Alcolico, irreparabile, bellissimo. Il mio viaggio “Sotto il vulcano”
Letterature
antonio coda
Gli scrittori che ammiro ho iniziato a ammirarli detestandoli. Per leggere V. di Pynchon, per dirne uno, c’avrò messo cinque anni e tre tentativi andati a vuoto, quasi quanto c’ho messo per entrare in Seminario sulla gioventù di Busi, e fino a lì io a sparlare di Pynchon con i pynchoniani incontrati per strada: che sbruffone muscolare, che epigono dopo il suono dell’ultima campanella, quanto fumo!, e solo dopo essermi arreso alla sua forza letteraria, ammettendo la mia debolezza da lettore, ho visto quanto arrosto c’era: tanto arrosto da sfamare lettori per generazioni. Ero io che non avevo lo stomaco per reggere la sua portata.
Pynchon, comunque sia, scrive grosso. Romanzi per i quali occorre una preparazione atletica; ancora me la ricordo la piccola ma concreta fatica di portarmi nello zaino i suoi titoli o, per dire di un altro scrittore detestato fino alla mia capitolazione, Infinite Jest (“David Foster Wallace? Un cervellotico, un ossessionato, uno da cronicario della letteratura!”, dicevo io, ceeerto, che ho l’occhio così lungo che mi finisce sotto ai piedi, perciò lo calpesto e non ci vedo). Patrick Modiano, però, scrive libri minuti. Capisco sentire il cimento di doversi misurare con quei pesi massimi degli americani (non che i francesi debbano essere smilzi per forza: a me La ricerca del tempo perduto di un certo Marcel Proust fa tremare ancora i polsi e i cristallini), ma come si può tremare, per esempio, davanti a Nel caffè della gioventù perduta di 117 pagine di piccolo formato in tutto? Neanche il tempo di capire cosa ti sta disturbando, cosa ne stai odiando, che ecco l’hai già finito.
Pynchon e Wallace e Busi puoi lasciarli a metà, se non riesci a entrargli dentro, ma con Modiano sei praticamente già fuori mentre ancora ti stai chiedendo da quale punto ci hai messo piede. “Modiano? Leggi lui leggi uno stradario è lo stesso!” dicevo io, credo a nessuno dunque tra me e me, perché pynchoniani e wallaciani se ne trovano, tanti quanti proustiani e busiani, ma modianiani? Credo che neppure sia mai stato messo a battesimo l’aggettivo modianiano, non in italiano, quindi, semmai, ne dichiaro adesso la paternità. Dunque: se alcuni libri così belli da proteggere da sé la propria bellezza puoi lasciarli senza finirli, riservandoti perciò il gusto di sfidarli ancora più avanti, con Modiano diventa più difficile stabilire di darsi la seconda possibilità, poiché in apparenza il suo libro lo si è già letto arrivando persino alla fine! E giusto perché siamo in argomento: non sono di quelli che credono il lettore abbia il diritto di non leggere un libro fino in fondo; ammetto lo si scarti dopo avergli dedicato non più di una ventina di minuti, ma se appena si è andati oltre, se si è letto un primo capitolo o comunque più di dieci pagine, allora lì la sfida dello scrittore è stata raccolta dal lettore che, se dopo lo molla, non sta dichiarando la sua presunta indipendenza critica, che non è altro che l’obbedienza cieca al proprio edonismo rammollente, ma la sua ritirata.
I duelli tra il lettore e lo scrittore sono quelli che preferisco, sono i più cruenti e i più crudeli perché tutto il sangue sparso resta invisibile e dunque per l’occhio nudo non è successo niente. A questi duelli non potrà mai credere nessuno, nessuno li può testimoniare se non chi li ha combattuti. Lo scrittore e il lettore duellano con la scrittura rispettivamente durante la scrittura e la lettura del libro galeotto tra i due. In definitiva lo scrittore sfida a duello lo scrittore che è in lui, quando scrive, e il lettore duella con il lettore che è in lui, quando legge. Lasciare le cose a metà significa aver più che perso contro il più beffardo dei nemici: quel te stesso che ti rammenterà sempre la tua codardia, ben più insopportabile di una sconfitta: alla lunga uno finisce coll’essere più fiero delle proprie sconfitte che delle proprie vittorie poiché le vittorie rischiano di assomigliarsi tutte, a differenza delle sconfitte che sono come le famiglie infelici per Tolstoj.
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Lessi Nel caffè della gioventù perduta e ne uscii convinto di averlo percorso con la delusione di chi gira a vuoto, in realtà non ne ero mai uscito e l’ho capito entrando in Dora Bruder. Sono entrato in un altro libro di Modiano perché non sono mai uscito da quello prima e che non avessi mai smesso di vagare nel primo m’è diventato chiaro quando ho deciso di vagare nel secondo, altrimenti non l’avrei inteso che la scrittura di Modiano è proprio quel vagabondaggio in cui ti getta gentilmente. Non gl’ho resistito più. Arrendersi a
Modiano significa arrendersi a una verità semplice e terribile, succede questo quando accade la letteratura: siamo perduti, come il tempo.
Sono arrivato a Modiano perché Modiano ha vinto il Nobel per la letteratura nel 2014 e a me piace quando il Nobel lo danno a chi mi permette di sbottare come il Don Abbondio manzoniano: “Modiano! Chi è costui?”. Vale a dire: io ho letto Modiano per la prima volta con la ferma intenzione di sminuirlo, per poter commentare la giuria del Nobel con un narcisistico “Che banda di cialtroni!”. Perché privarmi del piacere così collettivo e di grido dello smascherare i Poteri Forti della letteratura? Vale in estetica come in politica: più uno si sente debole di suo più si sente consolato all’idea della presenza di Poteri Forti che certo, possono fare della sua vita quel che meglio credono, ma bada: a lui non gliela daranno a bere!, e il contentino di chi affoga è di morire con la bocca secca. “Dei due ingressi del caffè lei sceglieva sempre il più stretto, quello che tutti chiamavano la porta dell’ombra”.
Ci vuole mica tanto per comprendere che l’incipit de Nel caffè della gioventù perduta è bellissimo, ma io non potevo farlo, non dovevo!, mi stavo misurando con i Poteri Forti della Letteratura, eppoi: che fastidio, quegli indirizzi parigini a raffica! Cosa pretende, Modiano, che tutti sappiano orientarsi a Parigi in quanto Parigi-è-Parigi? Che solita solfa, eppoi, vediamo… Che pro-europeismo alla Vecchia Cara Europa! E, che altro… “Se veniva scritto nero su bianco voleva dire che era tutto finito, come quando sulle lapidi si incide il nome e la data”. La letteratura come il cimitero della memoria? I corpi hanno le tombe nella terra in cui diluirsi lentamente, in cui restare invisibilmente e poi tornare, attraverso i cicli impercettibili della trasformazione della materia, e l’immateriale delle persone dove va, i loro ricordi, il velo dei sentimenti? Nei libri scritti, le cui parole si diluiranno invisibilmente in chi li legge, attraverso chi li legge torneranno in circolo, in modi impossibili da descrivere, appena accennati… No, rifiuto tutto! Modiano, ma chi è costui? Via, il libro non lo accettai, lo infilai tra gli altri libri che mi riprometto di non rileggere giammai, e infatti ce ne ho messo di tempo per ritrovarlo, al fine di poterne parlare come sto facendo adesso.
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Ho provato a perdere quel libro sul perdersi ma non ci sono riuscito, e tra le altre c’è anche questa beffa nel tragico dei libri di Modiano: ci si perde ma mai del tutto e quel poco che rimane è la nostra angoscia, l’indizio che porta all’impossibilità, ma un indizio è già più che niente, e di fronte all’oblio il più-che-niente è di una potenza prossima alla commozione.
Ho letto Dora Bruder (1997) perché non ce la facevo più a star lontano da Modiano ma ero ancora troppo orgoglioso per ammettermi che avevo voglia di rileggere, cioè di leggere per la prima vera volta, Nel caffè della gioventù perduta (2007). “Sono persone che si lasciano dietro poche tracce. Quasi anonime. Non si distinguono da certe strade di Parigi, da certi paesaggi di periferia dove ho scoperto, per caso, che avevano abitato”. Il romanzo di Modiano sembra essere dettato dal caso ma la sua scrittura non si sottomette affatto alla dettatura. La esamina, la indaga, la ricostruisce, ne delinea i pieni e i vuoti. Chi non cerca banalmente degli esecutori ma punta ai loro mandanti mai veramente occulti, vale a dire alla verità sul male o alla verità sul bene o alla verità che nei confronti dei concetti di bene e male prova un comprensibile imbarazzo, sa che alla fine della storia non troverà nessuno da sbattere in una cella ma avrà trovato molto di più: una storia.
Leggendone i libri la domanda più larga che ti lascia è: di cosa va a caccia Modiano? In quale caccia vuole accompagnarlo chi lo legge sperando che non deluda ovvero che continui a deludere, a non dare risposte esatte, a indicare fantasmi, ombre, passaggi, indizi labili, che continui attraverso gli onesti mezzi della scrittura radicale a farci stare all’interno della realtà che è una nebbia, è un dettaglio che non va a collimare con nessun intero dal quale è stato staccato: la realtà è la piccola parte di realtà a cui riesci a avere accesso tu, e quella tua piccola parte non si potrà mai sommare con le piccole altre parti degli altri. Tutte le parti sono reali e non ci sono due parti che possano stare armonicamente assieme. Non c’è il decadente gusto per l’impotenza in Modiano, non c’è lo scetticismo caro ai baldanzosi o il nichilismo che riempie le giornate a chi fa colazione, pranzo e cena con il senso di vuoto leccandosi i baffetti alla nazi. C’è la condivisione di un fatto raccontato con il sorriso della Gioconda: questa è una verità, ora tu facci quello che ti va.
“Sembra però che ciò che ci spinge a fuggire d’improvviso sia un giorno di grigiore o di freddo che ci fa provare una solitudine ancora più acuta e la sensazione di una morsa che si chiude”. Se so che in giro c’è un Patrick Modiano che vuole sapere cosa ne è stato di Dora Bruder, se so che c’è uno scrittore che sa guardare e scrivere di quello a cui non guarda e di cui non scrive più nessuno, io sento che la morsa non si chiude e che alla solitudine toccherà continuare a mettersi frustrata sulle nostre tracce, inseguendoci disperata mentre noi forti di una innominabile gioia, di una segreta gratitudine, continueremo a inseguire le tracce lasciate dagli altri proprio per permetterci di scampare alla solitudine, tenendoci in perlustrazione, perdendoci ma mai veramente del tutto.
Antonio Coda
*In copertina: Patrick Modiano a Parigi, nel 2004; photo Ulf Andersen