno tenuto col fiato sospeso giorno dopo giorno, nei primi anni di composizione del romanzo. Ma meglio non anticipare nulla al lettore, per non rovinargli il piacere della scoperta.

Alla porzione ‘in battaglia’ alterni quella dedicata alla vita privata (la vita con Ester, soprattutto). Mi pare che manchi la parte del Manzoni poeta, romanziere, ideatore di cenacoli artistici, di avventure letterarie. Ancora di più: sarebbe stato opportuno aggiungere, forse, una bibliografia in calce al libro per permettere al lettore, affascinato dal ‘personaggio’, di aggirare la vita precipitandosi nell’opera. Dimmi.

È vero, il racconto del Manzoni artista, scrittore e intellettuale è ridotto all’osso. E con mio grande rammarico, confesso. In origine avevo detto parecchio anche su questi aspetti, ma come sempre avviene molte pagine sono state tagliate – il manoscritto era oggettivamente sterminato. Ad ogni revisione ho sottratto delle grosse parti sulle quali avevo trascorso mesi e mesi di lavoro di lima. È un processo che fa male al cuore di ogni autore, come ben sa di scrive narrativa, ma si tratta in fondo di rinunce necessarie alla fruizione dell’opera. Il Manzoni en plein air è ad ogni modo accessibile a tutti, volendolo approfondire; l’obiettivo di questo libro era svelarne la parte oscura.

Quanto, a tuo dire, la vita di Manzoni ha influito sulla sua opera? A tratti, mi pare, il contemplativo decapita il guerriero – e viceversa. In pratica, ti chiedo una riflessione sui termini opposti (ma riassunti, credo, drammaticamente, in Manzoni) ‘azione’ e ‘contemplazione’.

In un passo definisco Manzoni un polytropos, affibbiandogli l’aggettivo greco “dai molti giri” riferito a Odisseo, poveramente traducibile con l’italiano “multiforme”. Un oggetto d’indagine di questo tipo confonde la visione. Ma la mia sensazione è che il contemplativo e l’uomo d’azione abbiano agito in lui uno accanto all’altro, a ore alterne, in una singolarissima, stramba dinamica di compresenza.

Quale opera di Manzoni ti ha affascinato di più? Quale opera, in assoluto, ti ha aiutato a perfezionare la strategia narrativa per raccontare Manzoni?

I teatranti perduti, una composizione di medaglioni dedicati da Manzoni ciascuno alla vita di un parente stretto (genitori, nonni, zia…) è a mio giudizio un capolavoro del genere biografico. Oltre a essere una lettura coinvolgente che consiglio a tutti, è stata la mia fonte primaria, è grazie a questo libro che ho potuto ricostruire il background di Manzoni. Ho attinto lì interi episodi, e li ho trasfusi nel mio romanzo a volte senza neanche citarli come manzoniani, tanto si integravano in modo fluido nella mia trama. Virgolettare quei passaggi mi dava l’impressione di rovinare un piccolo miracolo… Rispetto alla seconda domanda, so che non è possibile non citare in via prioritaria il Limonov di Carrere, ma aggiungerei anche un classico della storiografia, Stalin di Robert Conquest, e poi, per motivi diversi, True Story di Michael Finkel e La spada di Mishima di Christopher Ross.

*In copertina: Matteo Bosi, “Ritratto di Gian Ruggero Manzoni”, fotografia, 2016

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