Innokentij Annenskij (1856-1909) è il poeta chiave che distilla il simbolismo russo nelle nuove forme liriche, audaci, che precedono la Rivoluzione. Allampanato, lunare, alieno ai dibattiti pubblici, Annenskij, nato nella Siberia occidentale, licenziato in filologia all’Università di Pietroburgo, fu direttore del collegio di Kiev e infine del ginnasio di Carskoe Selò. Troppo raffinata, affine alle sensibilità bianche e sottili, nonostante un importante studio di Eridano Bazzarelli (La poesia di Innokentij Annenskij, Mursia, 1965), la poesia di Annenskij è pressoché introvabile in Italia: nel 2011, per la cura di Nilo Pucci, Ladolfi Editore ha pubblicato Il libro dell’insonnia. Grava su di lui, forse, la critica un po’ tranchant espressa da Angelo Maria Ripellino nella leggendaria Poesia russa del ’900:
“Anima pudica e sensibile… cantò con modi strazianti l’angoscia dell’esistenza e l’orrore della morte. Gli riuscivano specialmente i motivi d’incubo e insonnia, svolti sul metro di allucinate cantilene… Scarna e concisa, ma ricca di morbide velature musicali, la poesia di Annenskij nasce da un tedio senza scampo, da una sorta di fastidio metafisico… Espressione scorata e quasi funebre d’una cultura in declino, la poesia di Annenskij lascia un senso di vuoto e di mestizia nel lettore”.
In realtà, le poesie tradotte da Ripellino, chiaroscurali, hanno la notturna ambiguità della falena, ripercorrono padri nobili – la poesia del sommo Fëdor Tjutčev –, verrebbe voglia di leggerne di più:
Nella nebbia delle onde spruzzi d’argento
e frusti colori di smalto…
Amo i mattini d’autunno e le loro
soavi lusinghe irrevocabili!
E amo la schiuma sulla riva
quando biancheggia irrequieta…
Qui, finché il cielo è torrido, conservo
avidamente un residuo di giorni nebbiosi.
Ma là in qualche luogo smaniano nel fuoco
altri io simili a me, senza numero né nome,
e una giovane ignota esistenza
si consuma per me dall’angoscia…
Eppure, Annenskij è stato il vero maestro della giovane generazione di poeti che avrebbe mutato per sempre il corso della poesia russa. Non tutto si può chiedere a un poeta, non sempre l’audacia o l’assalto: basta un colpo d’ago, a volte, per modificare lo slancio di una corsa. Fu traduttore instancabile: rese Euripide – pressoché tutte le tragedie – e Orazio, Goethe, Baudelaire, Rimbaud; trovò coincidenze con Paul Verlaine e Leconte de Lisle. Ha scritto alcuni dei saggi più profondi sull’opera di Dostoevskij: qui proponiamo un articolo del 1905 che insiste sulla forza profetica – ma non rivoluzionaria e tanto meno ‘sociale’ – e “crudele” di D.
Annenskij, in particolare, è stato il maestro di Anna Achmatova, che nella sua opera riconosceva ‘possibilità’ liriche altrimenti impossibile. A Lidija Čukovskaja, diversi anni dopo, nel 1940, la Achmatova ricama con parole irrevocabili il senso di questa maestria:
“Quanto era immenso… tutti i poeti della mia generazione sono venuti fuori da lui: Osip Mandel’štam, Boris Pasternak, io, e perfino Majakovskij”.
L’immensità si sconta con il pudore, in reame di veli.
***
Su Dostoevskij
Ricordo Dostoevskij nei sui ultimi anni. Più tardi, in molti si sono diretti in pellegrinaggio verso la sua casa, sulla Kuznechnij Pereulok, come si fa visita nel luogo natale di Anton Čechov o a Jasnaja Poljana, da Tolstoj. Per mancanza di ambizioni accademiche, ai miei tempi evitavo la tentazione di spiare le carte da parati dei grandi scrittori, conservando l’illusione del poeta-dio: morirò senza sapere se Dostoevskij parlasse accavallando le gambe o in qualche modo si soffiava il naso. Ho visto Dostoevskij sul palco – e nella bara. L’ho sentito quando ha pronunciato il discorso su Puškin. Entrava di fretta, per affrontare il palco: la spessa redingote, la figura curva, gli zigomi pronunciati e la barba rada, e quelle orbite, così profonde. Aveva una voce rotta dalla raucedine, che le conferiva un tono intimo e minaccioso; ha letto in fretta. Concluse recitando, con lo stesso tono inquieto, Il profeta, di cui ricordo, stagliato, quel verso:
“Bruciare i cuori delle persone con il verbo”.
Dostoevskij volle raffinare la pronuncia di quel verso. A vent’anni, i profeti ci sembravano i socialisti, meri prodotti di laboratorio pronti a modificare la realtà. Bruciare i cuori della gente con il verbo, significava, per costoro, modificare la vita sociale tramite la rivolta. Soltanto ora la figura del profeta Dostoevskij mi è più chiaro. Il profeta Dostoevskij, voglio dire, non è un predicatore né un insegnante: in lui, certo, c’è lo stigma del messianismo, ma egli, piuttosto, è un sognatore, un martire, un epilettico che della realtà riconosce le audacie dolorosamente acuminate. Se si incarica dei peccati del mondo, non lo fa perché lo desidera o perché questa umanità dolente lo spinge alla compassione o alla trasformazione: non può farne a meno, non può fare a meno di essere oppresso dai propri tormenti come la luna, rivolta al sole, non può fare a meno di assorbirne e rifletterne i raggi. Fin dall’epoca de Il signor Procharčin, racconto frainteso e dimenticato, per Dostoevskij il profeta è misero vaso divino, creatura fratturata, devastata, a cui è sottratto tutto; è un uomo tragicamente solo, e se le sue parole illuminano la coscienza o accendono i cuori lo fanno in modo casuale, inatteso, improprio.
Il profeta, in Dostoevskij, non è un agente, un uomo attivo, è la più sorprendente negazione dell’attività, è la degenerazione di un uomo in un essere che non ha nulla dell’asceta, del settario, del rivoluzionario. Tutto, nel profeta, è frutto dell’intuizione, dell’elaborazione di ciò che percepisce, che dipende da lui tanto quanto lo sviluppo del feto dipende dalla madre che lo nutre. Il profeta ci parla della primordiale subordinazione, della fatale passività della nostra natura; il rivoluzionario, al contrario, glorifica l’azione, il principio maschile della protesta e dell’audacia.
La connessione del profeta di Dostoevskij con la poesia, mi interessa. L’antichità, come è noto, ci consegna due teorie della creazione, due prototipi di poeta. Il primo, ellenico, in cui predomina la componente attiva. Il poeta è il ladro del fuoco, l’intermediario tra gli dèi e il popolo: il genio è un demone e la poesia qualcosa di simile a un gioco divino. Il secondo tipo, che ci è tramandato dalla Bibbia, riassume la forma passiva del genio: il poeta è un posseduto. Il poeta è profeta, fiamma nascosta nel vaso, che illumina la sofferenza, l’acutezza del dubbio. Goethe, Puškin, Heine richiamano il primo tipo di poeta, nei freschi giardini dell’Arcadia; quando leggiamo Dostoevskij, Edgar Allan Poe, Gogol’, Tolstoj e Baudelaire presto precipitiamo sulle coste arse del Mar Morto.
Dostoevskij era dominato da un’unica forza: è il poeta della nostra coscienza. Proprio per questo è così dolorosamente vicino al lettore: con lui sperimentiamo i muti tormenti del ladro che muore, soffriamo nel sottosuolo, sentiamo l’eroe che da un infido piedistallo passa alla miseria; tutti questi svergognati ubriaconi, gli impiegati dal naso storto e il viso come un uovo, i latrati dei lacchè, i sarti ottusi, le case gialle e luride, le umide mattine d’autunno, sarebbero inutili se non vi fosse una coscienza che ha dolorosamente bisogno dello squallore e perfino della spudoratezza.
In Dostoevskij la coscienza è doppia: c’è quella di Raskòl’nikov, attiva, che agisce con violenza, lancia sfide, tenta una via di uscita, ma poi si umilia e cura le ferite; e c’è quella, passiva, di Svidrigajlov, che cresce silenziosa, quasi impercettibile, si gonfia come un ascesso maligno, è impotente, assediata dai fantasmi, e infine muore per strangolamento. Un critico ha scritto che il talento di Dostoevskij è crudele: ma non è crudele, piuttosto, la coscienza umana, crudele e spietata?
E lo stile di Dostoevskij? Quanti pleonasmi, iperboli, discorsi patetici e strozzati, frasi involute… Ma in questa strana formula possiamo scoprire un significato: questo, in effetti, è il linguaggio di una coscienza inquieta, che si ingarbuglia, a volte cervellotica, che si ripete e si impantana, ha paura di fidarsi della densità della sua forza, della potenza delle immagini. Disprezza ogni decoro e ogni ornamento, Dostoevskij: ha gli occhi incollati sul lettore.
Dicono che la poesia dei romanzi di Dostoevskij sappia infondere fiducia nel prossimo. Può darsi. Ma è pregna di un tale dolore che obbliga a pagarla, piagati, questa fiducia, quanto una disciplina. Soltanto ora capisco perché, allora, Dostoevskij si è fermato su quel verso, che distingue il suo compito:
“Bruciare i cuori delle persone con il verbo”.
1905
Innokentij Annenskij