05 Febbraio 2024

“Ancora oggi avvengono infiniti miracoli, ma noi li ignoriamo”. Piccolo discorso su “Ordet”, il film di Dreyer

È, credo, la quarta volta che scrivo questo articolo. “Cattivo segno” mi dico, “forse dovrei scrivere d’altro”. La verità – sempre antipatica, finché non la si ammette – è che il film in sé non mi è piaciuto. Peggio: mi ha annoiata. Provo a consolarmi: “144 inquadrature in due ore e quattordici minuti non sono uno scherzo (un film in media ne ha quattro-cinquecento). Però dai: è comunque Dreyer, Karl Theodor Dreyer, cos’hai al posto del cuore, che non sai apprezzare?”.

Per qualcuno l’articolo potrà finir qui, e lo rispetto, però per me non è questo il punto. Il film in effetti, piaciuto o no, mi ha detto parecchie cose, provo a scriver di quelle.

La famiglia Borgen (attorno a cui ruota Ordet, film in questione) non brilla certo per compattezza, i suoi membri sono un mosaico di umanità diverse: padre Borgen è un ex pastore protestate con una fede intiepidita, Dio lo ha seppellito sotto dispute religiose, cavilli, lui stesso lo ammette: “la colpa non è di Dio, è solo mia che non ho avuto fiducia in lui”. Il primogenito Mikkel è il figlio ribelle, nella tiepida fede del padre scorge il bigottismo, l’assenza assoluta di Dio; per quello è meglio dedicarsi alla casa, ai campi, alla scrofa. Figlio pragmatico Mikkel, è indubbio, però come dice sua moglie Inger anche lui ha una sua propria religione, che è quella del bene, della giustizia; e “il Signore lo si onora soprattutto seguendo i suoi insegnamenti” (Imitatio Christi). A guardarlo infatti sembra molto più simile a Cristo rispetto al padre, almeno lui sa amare. Inger poi, sua moglie, è un interessante soggetto, ci torneremo.

Infine, c’è Johannes, il secondogenito di padre Borgen. La prima scena in cui lo vediamo è quella iniziale: il suo corpo emerge da una collina ventosa dello Jutland, la campagna danese (la stessa in cui il padre di Kierkegaard aveva maledetto Dio) e con voce greve, le braccia alzate come a parlare a una folla sterminata e lo sguardo sempre immancabilmente rivolto fuori campo (al trascendente) dichiara:

“Ascoltatemi, voi impostori: Iddio punirà la vostra mancanza di fede, Iddio vi punirà perché le vostre anime sono tiepide e non volete riconoscere in me il Cristo ritornato a voi secondo il comandamento di colui che ha creato il cielo e la terra. […] Guai a tutti coloro che non vogliono credere, poiché soltanto colui che ha la fede potrà varcare la soglia del sospirato regno dei cieli”.

Eccolo: Johannes Borgen, Johannes il pazzo, il veggente, il messia ritornato, decidete voi. Certo è che i suoi studi kierkegaardiani li ha presi alla lettera se ha operato una imitatio christi talmente radicale da credersi egli stesso il Cristo. E come Kierkegaard anche lui intraprende una critica serrata all’infedeltà che dilaga nella sua comunità, microcosmo del mondo. La sua denuncia scandisce le vicende di vita dei suoi compaesani, persino il pastore si becca la strigliata: “tu che predichi la fede sei privo di fede più degli altri”.

In effetti, pazzo o no, Johannes non ha tutti i torti. Sono infatti i personaggi stessi a dichiarare apertamente la loro mancanza di fede. A detta loro i miracoli sono avvenuti solo quando Gesù era in vita, a quelli qualcuno è disposto a credere ma oggi, oggi non avvengono più miracoli. L’unica che sembra avere davvero fede è Inger, moglie di Mikkel. Con sguardo soave rivolto al cielo e voce materna consola la desolazione del suocero:

“Sai cosa penso io? Che ancora oggi avvengano infiniti miracoli e noi li ignoriamo. Il Signore ascolta le nostre preghiere ma preferisce operare di nascosto, per evitare che se ne sparga la voce”.

Magnifico personaggio, Inger, angelo del focolare, più che le gole di casa Borgen sembra dissetarne gli animi; sembra quasi, mi dico, più Cristo lei che Johannes, forse non è un caso che sarà lei crocifissa, sacrificata. Anche il fatto, apparentemente contraddittorio, che nemmeno lei sia disposta a credere a Johannes non mi fa mettere in dubbio la sua fede, piuttosto la rafforza. Ovviamente, infatti, in questo mosaico di personaggi nessuno crede al pazzo figlio di Borgen, il quale nella sua imitatio christi comprende pure il misconoscimento che era toccato a Gesù. Dreyer sembra inscenare quello che Kierkegaard aveva ben espresso in Esercizio del cristianesimo:

“la maggior parte delle persone che vivono oggi nella cristianità trascorrono i loro giorni nell’illusione che, se fossero stati contemporanei di Cristo, lo avrebbero senz’altro riconosciuto, nonostante l’incognito”.

In realtà la storia insegna qualcosa di diverso: Gesù, se davvero era Dio, non lo abbiamo riconosciuto a tal punto da crocifiggerlo. Mettiamo però per un attimo che quell’uomo fosse effettivamente Dio: perché in così pochi se ne sono accorti? L’errore di chi pone questa domanda sta proprio nel credere che Dio, se c’è, dovrebbe essere evidente (ai sensi, alla ragione), invece l’unico organo che può riconoscere Dio è quello del cuore. Se la relazione che intrattengo con lui è una relazione d’amore il meccanismo è proprio lo stesso di quando ci si innamora. Cristo si deve riconoscere dentro di noi non fuori di noi. Se ci si pensa infatti non c’è un solo passo dei Vangeli in cui Gesù dice d’essere il figlio di Dio, sono gli apostoli e gli altri fedeli che lo riconoscono. E in base a cosa lo riconoscono? Non “per la carne ed il sangue” (Mt 16,17) bensì per una rivelazione interna, per un’adesione del cuore.

Ecco il punto: al di fuori del proprio cuore non c’è evidenza di Dio, per questo Kierkegaard può dire che “la fede crede a ciò che non vede”. Al di fuori di questa fede semplicemente non vi è fede ma idolatria. Di essa è priva la famiglia Borgen e le persone che le gravitano attorno, ma attenzione: i personaggi non sono privi di fede perché non sono disposti a credere nella deità di Johannes (sarebbe idolatria) bensì perché non sentono Dio nei loro stessi animi. Gli unici poli che nel film hanno il cuore visibilmente scaldato da questa presenza sono Inger e le sue bambine.

Se però non c’è evidenza di Dio come si può accedere alla fede? È qui che emerge un altro tema kierkegaardiano: l’unico modo per credere è tramite un atto di libera scelta, se non vi è evidenza di Dio sono costretto a scegliere facendo affidamento solo al mio istinto e alla mia libertà: o ho fede o non ho fede.

È a questo punto forse che lo scettico (il Mikkel della situazione) storcerà un po’ il naso: a cosa dovrei credere esattamente? Risponderei proponendo un gioco, lo faccio anche con me stessa, tutti i giorni. Il gioco è questo: consiste nel partire da un primo gradino di fiducia, e allargarla. Si può partire anche da qualcosa di estremamente semplice, ad esempio: quando mi alzo dal letto la mattina ho fede che ci sarà un pavimento a sostenere i miei piedi, ho fede che mi aspetta una colazione, del nutrimento, il sole fuori, qualcuno che mi darà il buongiorno e magari, si spera, una bella giornata. Da qui mi posso allargare, arrivare anche parecchio lontano e dirmi che ho fede nel fatto che in questa vita riceverò amore, che mi verrà fatto del bene e non del male. Il tassello finale è il più difficile ed è quello che dice che mi aspetta un destino di amore e di vita e non di morte e di disperazione. Difficile questo, molto difficile.

Credo comunque che la fede sia come un muscolo: la maggior parte delle persone lo usa inconsapevolmente (nessuno, quando si alza la mattina, si chiede se ci sarà un pavimento a sostenerlo), altri invece lo allenano, e allargano “il campo di fiducia”. Nessuno ne è veramente sprovvisto. Chi fosse privato di questo muscolo sarebbe privato di quella parte dell’uomo che Simone Weil ha identificato come il sacro, ossia appunto l’aspettazione che ci venga fatto del bene e non del male. L’incarnazione non è altro se non la promessa che questa attesa non sarà tradita, che val la pena avere fiducia. Alla base di questa fiducia, per tornare a Dreyer (e a Kierkegaard), sta comunque una scelta: non ho fede perché mi piego all’evidenza ma perché opero una scelta. Anche se forse in realtà la scelta di compiere questo salto si piega anch’essa a qualcosa, non però a un’evidenza esterna bensì interna, che è appunto quel senso del sacro, quella fiducia (desiderio, speranza) che mi sarà fatto del bene.

Alla fine del film sono due i miracoli. Il primo: Johannes guarisce dalla sua follia, se fosse stato il Cristo avrebbe dovuto tacerlo, è bene quindi che rinsavisca e, nell’essere “solo Johannes” ritrovare davvero Cristo. Il secondo, che è la chiusa del film, non ve lo svelo, così, magari, vi costringo a guardarlo. Basti sapere però (per chiudere i ragionamenti) che il secondo miracolo avviene perché si ha fede, e non prima. Anzi si potrebbe dire che il vero miracolo del finale sia la stessa fede, il suo ritrovamento. Gli animi si distendono, si illuminano, si commuovono.

Carl Theodor Dreyer non è, come molti hanno detto, un “regista spirituale”. Secondo me è più esistenzialista: mostra cosa accade quando la vita si fa guidare dalla speranza (che è lo spirito) e quando invece rinuncia, affossa i suoi stessi desideri. L’auspicio di Dreyer comunque è lo stesso del suo maestro Kierkegaard. Anche lui danese, quasi un secolo prima, s’è arrovellato sulle stesse cose, tutte le mattine decidere di fidarsi. È quasi un lavoro, tortura, tribolazione, benedizione:

“Sì, beato colui che non si scandalizza, ma crede: e beata è la sua vittoria, poiché la fede vince il mondo (Gv 5,4) vincendo a ogni istante il nemico nel suo intimo che è la possibilità dello scandalo. Non temete il mondo, la povertà, la miseria, la malattia, il bisogno, l’avversità, l’ingiustizia degli uomini, le loro offese, i loro maltrattamenti; non temete nulla di ciò che può distruggere solo l’uomo esteriore; non temete quelli che possono uccidere il corpo (Mt 10,28); ma temi te stesso, temi ciò che può uccidere per te Jesum Christum […]. Temi e trema; perché la fede si porta in un fragile vaso di terra (2 Con 4,7) nella possibilità dello scandalo. Beato colui che non si scandalizza, ma crede”.

Esercizio del cristianesimo

Bianca Cesari

Gruppo MAGOG