Anche la letteratura ha un odore ed una fragranza: il suo sapore è intrecciato alla sapienza sin dalla primissima consapevolezza documentaria: anzi, in un ipercorrettismo, tanti odori e tante fragranze, proprio perché i miasmi, nella personalissima percezione di chi li vive, “servono ad evocare luoghi, a ritrarre personaggi, a toccare le corde dell’emozione”. Insomma, il fior fiore dei nostri Classici è una bella “passeggiata olfattiva”, potremmo dire: in odor di santità (laica), tra una scorsa passeggera o uno sguardo più attento, benché alcune volte ci faccia percepire qualche brutto odoraccio, nel divertimento intenzionale dello scrittore di volerlo partecipare al suo lettore.
Ecco una carrellata di qualche esalazione esiziale: Don Chisciotte sente dolcissima e irresistibile la fragranza che emana dalla bella Dulcinea che, però, per lo scudiero Sancho, è solo odore di pesce guasto: per la serie, quando il naso e il fiuto viaggiano per strade parallele! Per non parlare, poi, del principe Fabrizio Salina di Tomasi di Lampedusa che s’inebria nella pungenza acre del suo giardino, di cui ricorda pure un certo lezzo di cadavere.
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Ma la casistica del puzzore non finisce qui: c’è di tutto per farsi storcere il naso, con un libro in mano, senza essere repellente per questo, chiariamoci subito! C’è un autore italiano, Francesco Melosio (Città della Pieve, 1609-1670), che può essere considerato il padre lirico della bromidrosi plantare: un autore minore del panorama storico italiano che non è passato inosservato ai suoi tempi, malgrado le informazioni su di lui siano piuttosto digiune. Dalle notizie di cui siamo in possesso, fu colto umanista e profondo conoscitore delle leggi: entrò al servizio dei potenti non solo a Roma, ma anche a Venezia e a Torino; del resto, era prevedibile questo mecenatismo, a mo’ d’invarianza per traslazione dei tempi! Attraverso le poesie denunciò, pur con apparente amenità, il profondo malessere del tempo. Tra le sue opere si ricordano: Discorsi accademici, Orione, Sidonio e Dorische e Poesie e prose. Simpaticissimo un sonetto in cui il poeta lamenta l’olezzo insopportabile dei piedi di una non ben identificata Nina, forse passibile della mancata accentuazione di due congiunzioni subordinanti, all’interno del testo, perché mentalmente “suonato”: «Come, se non sapete, ogni vicina / dice, che col saper nel naso date; / come se havete voi poca dotrina, / dice ognun, che in estremo ne sappiate. / Ah lo so, perché il piè vi puzza o Nina, / vi dan dell’acqua a’ piedi le brigate, / onde in darno per Dama vi spacciate, / mentre sapete tanto da Pedina. / Benche sembriate bella agl’occhi miei, / e possiate felice ancor chiamarvi, / esser ne’ vostri piedi io non vorrei. / Questo sol è di buono, che confidarvi / potrò con maggior quiete i fatti miei, / perche alcun non verrà per il calzarvi».
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Passando ad altri tanfi, come non ricordare la fastidiosa sudorazione ascellare, che per alcuni è avvicinabile a qualche prodotto ortofrutticolo, la cipolla,in primis, anche se il buon Catullo avrebbe fatto un paragone di tutt’altra specie, animale, cioè: «Noli admirari, quare tibi femina nulla, / Rufe, uelit tenerum supposuisse femur, / non si illam rarae labefactes munere vestis / aut perluciduli deliciis lapidis. / laedit te quaedam mala fabula, qua tibi fertur / ualle sub alarum trux habitare caper. / hunc metuunt omnes; neque mirum: nam mala valde est / bestia, nec quicum bella puella cubet. / quare aut crudelem nasorum interfice pestem, / aut admirari desine cur fugiunt» (Catullo, LXIX). Traduzione: “Non stupirti del fatto che nessuna donna, / o Rufo, voglia stendere sotto di te le sue tenere gambe, neppure se le corrompessi con il dono di una rara veste / o con il piacere di una pietra fine e trasparente. / Ti nuoce una cattiva diceria, secondo la quale si dice che / sotto le tue ascelle si annidi un caprone selvaggio. / Questo temono tutte; e non c’è da meravigliarsi: / infatti è una gran brutta bestia / con cui nessuna bella ragazza va a letto. / Perciò o uccidi il crudele flagello dei nasi / o smetti di stupirti del perché fuggono”. Un caprone sotto le ascelle, uach!
Anche la bocca, a volte, produceva la stessa sensazione: Ippocrate di Kos (460-377 a.C.), considerato il precursore della Medicina, insisteva nel dire che tutti i giovani dell’Antica Grecia dovessero avere un alito gradevole. Per questa ragione raccomandava un’igiene orale, indicativa del grado di dolcezza interiore e dello stato di purezza dell’anima. A tal fine pare aver formulato un collutorio aromatico che garantiva un refolo che non sapesse più di fiatella; per la cronaca, comunque, a base di vino puro, anice, semi di aneto e mirto, per chi fosse curioso di realizzarlo. Contro l’alitosi proseguì, nel tardo antico, il romanziere Apuleio: «Calpurniane, salve properis versibus. / misi, ut petisti, tibi munditias dentium, / nitelas oris ex Arabicis frugibus, / tenuem, candificum, nobilem pulvisculum, / complanatorem tumidulae gingivulae, / converritorem pridianae reliquiae, / ne qua visatur tetra labes sordium, / restrictis forte si labellis riseris» (De Magia, cap. VI), Traduzione: “O Calpurniano, con veloci versi, / io ti saluto e mando, come chiedi, / la pulizia dei denti, lo splendore / della bocca che viene dalle messi / d’Arabia, una sottile, candeggiante, / nobile polverina che ti sgonfia / la tenera gengiva e spazza via / i rimasugli d’ieri. Non vedranno / brutture di sporcizia, se per caso / a labbra spalancate riderai”.
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In ultimo, per completare il cerchio, le flatulenze letterarie: non se ne può fare a meno, ahinoi, in questa celere e sciolta trattazione! Iniziamo dall’impero romano: lo storico Svetonio attribuì la condanna a morte di Lucano al fatto che l’autore dei Pharsalia avesse citato un emistichio di Nerone, subito dopo aver emesso un fragoroso gas aerosolizzato, mentre si trovava ai bagni pubblici! Nel Medioevo abbiamo, invece, Dante vs Chaucer, detto tout-court. Nella Divina Commedia l’ultimo verso del Canto XXI dell’Inferno recita: «ed elli avea del cul fatto trombetta» in riferimento all’atto del diavolo Barbariccia, che, con questo segnale, dà inizio alla marcia della sua cricca di diavoli. Nel Racconto del Mugnaio, uno de I racconti di Canterbury, il personaggio di Nicholas sporge il suo posteriore da una finestra ed emette in faccia al rivale Absalom quanto facilmente immaginiamo. Due Giganti del Trecento, di petto, a gara col peto, in sostanza!
Facendo un volo pindarico, per salto di secoli, mi conservo, scrivendole, due chicche: in Notre-Dame de Paris, Victor Hugo fa emettere rumorosamente una pingue prostituta, «quattuor denarios aut unum bombum»: forse, la cosa è sfuggita a qualche musical, giustamente! Nell’Ulisse di James Joyce, che è l’ipostasi viva del flusso di coscienza, il personaggio principale, Leopold Bloom, fa un «vento» nel capitolo Sirene. Altri flussi, potremmo azzardare a dire! In pratica, non c’è puzza che non abbia un richiamo poetico o narrativo, ovvero artistico: l’esal(t)azione dell’esalazione si gioca su quella leggerezza, di cui lo spirito umano deve necessariamente nutrirsi, per non prendersi troppo sul serio. Nel frattempo, scartabello Il profumo della Letteratura, edito da Skira (2014) e curato da Daniela Ciani Forza e Simone Francescato: un libro che indaga i rapporti fra scrittura e sensazioni olfattive. Credo che serva ad ogni naso intelligente.
Francesco Polopoli
*In copertina: Théodore Géricault (1791-1824) e i fatidici “pezzi anatomici”