07 Giugno 2020

“Mi domandò in che modo potesse servirmi, con un tono che rese la sua proposta più simile a una minaccia”. La storia di Davide nel romanzo di Michael Arditti

Mical, figlia di Saul, racconta il suo primo incontro con David

Lo udii, prima ancora di vederlo, suonava la lira, dalle sue dita fluivano note levigate come seta. Merab e io ascoltavamo al riparo nel cortile. La Madre ci aveva proibito di entrare nella camera del Padre quando era impossessato dallo spirito malvagio. Non sapendo cosa fosse uno spirito malvagio, mi figuravo un dio filisteo dalla lunga coda squamosa, facile da pescare quanto una carpa del lago di Genezaret. Quindi attesi che la Madre fosse di spalle per strisciare fino alla stanza, dove trovai il Padre rannicchiato in un angolo, si mordeva le mani, lo sguardo perso nel vuoto, come se vi scorgesse la cosa più terrificante mai vista da un uomo. Avevo quattordici anni ed ero terrorizzata.

Corsi al piano di sotto e la Madre mi scosse come se fossi io impossessata, poi mi premette forte contro il suo petto, promettendomi che con il tempo quegli spiriti si sarebbero stancati e allontanati. Ma mentre gli uomini comuni potevano permettersi l’attesa, un re doveva tornare alle proprie responsabilità. Lei faceva tutto il possibile per affrettare quel processo, avvolgendogli intorno alla fronte garze imbevute di acqua di rose e filtrando pozioni di issopo, aloe e mirra. Avvicinò persino una maga che il Padre aveva bandito, promettendole che, se fosse riuscita a risanarlo, sarebbe stata nuovamente libera di praticare la propria magia. Tuttavia, o per incompetenza, o per astio, fallì. Poi, per dare prova di non averlo abbandonato, il Signore gli mostrò la via. Una mattina, mentre percorreva avanti e indietro la stanza, il Padre udì due serve ammonite che intonavano un canto della loro patria. Mio fratello Gionata, che gli era accanto, lo descrisse in piedi immobile, il volto sollevato, come se si fosse appena sfilato un elmo. Gionata chiamò immediatamente le donne e ordinò loro di cantare ancora. Dapprima il Padre ascoltò calmo, ma d’improvviso il suo umore mutò. Scattando, scagliò un poggiapiedi contro una donna e addentò la gamba della sua compagna. Fuggirono urlando. Gionata le obbligò a tornare, ma la loro agitazione arrivò al Padre, cosicché qualsiasi virtù del loro canto andò perduta.

Dopo aver ascoltato il racconto dettagliato delle serve, Ioab, lo scudiero di mio cugino Abner, propose di mandare a chiamare suo zio David, un pastore dal raro talento musicale. Non si potevano compiere tosature, vendemmie e festeggiamenti del novilunio a Betlemme, il loro luogo nativo, senza la sua musica. Nessun altro, insistette Ioab, più di lui sarebbe stato in grado di riportare equilibrio nella mente del re. Abner nutriva dubbi sul fatto che un semplice pastore potesse riuscire laddove uomini più saggi avevano fallito. Merab e io nutrivamo dubbi su ogni affermazione pronunciata da un rozzo millantatore come Ioab. Mia madre e Gionata, tuttavia, erano disposti a provare qualsiasi cosa e, con mio sollievo, la loro fede fu ricompensata. David venne e, come disse Gionata, non mostrò alcun timore quando il Padre gli mostrò i denti. Dal momento stesso in cui iniziò a suonare, le gote del Padre riacquistarono colore, un raggio di sole dopo la tempesta. Questa volta, per giunta, il giovamento ebbe durata. Tre giorni dopo fu giudicato abbastanza in salute da poter incontrare la famiglia. Abner gli tagliò la barba, poiché non era ancora prudente lasciargli usare un rasoio. Gionata e i gemelli gli fecero il bagno. La Madre gli porse dolci fragranze e biancheria pulita. Insieme a Merab e al nostro più giovane fratello, Isbaal, io fui la prima ad avere il permesso di vederlo. Seduto a schiena eretta sul suo divano, la corona sul capo, ci chiamò a sé. Merab e io ci avvicinammo per baciarlo, ma Isbaal, che a dieci anni era troppo grande per simili sciocchezze, indietreggiò verso la porta. Gionata lo prese per mano e lo condusse dal Padre che gli diede un colpetto sul capo, come se fosse stato di ritorno dalla terra dei filistei e non attanagliato da uno spirito malvagio in un mondo che solo lui aveva conosciuto.

Azzardai un’occhiata all’altro lato della stanza, verso il musicista, che si alzò in piedi con lo sguardo abbassato e la lira stretta a sé, come se fosse uno scudo. Con stupore, vidi che era un giovane uomo, di solo due o tre anni più grande di me, ma allontanai il confronto. Nonostante avessi udito la purezza fanciullesca della sua voce, mi aspettavo che lo zio di Ioab fosse un uomo di mezza età. Tornata al piano di sotto, mi decisi a risolvere l’enigma e cercai Ioab, che si trovava nell’atrio e intratteneva la guardia decantando i propri meriti nel successo di David. Mi salutò, esibendosi in un beffardo inchino ossequioso e mi domandò in che modo potesse servirmi, con un tono che rese la sua proposta più simile a una minaccia.

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Betsabea, moglie del capitano degli ittiti Uria, narra il suo primo incontro con David

Sorride e io torno a respirare, poi si getta addosso a me e mi punge le labbra con un bacio. “Hai ragione. Ti dimostrerò di poter competere con uomini di vent’anni più giovani”. Mi afferra con una mano, mentre con l’altra mi strappa il mantello dalla schiena. Tento di ritrarmi e di ammonirlo allo stesso tempo, respingendolo e urlando: “No, mio signore, vi prego! Pensate al vostro onore… a Uria… alle vostre figlie… al Signore!”. Le mie parole non hanno effetto e si aggrappa alla parte superiore della mia veste, strappando i delicati ricami di Matred. Con l’unghia raggiungo la pelle del suo collo e vi disegno una linea di sangue. Di colpo mi schiaffeggia una guancia. Sono atterrita e dolorante, ma ancor di più, sollevata di avere arrestato il suo attacco. So che dovrò pagare il mio sprezzo. Mi esilierà nel deserto del Negev, ma Uria si unirà a me e saremo liberi.

“Desidero che sia chiaro” afferma. “Non sono un uomo che ama combattere per i suoi piaceri. Ho combattuto per il regno. Il resto lo pretendo di diritto”.

“E io, mio signore, sono una suddita o una schiava?”

“Entrambe, se lo desidero”. Mi guarda freddo, ma il gelo nel suo cuore non ha smorzato il fuoco nel suo basso ventre. Agguanta il mio mantello, che adesso mi pende da una spalla, lo getta sul pavimento.

“Sto per urlare”

“Urla pure. In un palazzo tutti sono abituati a sentire grida.”

Intrappolata e ammutolita, so di essere perduta. Mi strappa via la veste con una tale brutalità che temo nella sua mente mi stia lacerando le carni. Sono sopraffatta dal suo odore: non è quello di un uomo dopo una giornata di fatiche, ma la puzza dello stufato lasciato troppo a lungo sul focolare. La sua bocca addenta la mia e i nostri denti sbattono. Le sue mani mi stringono i seni talmente forte che sembra voglia unirli in uno solo. Mi trascina sul letto, impreca mentre inciampa sulla mia lunga veste. Si stende su di me, suda e mi bagna di saliva, la sua umidità è ripugnante quanto il suo peso. Fingo di essere una bambola, mi dico che, poiché sono stata maledetta, devo essere punita, come se tale violenza – tale stupro – fosse mia scelta. Mi preme la mano contro la bocca e mi domando se abbia pronunciato la mia riprovazione ad alta voce, oppure se il solo fremito delle mie labbra lo offenda. Gli mordo il palmo, ma poiché ho la bocca premuta, lo pizzico appena. Alzo lo sguardo verso le stelle e tento di scorgere Chima e Chesil, ma il suo sudore mi offusca la vista. Mi penetra come se stesse prendendo d’assalto una cittadella. Poi, gracidando come una rana prima della pioggia, si spinge in avanti e rotola più in là nel letto. Agguanta la mia sottoveste per coprirsi il ventre, meno, ne sono certa, per pudore che per orgoglio.

Batte le mani e con una rapidità perturbante accorre Ionadab, che accresce la mia vergogna porgendomi la veste. La riconosco, ma non so cosa dovrei farci, come se le ferite mi fossero state inferte alla testa. “Vuoi che ti aiuti?”, chiede e la minaccia delle sue viscide dita sulla mia pelle mi desta. Afferro la veste dalle sue mani e me la infilo, le lacerazioni di essa si sovrappongono alle mie. Mi alzo eretta, provo dolore anche dove il re non mi ha straziata, e mi chino a raccogliere il mantello, tirandomelo addosso come un sudario. Ionadab mi offre il braccio che io respingo con uno schiaffo. Sembra ferito mentre mi guida verso le scale, la sua mano a un palmo dalla mia spalla. Prima di scendere, mi volto per un’ultima, quella che io confido essere l’ultima, occhiata al re, che giace floscio sul letto, senza accorgersi o apparentemente inconsapevole di me. Ionadab mi guida di nuovo verso il cortile, ancora gremito di soldati. Desidero urgentemente gridare ciò che mi è stato fatto, illuminarli su quale re stiano servendo, ma dubito che ne sarebbero sconvolti. La mia vita è mutata più in due ore che in diciassette anni e temo che ogni uomo sarebbe David se ne avesse la possibilità.

Michael Arditti

*Si pubblicano due stralci da “The Anointed”, l’ultimo romanzo di Michael Arditti, che racconta la storia biblica di re Davide attraverso gli occhi di tre donne, Mical, Abigail, Betsabea. La traduzione è di Valentina Gambino

**In copertina: Daniele da Volterra, “Combattimento tra Davide e Golia”, 1550-1555 circa

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