12 Marzo 2021

La fede e la fiducia nella medicina. Un testo di Sergio Quinzio

Il magistero pubblico di Gesù – secondo lo schema elementare di Marco – è sigillato dal battesimo di Giovanni: senza l’acqua di un uomo, che lo inaugura, il Figlio non può agire. Alla prova nel deserto, segue la chiamata dei primi discepoli. Il primo gesto del Nazareno è la guarigione. Gesù guarisce insegnando – “entrato nella sinagoga si mise a insegnare” – e cacciando i demoni. La “dottrina nuova” che gli imputano gli avversari è questa: guida gli uomini e “comanda agli spiriti impuri”. Fuori dalla sinagoga – cioè dallo spazio sacro – Gesù si fa conoscere guarendo dal male; guarisce chi glielo chiede. Nel Vangelo di Giovanni la guarigione di “un uomo infermo da trentotto anni” si lega a una tempra teologica: Gesù guarisce di sabato, è il Signore del sabato, violando il precetto “faceva se stesso uguale a Dio”. Gesù è il Sabato, il Giorno dei Giorni ogni giorno. La guarigione del corpo è connessa alla conversione, al compimento della legge – che per i legalisti è il suo rovesciamento. Cosa guarisce Gesù? Che cos’è la malattia? Cosa significa ‘guarire’? Nel suo Commento alla Bibbia, Sergio Quinzio, intorno a un versetto di Matteo (“Insegnava nelle sinagoghe, proclamava l’annuncio del regno, guariva ogni malattia e infermità in mezzo al popolo”), scrive cose che impongono un pensiero, non articolato in opinioni. Le ribatto.

“Se c’è qualcosa a cui la predicazione di Gesù, subito e direttamente, emblematicamente si oppone è la stessa esistenza dei medici e della medicina. Anzitutto da questo possiamo misurarne lo scandalo e la follia. Le Scritture in più luoghi danno dell’opera dei medici un’immagine negativa… Ma nel grosso corpo in decomposizione della cristianità non restano ormai che alcune marginali sètte fanatiche a rifiutare i medici: l’equivalente di quelle che furono al tempo di Gesù le minoranze dei settari fanaticamente messianici. In realtà, il credente nella salvezza portata da Gesù che ricorre ai medici (come ai tribunali) esce dall’attesa della salvezza promessa da Dio, esce dalla logica della fede. Neanche l’orribile assurdità di duemila anni di attesa delusa e contraddetta può giustificare – se non per la misericordia di Dio che vuol perdonare la nostra debolezza e paura – il ricorso a un potere mondano la cui esistenza nega alla base il significato della fede. Questa verità, del resto, ha perduto l’aspetto di inverosimiglianza eccessiva e gratuita che poteva avere ancora ieri, quando i progressi della medicina (e delle scienze in genere) potevano ancora illudere circa la stabilità e abitabilità della casa innalzata dagli uomini senza l’aiuto di Dio: non più oggi quando la medicina industriale ha mostrato, dietro i prodigi dei trapianti e dei sessi chirurgici, degli sfinteri ricostruiti, della vivisezione e della sperimentazione sui feti, il dilagare delle iatropatie. Ormai la medicina ci ripropone netta l’antitesi fra salvezza chiesta a Dio e salvezza chiesta agli uomini… Il regno di Dio è la guarigione dalle malattie, Gesù manda i discepoli a “proclamare il regno di Dio e guarire” (Lc 9, 2). Nulla è più spaventoso agli occhi di Dio dei lucidi ospedali neotecnici dove la malattia e la morte, l’umiliazione e il terrore dell’uomo sono le materie prime di una potente industria, macchina pseudoredentrice che le trasforma in denaro con tassi di resa miracolosamente alti”.

La prima edizione del Commento è di cinquant’anni fa; trent’anni fa, nel 1991, è ripubblicato “senza che sia stata apportata alcuna variazione al testo”. Sergio Quinzio muore nel 1996. Il brano non va letto con spirito settario, da fanatici di ogni parte – pro vax, no vax, scientisti, retrivi reazionari, millenaristi, transumanisti –, appropriato all’epoca, adatto al governo che, indiscutibilmente, si fa guidare da consiglieri/scienziati (l’equivalente del governo dei filosofi, dei poeti, dei calciatori) senza comprendere l’entità della parola ‘scienza’. Il fanatismo fa i favori di chi pastura il caos dando ordini, concludendo un cosmo. Bisognerebbe, invece, meditare queste parole nel proprio chiostro, soli, perché la guarigione è cosa così importante da non poterla delegare ai decreti, legare al tempo, alle statistiche, alle tabelle dei centri sanitari, nelle sale d’aspetto dei medici di base. La malattia, per lo più, rivela un ragionamento sulla vita.

Se cambiamo abito culturale, le cose non mutano di molto. Così scrive Plotino nelle Enneadi: “Il saggio opporrà ai dolori quella potenza già acquisita e non sentirà accresciuta la sua felicità dai piaceri, dalla saluta e dall’assenza di sofferenze, né diminuita o distrutta dai loro contrari. Difatti, se quelli non gli hanno aggiunto nulla, come potranno questi contrari privarlo di qualsiasi cosa?”. Cosa dice Plotino? Nulla di più dell’antico motto greco, secondo cui il dolore porta sapere, l’unica forma di sapere è il dolore. Neanche questo. Plotino, infatti, ci porta al di là del bene e del male, ma non in una cauta e quieta accettazione del mondo. Plotino “aspirava al miracolo”, scrive Lev Šestov in un saggio dal titolo Discorsi esasperati, ci porta nell’“assolutamente inatteso”, nell’“imprevedibile”, oltre le evidenze della ragione – quelle per cui non può essere che così, lo dice la scienza, lo dichiarano i numeri. “Esigeva dagli uomini che rinunciassero a ciò che era loro più caro e non cessava di dire che quello che ad essi era più caro poteva essere loro tolto… non si debbono scambiare i doni degli dèi con quelli degli uomini”. Per Plotino non esiste la norma del numero, ma la chiamata, singolare – “Gli dèi, benché molti uomini siano presenti, si manifestano talvolta a uno solo, poiché soltanto questi sa guardare” – e a singoli, a unici, il filosofo preda dell’estasi si rivolge. Ma è così, è il miracolo a terrorizzarci, la disparità: eppure, “Plotino temeva più di ogni altra cosa la tranquillità e la sicurezza”. Si vive da inquieti.

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