25 Maggio 2019

La storia scandalosa e violenta di Letitia Elizabeth Landon, il Byron in gonna, amata da Elizabeth Barrett Browning e trovata morta in Africa

Daisy Hay, che bel nome femminile, si è impuntata a scrivere su Times Literary Supplement cose ben note, ma da ribadire:

1. La letteratura romanzesca nasce per dare qualcosa in pasto alla noia alle signore inglesi che aspettavano il rientro dei mariti dalle campagne napoleoniche.

2. Questa letteratura era soprattutto di consumo ed era la vera storia di quel periodo, il mito di Byron essendo qualcosa di strano, anomalo, accolto dagli inglesi solo perché strambo.

3. Ci sono delle vittime, in questa vicenda, e sono donne. Il nome più ribadito, lassù in Inghilterra, è Letitia Elizabeth Landon, figlia appunto di un venditore d’armi, John, caduto in disgrazia quando l’Inghilterra faceva guerra col suo mercato liberale, avendo vinto sul campo Napoleone.

Questo il panorama. Aggiungete un volumone biografico sulla Landon dal titolo La vita perduta e la morte scandalosa di Letitia Elizabeth Landon, la celebre Byron femminile e avete tutti gli ingredienti per un soporoso e sentimentale scorcio inglese.

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Cerchiamo di vederci chiaro. Intanto, il cognome Landon. Letitia nasce nel 1802, e il sogno della biografa ossessionata (per sua ammissione) dal sesso è che sia lei la musa ispiratrice di Cime tempestose. Io ho un’altra ipotesi: che sia una parente dello stampatore Charles Landon. A Londra i cognomi erano quelli, e se non erano parenti è comunque particolare eccitante.

Charles Landon compare nelle lettere private di Stendhal all’anno 1816. In quell’anno Stendhal è già uomo maturo ma preferisce giocare a fare l’immaturo in letteratura, si limita ad approntare libri di successo, storie di pittori e musicisti. (Già qui una differenza con UK, dove il Romanticismo miete successi strappando lacrime e bandiere nazionali). In sintesi: la rivista all’epoca più prestigiosa, Edinburgh Review, ospita le bagarre medievali di Scott, tuona contro Byron ma poi tutti si stimano a vicenda.

Sul continente, invece, Metternich tromba e fa politica, lo zar di Russia si copre d’oro e in Francia ci si lecca le ferite. In Spagna e Italia ci si addobba di stracci e si fa crepare d’invidia gli stranieri industriosi che scendono in Penisola per istruirsi.

Scrive insomma Stendhal all’amico Croizet per far stampare la Storia della pittura “proponi a Mr. Landon di fare incidere al tratto i quattro profili dei temperamenti in Lavater. Se hai qualcuno sull’isola, consulta anche i suoi prezzi che sono, mi sembra, un po’ alti” (leggo dal terzo volume edito da Aragno, Il laboratorio di sé).

La citazione non è peregrina, serve a capire che gli inglesi lanciano la letteratura a fini edonistici e, s’intende, per profitto. Ci si rubava i clienti a vicenda, tra riviste. La madre della Landon, abbandonata dal marito che fuggiva dai creditori, cerca di promuovere la figlia che sa scrivere con grazia e brio (“purple writing”) e a Brompton, dove si sono trasferiti perché Londra è troppo cara, hanno un vicino di casa interessante. Qui gioca il Caso: il vicino gestisce un giornale emergente, Literary gazette. L’uomo si chiama William Jerdan, è una cimice e nell’epistolario di Stendhal nemmeno compare, benché il francese tenesse mille nomi in tasca avendo viaggiato per far la guerra e la diplomazia.

Insomma questo Jerdan, già sposato, trova spazio sulla rivista per Letitia, le scova un posto per vivere in un sottotetto (che gli inglesi per pruderie chiamano “attico”) e se la tromba. Detto senza timore di offendere il buonsenso, ma i fatti riportati dall’articolessa di Daisy vogliono dire questo. Ora, questa gazzetta letteraria vendeva bene e si rivolgeva a un pubblico più giovane e meno compassato rispetto al foglio supremo che si stampava a Edimburgo, quello che leggeva e contro il quale inveiva Stendhal (ci torniamo tra un attimo).

Su Literary gazette Letitia sarà la signora suprema per le recensioni, un Burgess ante litteram, e pare che in meno di dieci anni si sia messa in tasca 2,500 sterline. Non male; il punto era la vita privata, che proprio non andava. La gente già allora malignava sul concubinaggio della scrittrice; solo la recente biografia di Miller ha appurato che i tre figli dei quali si sapeva erano di Letitia e del direttore della gazzetta.

Ecco un esempio di poesia che piaceva allora: “Ricordi quella notte autunnale, / stavamo presso il mare / e notammo un piccolo vascello che si scaldava / sulla schiuma della marea?”. I soggetti erano effimeri, piacevolmente romantici secondo la moda che Heine colse nell’aria e seppe propagare con forza tirannica e tedesca in quel giro d’anni.

Di qui la definizione della Miller “che l’ironia della Landon è romantica, più infelice per il vuoto che per sentimenti tragici, eretti solo per essere derisi e smontati” e così dà la stura ai paper neo-conservatori-e-femministi che sbancano nelle egemoni università USA).

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Tra una poesia e l’altra la gazzetta fece bancarotta; i letterati che giocavano facile erano gente danarosa della ruling class, gente come Disraeli alla cui moglie la Landon era legata. Ma non bastava. Quell’insetto di Jerdan manda tutto all’aria, non lancia una rivista nuova, abbandona la moglie e l’amante e si trova un’altra accompagnatrice. Uno pensa che i patemi finiscano qui, che Letitia si accasi. Sì, ma le cose erano più complicate, era il giugno del 1838, la regina Vittoria regnava da un anno e nemmeno lei era sposata, l’Inghilterra era l’impero e i suoi funzionari dovevano tenersi pronti a partire per il cuore di tenebra africano.

Letitia sposò George Maclean che la desiderava da almeno un paio d’anni; una volta che i due si unirono lui riprese il suo incarico in Africa occidentale, a Cape Coast, allora Costa d’oro, oggi Ghana. Lì aveva un castello, servitù (leggi “schiavi”) e una concubina. Destino infame.

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La schiavitù come istituzione era stata abolita solo nel 1833 con editto su carta pregiata ma già nel 1807 la civile Inghilterra aveva proibito il commercio di uomini (mossa di propaganda per reagire al “liberatore” Napoleone). Ora pensate cosa doveva essere il castello di Cape Coast: troppo forti gli interessi dei mercanti locali i quali si attaccavano al codicillo che permetteva loro “commerci legittimi” in loco. L’ipocrisia è sopportabile solo se si riesce a mentire a se stessi: la storia di Letitia Landon si avvia a copiare le stragi di Shakespeare. Anzi, sembra presa dal Rinascimento spagnoleggiante del nostro Meridione, dove una donna come Isabella di Morra veniva rinchiusa in un castello molisano perché amava il nobile sbagliato, leggeva Petrarca e poi il padre la faceva fuori.

Così anche la Landon: fu trovata sgozzata, non si seppe né si saprà mai per quali motivi, se per gelosie del marito (che già conviveva) o, più probabile, perché voleva far luce sulle vicende degli indigeni che lavoravano per loro. Magari voleva capire se l’ex concubina poteva avanzare pretese legali, suggerisce l’articolessa di Daisy.

L’inglese usa la parola “slander”, calunnioso, per definire la situazione di chi convive con l’illecito. Traducetela come preferite. Tenendo conto l’attenuante della nostra giornalista Daisy che si trattava di un periodo di transizione. (E quando mai? Intanto il colpo finale all’istituto della schiavitù lo diedero i Tory, nel 1841, sia lode ai conservatori inglesi).

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L’altro insetto nella vita di Letitia Landon, lo schiavista africano, sopravvisse alla moglie e liberò il suo estro con questa epigrafe apposta sul castello per la moglie: “Quel che vedi, viandante, è marmo / vano, purtroppo, un monumento al dolore / eretto dalla sua triste sposa”.

Conclusione salomonica dell’articolessa: “I silenzi e i cassetti ancora chiusi nella storia della Landon sono una necessità delle cose, ma sostennero e resero possibile il mondo che prima la celebrò e poi la gettò via. La nuova biografia della Landon si inserisce saldamente in una tradizione di resoconti ancora germinali sulla vita di donne complesse quali quelli di Claire Tomalin (La donna invisibile), Amanda Foreman (Georgiana) e Lucasta Miller (Il mito di Bronte): a portare testimonianza di quelle vite.”

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La storia non finisce qui, naturalmente, serve il piglio salace dell’italiano, o comunque di chi osservi UK dalla terraferma per capire gli stati d’animo della poetessa infelice, del giornalista da strapazzo, dello schiavista-rigattiere africano.

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Lettera di Stendhal al direttore di Edinburgh Review, Siena 10 aprile 1818:

“Gli inglesi viaggiatori in Italia vedono solo qualche famiglia nobile, non scendono mai nel ceto di mezzo [in italiano nell’originale] o, quando ve li ho visti, ostentavano una freddezza e un’alterigia insolenti. Per fare dei viaggi, tali persone non possono che copiare i libri. Nel 1817, gli inglesi a Roma si incontravano solo tra di loro.  Se andavano a casa del banchiere Torlonia, era solo per far delle scenate sul suo giudaismo. Confesso che, vista la generale esecrazione, al viaggiatore inglese che volesse vedere altro dalle guide e dai banchieri servirebbe una buona dose di socievolezza che sarebbe l’antipode del carattere nazionale. […] La vita si è ritirata dall’Italia con Napoleone. D’altronde la vostra politica la si immagina nera e traditrice, e si ha paura del cupo. Sappiate che egli è così rimpianto a Milano come a Firenze. La sua più orrenda tirannide era meno nociva al popolo dell’attuale inerzia. Voi fremereste se vi parlassi del Piemonte. […] Ho spesso rotto qualche lancia a favore degli inglesi. Tuttavia persisto nel trovare in tutti gli inglesi che ho conosciuto un segreto principio d’infelicità. Da dove deriva ciò? è un gran problema. Forse dalla religione. Del resto, Signore, la vostra rivista è il miglior libro che io conosca, quello che mi dà più piacere da dieci anni a questa parte. Ma, perdio, non abbiate bisogno dei baffi per credere nel coraggio”.

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Ora a voi, giudicate cos’è meno triste, se i versi scritti in viaggio verso l’Africa dalla Landon; oppure la pagina di diario di uno Stendhal incongruamente innamorato di una che non se lo filava.

Anche Stendhal va bene: Stendhal che amava l’Italia e le sue passioni e che quando amava, lo faceva poco virilmente, senza imporsi, quasi lasciandosi baciare.

Bonne chance,

Andrea Bianchi

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Landon: “Ma tu sei affondata sotto l’onda, / il tuo posto è ignoto e luminoso; / sembro risiedere a fianco di una tomba, / e starvi da sola”.

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Stendhal nel suo diario, trentenne, verso il 1817:

“L’estrema familiarità può distruggere la cristallizzazione. Una bella fanciulla di sedici anni si stava innamorando d’un bel giovane della stessa età, il quale ogni sera al tramonto passava sotto le sue finestre. La madre lo invita a passare otto giorni in campagna. Rimedio ardito, ne convengo, ma la fanciulla aveva un’anima romantica, e il bel giovinetto era un po’ terra terra: dopo tre giorni ella lo disprezzava.

Ave Maria (twylight), in Italia, ora della tenerezza, dei piaceri dell’animo e della malinconia: sentimenti aumentati dal suono di quelle belle campane. Ore di quei piaceri che sono legati ai sensi solo dai ricordi.

Il primo amore d’un giovane che esordisce in società, è solitamente un amore ambizioso. Di rado si manifesta per una fanciulla dolce, simpatica, innocente. Come tremare, adorare, sentirsi alla presenza d’una divinità? Un adolescente ha bisogno di amare una creatura le cui qualità la innalzano ai suoi propri occhi. Ma al declinar della vita si torna tristemente ad amare il semplice e l’innocente, non potendo più sperare nel sublime. Tra i due estremi si pone il vero amore, che pensa solo a se stesso.

È difficile scorgere le grandi anime, esse si nascondono: di solito ne traspare soltanto un poco di originalità. Ma di grandi anime ce n’è più che non si creda.

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