
“Ho vissuto il nome amato…”. Un’idea di poesia
Poesia
Francisco Soriano
Manco fosse un capodoglio, Herman Melville ha dato cibo un po’ a tutti, di qui e di là dall’oceano. A Pavese, che ha tradotto e amato Moby Dick, un «poema sacro», così lo diceva, a Fenoglio, che si è preso tutto il grasso, il cui “biblico” Partigiano Johnny, parola di Dante Isella, «rispetto alla letteratura cosiddetta resistenziale […] è come il Moby Dick nella letteratura marinara».
I rapporti con Melville ci furono, certo, ma non così “elettivi” come accadde con gli elisabettiani, Shakespeare, ma soprattutto Marlowe (di quest’ultimo è la scrittura pionieristica e sconvolta, pura e grezza, e forse anche quella sensazione di sentirsi un “minore di razza”, un cocciuto apripista), e poi Donne, Milton e poi Chaucher e Coleridge (la cui Ballata fu l’unica traduzione tra le innumerevoli compiuta e pubblicata in vita, apparsa sul numero del dicembre 1955 della rivista genovese «Itinerari»). E poi Emily Brönte, dal cui capolavoro Wuthering Heights egli ricavò una versione teatrale, La voce nella tempesta, probabilmente del 1941, e poi Synge e Bunyan e Shaw e Browning e Hopkins, è difficile dire cosa non avesse letto e tradotto Fenoglio di quella che considerava la sua terra d’elezione (si veda sul tema lo studio canonico di Mark Pietralunga, Beppe Fenoglio and English Literature: A Study of the Writer as Translator, University of California Press, Berkeley 1987). E Melville? Melville il piemontese lo transita, lo traduce, di certo non se ne innamora, di certo lo ingurgita. Hanno “parenti” comuni i due, tra gli elisabettiani, e questo basta.
A un ex compagno di liceo, Giovanni Drago, in una lettera piena di cose interessanti, è l’autunno 1940, Fenoglio scrive tra l’altro di avere avuto con un amico «una disputa in lingua inglese sulla valutazione critica di Typee di Melville». Non certo il libro con cui il gigante “scrittore con il rampone” avrebbe voluto passare all’eternità. Un’altra frizione, di maggiore interesse, capita una ventina d’anni dopo, tra il 1959 e il 1960. L’otto marzo 1959, su «La Fiera Letteraria», Alberto Bevilacqua riporta la dichiarazione di Fenoglio di voler «scrivere un lungo racconto marinaro o, più esattamente, oceanico». Più che il Coleridge di quattro anni prima, qui Melville ci cova. Nonostante l’oceano di Fenoglio rimarrà la “Langa”, il «racconto marinaro» viene scritto, ma non è lavoro destinato a dargli gloria. È il testo Una crociera agli antipodi, ordinatogli dall’editore Einaudi il 18 dicembre 1959 per una antologia di racconti per bambini affidata alle cure di Giovanni Arpino e poi mai pubblicata (la casa editrice torinese l’ha dato alle stampe solo nel 2003). Fenoglio consegna il lavoro nel 1961 e la favola del giovane Bobby Snye che per sfuggire a debiti di gioco s’imbarca nel porto di Plymouth (e in cui c’entra molto Billy Budd senza annesse speculazioni sulla Caduta originaria), diviene paradigmatica della sua situazione editoriale post mortem. Riedito nel 1980 dalla casa editrice torinese Stampatori, il lavoro suscita i sospetti di Maria Corti, la curatrice dell’edizione critica delle Opere per conto di Einaudi, che lo ritiene con certezza la traduzione di un originale mai rintracciato, e poi di Lorenzo Mondo, l’amico e giornalista che per primo mise mano al “calderone” Partigiano Johnny, che lo considera uno “scherzo” scritto in giovane età. Dopo di ciò i tastabili rapporti “diretti” tra Melville e Fenoglio terminano. E cominciano quelli sotterranei.
Melville è complesso come la Bibbia, e di esegeti ne richiede quanti i suoi lettori, non ammicca mai a una verità condivisibile e “pubblica”. Fenoglio, cui le complicazioni melvilliane poco importano, non riesce solo a dirci che la Resistenza è una categoria che appartiene all’animo umano (per questo basterebbe davvero un semplice «brocco brado»), ma nel Partigiano inventa una sua “lingua d’uso”, un idioletto in cui il contenuto è talmente compenetrato alla forma da non poter districare l’uno dall’altra. In questa scrittura viscosa ci s’impegola, si s’infanga, s’affoga.
La scrittura difficilmente dà pace e piacere a chi la compie. Non solleva né tranquillizza né dà medaglie e dobloni. È facile, anzi, che lo scrittore arrivi a odiare quel “vizio” che lo prostra e percuote. Bisogna vincere una sorta di repulsione continua verso la “letteratura” per farla. E farla vuol dire cambiarle i connotati per sempre. A proposito della scrittura così Fenoglio in una delle sue rare e note: “Scrivo per un’infinità di motivi. Per vocazione, anche per continuare un rapporto che un avvenimento e le convenzioni della vita hanno reso altrimenti impossibile, anche per giustificare i miei sedici anni di studi non coronati da laurea, anche per spirito agonistico, anche per restituirmi sensazioni passate; per un’infinità di ragioni, insomma. Non certo per divertimento. Ci faccio una fatica nera. La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti. Scrivo with a deep distrust and a deeper faith”. Non certo per divertimento si scrive, ci si fa una fatica del diavolo. Non meglio andava a Melville, che pure pare avere una felicità degli dèi quando si mette al desco, e del suo libro “maledetto” così dice al nuovo amico e sodale Hawthorne, giugno 1851: “Fra una settimana circa andrò a New York, a seppellirmi in una stanza al terzo piano, e a lavorare come un forzato alla mia Balena nel mentre viene stampata. Questo è l’unico modo per finire il libro, adesso – tanto son spinto qua e là dalle circostanze. La calma, la freschezza, lo stato d’animo quieto e riposante in cui si dovrebbe sempre scrivere – temo che di rado mi appartengano. […] Mio caro signore, ho un presentimento – alla fine mi consumerò e perirò, come una vecchia grattugia logorata dal costante attrito del legno, ossia della noce moscata. Quel che più mi sento spinto a scrivere è bandito – non rende un soldo. Eppure non riesco a scrivere del tutto nell’altro modo. Così ne vien fuori un guazzabuglio, e tutti i miei libri sono raffazzonature”.
La scrittura è estrema resistenza allo scrivere, forzatura, inghippo, trappola, anomalia. Romanzi d’iniziazione. Così possiamo leggere Moby Dick e il Partigiano. Ismaele e Johnny si muovono su di un terreno difficoltoso, friabile, in condizioni dove la dinamica morte-vita è visibilissima a ogni passo. E senza che in questa dinamica si possa scorgere la trama di un progetto, di salvezza o di perdizione esso sia. In effetti i due eroi non vengono “formati” dalle vicende che subiscono, ma “iniziati”, cioè, e semplicemente, da quell’istante in cui vedono il vero volto del mondo e degli uomini non sono più come prima. Cambiano. Né nel bene né nel male. Divengono adulti. Considerando l’opera fenogliana come un magma unico senza un prima e un poi, potremmo vedere Una questione privata come il preludio, attraverso l’altra “maschera” di Fenoglio, Milton, al vero romanzo dell’adolescenza e dell’abisso, il Partigiano. «Correva, con gli occhi sgranati, vedendo pochissimo della terra e nulla del cielo. Era perfettamente conscio della solitudine, del silenzio, della pace, ma ancora correva, facilmente, irresistibilmente. Poi gli si parò davanti un bosco e Milton vi puntò dritto. Come entrò sotto gli alberi, questi parvero serrare e far muro e a un metro da quel muro crollò», finisce mirabilmente la “questione privata”. Milton, più duro e molto meno snob dell’altro, come diceva Fenoglio, consegna il testimone a Johnny. Sarà lui a penetrare la boscaglia, la selva oscura, a penetrare gli inferi.
Che cosa è la Balena? Quanta Balena c’è nel Partigiano? Il capodoglio che terrorizza Achab è davvero il Satana redivivo, la colpa vivente in ogni uomo? Di per sé, non ci fosse stato Melville a parlare per bocca di Ismaele, mai avremmo compreso che le profondità inimmaginabili raggiunte dal cetaceo e la sua potenza distruttiva sono nulla rispetto a quelle umane. Nel Partigiano, tuttavia, non c’è una Balena, non c’è un qualcosa di esterno da combattere (e i fascisti, dopo tutto, sono uomini anche loro), non c’è un così clamoroso Nemico. Tutto si gioca dentro. La Balena è dentro. “Riuscirono alle falde d’una grande collina, rasa ed asciutta, spenta di colore, sembrante a Johnny, credulo, una sollevata distesa d’asfodeli. Ma erano vivi. Correva, quasi aderendo al nudo, soffice pendio, un’aria sabbatica, cui aggiungeva restfulness il lontanante scoppiettio dei motori fascisti. Andavano a gambe abbandonate, su quella terra di pace, dimentichi di tutto, incoscienti a tutto fuorché alla sorda fatica che i loro corpi facevano per rinormalizzarsi del tutto, finché Fred con un mugolio si rovesciò per terra, vi si avvoltolò e rivoltolò tutto, a lungo, come un epilettico attivo. Johnny stette appoggiato al moschetto come a un bastone da pastore a guardar Fred come un cane che di se stesso staffila la terra, folle di gioia di vivere o per le pulci. Poi Fred, sempre rotolandosi, pianse liberamente e sonoramente, da destare gli echi della collina. E allora Johnny si ricordò di Tito, e lo pensò, ma come un morto morto secoli fa”.
Il Partigiano è il libro centrale di Fenoglio. Non c’è nulla che gli si possa paragonare, nell’opera del piemontese, per forza fisica d’impatto e di lingua. È il “libro dei libri” che inseguiva, ma che in certa misura non ha mai scritto. Che sicuramente, come ha ricordato Calvino, non avrebbe mai pubblicato “in quella forma lì”. Eppure, ringraziando gli altissimi, c’è, è sopravvissuto alla mania del suo autore. È il “brogliaccio” che sottostà il minuzioso lavoro di Fenoglio di scrittura e riscrittura. È la “scatola nera”, la brutta copia. A volte, viene da pensare, i libri devono essere sottratti alla mania persecutoria dei propri autori. E viene da menarlo, Fenoglio, per il fatto di non essersi accorto il punto esatto dov’era posto il suo dono.
Melville e Fenoglio non sono mai riusciti ad essere scrittori “da pubblico”. Nessuno scrittore autentico lo è. Cioè, può capitare per imponderabili situazioni che lo diventi, ma non è il suo obiettivo principale. Uno scrittore che si occupi troppo del mondo e delle sue chiacchiere non è uno scrittore. Melville fu anche uno scrittore “di fama”. Erano i tempi di Typee e Omoo, i fedeli resoconti dei primi venticinque anni della sua vita, e lui passava per uno scrittore “di mare”, da leggere sotto le verande, con una trama semplice semplice pure già sorretta da una lingua frondosa, poco agile ma felice. Un Cook in giacchetta e poggiato al desco, che inizia ad apprendere le malizie della scrittura. Poi le cose cambiarono. Melville divenne uno scrittore, e tutti sappiamo come andò a finire. Morì ignoto e ignorato da tutti, tranne per il solo ammiratore, James Billson, giovane letterato inglese, che gli chiedeva copie dei suoi libri, vecchi e nuovi, scoprendo nel vecchio Herman uno scrittore di qualità sopraffina (e a cui, vecchio e saggio d’anni, è il 20 dicembre 1885, scrive proverbi di questo tipo: «Deve esservi passato per la mente, come a me, che più la nostra civiltà avanza sulla linea attuale più a buon mercato diventa la “fama”, specie di tipo letterario»). “Riscoperto” negli Anni Venti del secolo scorso, fu il più grande scrittore del Novecento, come Hölderlin fu il più grande lirico del Novecento. Fenoglio quando morì, morì noto e in pompa. Eppure i suoi libri, tranne l’ultimo, Primavera di bellezza, dalle travagliatissime vicende editoriali, non è che vendettero granché. Era uno scrittore “di nicchia”. Anche per quella malaugurata “quarta” di Vittorini a La Malora (tirato in 2.000 copie come numero 33 per la collana dei “Gettoni” – ne furono vendute la misera quota di 1.040 volumi), che lo paragonava a un Faldella o a un Remigio Zena, insomma uno dei «provinciali del naturalismo». Ma del pubblico gl’interessava poco. Fino a un certo punto. A Pietro Citati, nel 1959, scrisse: «Lei mi sa sincero quando affermo che i premi letterari non mi tolgono né il sonno né l’appetito. Io non scrivo per competizione (per quanto lo sportsmanship sia un evidente aspetto del mio carattere), alla radice del mio scrivere c’è una primaria ragione che nessuno conosce all’infuori di me». Ma poi Beppe, tutto fuorché un solitario monaco, le recensioni le leggeva eccome, e si lagnava per la scarsa risonanza che toccò alla Malora, dicendosi uno «scrittore di quart’ordine», e poi continuava, «Non per questo smetterò di scrivere ma dovrò considerare le mie future fatiche non più dell’appagamento di un vizio» (e pure aveva la sua brava “cricca” di buoni critici dalla sua, dalla Banti, a De Robertis, a Vicari, a Forti e a Gallo). Se proprio fosse stato uno strafottente “duro e puro”, se avesse mandato dove dico io i vari Vittorini e Garzanti, forse quel Partigiano se lo sarebbe cucinato alla sua maniera. Anche Melville si lagnava parecchio della scarsa fortuna. C’era in questione la pagnotta. Poi fu impiegato alle dogane di New York.
È bene fare una riflessione sul fatto che i due romanzi più complessi, perlomeno nelle intenzioni, e fecondi della nostra letteratura, quelli che con il tempo mantengono una freschezza d’idee pressoché congelata, siano due opere immani e condite per frammenti come il Partigiano e Petrolio di Pier Paolo Pasolini (che tra l’altro non amava per nulla il piemontese, deprecandone l’«enigmatico grigiore»). (Giovanni Zimisce)