Prima di approdare ai suoi «luoghi santi» e dopo aver viaggiato «quando era un piacere», si ritrovava sempre lì: in una contea inglese, a scalfire con la penna i fantasmi del passato, il genio familiare che tornava a visitarlo.
Appena risvegliato dalla conversione al Cattolicesimo, l’indiscusso maestro della satira Evelyn Waugh diede alle stampe, nel 1945, il romanzo Brideshead Revisited (Ritorno a Brideshead). Allora pensò che era fatta, era riuscito a scongiurare un altro dolore, dopo l’ultima lacerante guerra (in cui era rimasto illeso perché congedato dall’azione). Eppure, lo accarezzava ancora una vaga nostalgia.
Almeno li aveva riuniti tutti fra le sue pagine: amici, amanti e sogni di giovinezza. Per loro aveva tenuto fede al dono dell’amicizia, riscattandoli dal peso degli anni grazie alla luce della religione che investe con una strana Provvidenza i destini dei personaggi, nobili e sparuti cattolici in terra anglicana.
Attutito il brio del wit naturale, dai toni umoristici e paradossali di Decline and Fall (Declino e caduta, 1928) e Black Mischief (Misfatto negro, 1932), e superate le atmosfere farsesche di A Handful of Dust (Una manciata di polvere, 1934), era ancora il cinico e vecchio Waugh, ma anche il più autentico. Questa volta aveva provato ad esplorare con grazia le remote regioni del cuore, raccapezzando i brandelli di un mondo svanito sotto le ceneri e recuperato nella memoria.
Noto alla critica per l’eletto compito di ritrattista delle maniere e dei valori dell’aristocrazia, il romanziere eccentrico e un po’ snob seppe cogliere come pochi lo spirito gaudente della vita lieta e agiata del periodo interbellico, incantando e immortalando un’intera generazione che Humphrey Carpenter chiamerà non a caso la “generazione Brideshead”. Capolavoro della maturità, questo più intimo “romanzo cattolico” è un testamento spirituale e, insieme, un affresco di un’era che nei fatti coincise con l’ultima stagione della civiltà aristocratica britannica, preludendone il vorticoso declino esorcizzato negli svaghi e divertimenti di una ritrovata “età dell’oro”.
Incastonati in questa cornice, i personaggi sono ammantati di una patina che lascia trapelare profonde contraddizioni. Dietro l’alter-ego di Charles Ryder – ex capitano di plotone e autore delle sue «Memorie sacre e profane» – Waugh presenta, illuminandoli a poco a poco, tutti i membri della famiglia con cui l’ambizioso protagonista ebbe la fortuna di stringere i rapporti negli anni della sua formazione.
Al cuore del romanzo, la sontuosa casa di Brideshead, centro di gravità e dimora monumentale dei Flyte-Marchmain, che richiama come un magnete ospiti e padroni.
Per lo studente di origini modeste, il portale magico per quel mondo meraviglioso sarà l’amicizia esclusiva con il giovane lord Sebastian, l’affascinante rampollo dei Flyte, che va in giro per Oxford in compagnia del suo teddy bear di nome Aloysius (e non si astiene dal pettinarlo, ammonirlo e sculacciarlo quando gli conviene). Vanesio, volubile e capriccioso, gode dei privilegi ammessi al suo status, incarnando l’archetipo del puer aeternus innamorato della sua infanzia, che porta sempre con sé, ma è anche avvezzo all’alcol e tormentato da colpe dissipate nei vizi.
Lontano dalla solitudine domestica e dai ricordi di un’infanzia infelice, Charles troverà in Brideshead un Eden privato pronto ad accoglierlo, condiviso nei primi giorni con Sebastian, quando il pittore in erba è abbagliato da cupole barocche e scorci in stile Vanbrugh, prima di conoscerne i segreti e le falle. «Et in Arcadia ego» è il monito che presiede alla prima parte del libro: la consapevolezza che di quel tempo non resterà né bellezza né innocenza.
“È così che voglio ricordare Sebastian, com’era quella estate, quando vagavamo insieme in quel palazzo incantato tutto per noi; Sebastian che gira nella sua sedia a rotelle tra i bordi degli orti alla ricerca di fragole alpine e fichi maturi, mentre passa attraverso la successione di serre, da profumo a profumo e da clima a clima, per cogliere la noce moscata e scegliere le orchidee per i nostri occhielli; Sebastian che zoppica, con difficoltà da pantomima, fino alle vecchie camere dei bambini, seduto accanto a me sul logoro tappetto a fiori, con l’armadio dei giocattoli vuoto davanti a noi e nonna Hawkins che ricama compiaciuta nell’angolo, dicendo, ‘Siete uno più birbante dell’altro; un’accoppiata di bambini, voi due. È questo che vi insegnano al college?’”
Dopo di lui, il novizio conoscerà la sorella siamese Julia, animata dalla stessa indocile natura, poi l’irriverente Cordelia e il pedante Bridey, i quali arrivano l’uno dopo l’altro a formare un quadro più complesso – e sempre meno brillante – di un’aristocrazia che non è quella vuota e un po’ ingenua dei romanzi precedenti – come gli stralunati coniugi Last – ma una classe in avanzato stadio di decadenza, sul punto di crollare, e rigidamente arroccata sul passato glorioso della propria casata. A capo della famiglia, tiene le redini dei suoi protetti la devota Lady Marchmain, allontanata dal marito fuggito a Venezia – lungo i canali dell’amato Baron Corvo – per ripararsi dal nepotismo familiare. Sotto la sua ala, i giovani figli accompagnati dal nuovo amico avranno la gioia di condividere una gita più libertaria da tipici inglesi in vacanza sul continente.
Sembrano, è vero, lontani parenti d’oltremanica dei Finzi-Contini del nostro Bassani che pure aveva in mente l’autore inglese durante la stesura del suo romanzo di Ferrara. Discendenti dei nobili edoardiani della saga dei Forsyte di John Galsworthy e precursori dei moderni Crawley di Downton Abbey, possiedono il lustro della casta, il prestigio della debolezza.
Oltre il velo della finzione, l’ispirazione primaria per la creazione dei personaggi – più o meno dichiarata, e non certamente ascrivibile a tutti loro – arrivò a Waugh dall’incontro con una delle più carismatiche e tragiche famiglie inglesi del tempo: i duchi di Lygon-Beauchamp, residenti di Madresfield Court, a Malvern.
Erano William Lygon – vertice del Partito Liberale e conte di Beauchamp – insieme a sua moglie Lady Lettice Grosvenor, con due schiere di magnifici figli: William (soprannominato “Elmley”, il quale ereditò il titolo paterno), il bellissimo Hugh Patrick (o semplicemente “Hugh”) e lo sportivo Richard Edward (provetto giocatore di cricket), accanto alle ragazze più vivaci e indipendenti: Lettice, Sibell, Mary (“Maimie”) e Dorothy (“Coote” o “Pollen” per gli amici). Dorothy e Mary saranno anche attive militanti, l’una incorporata nella Women’s Auxiliary Air Force e l’altra affiliata alla Croce Rossa durante la Seconda Guerra Mondiale.
In particolare, la figura di Maimie, la bellezza della famiglia, offre lo stampo per il personaggio di Julia, descritta come il volto diafano da “perfetto Quattrocento italiano”. Quanto agli originali Sebastian, un folto gruppo di amici e compagni oxoniani tratteggia gli aspetti del folle Peter Pan: per primo, il caro Hugh, ammirato dall’amico Terence Greenidge come “il tipo elegante di jeunesse dorée dai tratti quasi femminei”, seguito da Alastair Graham (“amico del cuore” del giovane Evelyn), o l’apollineo Stephen Tennant – il più brillante dei ragazzi “Bright” – e Harry Clifton, l’eccentrico proprietario di Lytham Hall. Tuttavia, come confessò lo stesso Waugh a Coote, la Cordelia modello, tutti loro erano riflessi soltanto in un frammento dell’universo “Brideshead”, il resto dei fili lo aveva lasciato alla fantasia e alla fede.
Ma se la frequentazione dei Lygon gli aprì le porte dell’aristocrazia ribelle di quegli anni ruggenti, Waugh fu anche l’animatore di club studenteschi, come i membri squinternati del Club degli Ipocriti. Associato alla cerchia dei “Bright Young People” (tra le sue file, partecipavano anche le sorelle Lygon), assaporava con questi lunghe sessioni di cocktail parties e feste spasmodiche con tanto di travestimenti e burle grottesche, da lui ritratti nel famoso romanzo Vile Bodies (Corpi Vili, 1930) che non a torto è stato definito dalla critica “il Grande Gatsby britannico”.
Circondato da esteti e fannulloni, più cinici e disillusi degli spensierati giovani d’anteguerra, vede il loro leadernella figura di Harold Acton, futuro critico d’arte trasformato in Anthony Blanche, il dandy balbuziente di Brideshead. È proprio lui ad intonare, a suon di megafono, una parodia della famosa scena del balcone, scioccando studenti e dons con una strofa della Waste Land eliotiana – nella turpe visione di Tiresia – e dando così voce alla “meccanica” gioventù moderna:
“‘Io Tiresia ho sofferto prima del tempo’ recitò in tono strappalacrime, sporgendosi dalle veneziane –
‘Tutto ciò che viene fatto su questo stesso divano o l-letto,
Io che sedetti a Tebe sotto le mura
E camminai negli abissi dei morti…’”
Superata l’esperienza traumatica del conflitto, tornerà alla mente del maturo scrittore una fantasmagoria di ricordi: gli anni di scuola, impastati alle atmosfere dei bei giorni indolenti nei cortili di Hertford a Oxford, e con essi le baldorie, le scorribande universitarie di spensieratezza e allegria piena, da qui le scoperte, gli incontri mondani e le letture giovanili. Ammaliato dagli echi di un’Inghilterra prebellica, fra tutte queste ricordava quanto aveva amato da ragazzo le poesie dello Shropshire Lad (Il ragazzo dello Shropshire, 1896) di A. E. Housman, disteso sulle sue “colline azzurre del ricordo”, e la celebre Memoir di Rupert Brooke (1918) nella penna di Sir Edward Marsh – soprattutto quei passi luminosi sui campi di Rugby che approfondivano i piaceri dell’amicizia e lo riempivano d’amore per le sue stesse avventure. Avrebbe dunque immortalato i suoi “anni d’oro” come l’iconico poeta georgiano, ancora vivido nella memoria collettiva, intingendo dello stesso spirito peterpanesco l’inno alla giovinezza pronunciato dall’ingenuo e scellerato Sebastian. Sfiorato dal timore che tutto possa cambiare da un momento all’altro, l’eterno ragazzo prega più forte che mai la sua unica fede nel presente:
“Se solo potesse essere sempre così – sempre estate, la vita sempre solitaria, il frutto sempre maturo…”
In questo grido di infantilismo poetico è racchiuso tutto il senso di una gioventù difficile, o la “prova” del suo ultimo Gilbert Pinfold (1957), quella che anche Alec Waugh (fratello dell’autore) aveva osato rivelare nel suo scandaloso Loom of Youth (L’incombere della giovinezza, 1917). L’apparente paradosso dell’accettare tutti i piaceri e le ferite per mordere il frutto della vita, o conservarlo intatto in un’immaginaria pentola d’oro da ritrovare al limite dell’arcobaleno, pur di non perderlo nella polvere del tempo:
“‘Proprio il posto dove seppellire una pentola d’oro,’ disse Sebastian. ‘Vorrei seppellire qualcosa di prezioso in ogni posto dove sono stato felice e poi, quando sarò vecchio, brutto e miserabile, potrei tornare a dissotterrarlo e ricordare’”.
Apparentemente leggiadro e superficiale, Sebastian è l’unico personaggio, insieme alla nubile Julia, ad allontanarsi dalla norma del decoro sociale prescritto ai giovani del loro lignaggio. Bravo soltanto ad addentare l’esistenza fino alla dissolutezza, uscirà divorato a sua volta dalla consunzione dell’alcolismo espiata invano dai rosari famigliari. Ormai alla deriva dopo essere scappato in Africa, farà la fine romantica del disparu, un nuovo fuggiasco rimbaudiano uscito di scena nello stesso effimero bagliore con cui era entrato nelle prime pagine.
Per il resto della famiglia, ci avrebbe pensato lo scoppio della guerra a peggiorare gli equilibri interni e le tensioni fino a spezzarne i legami e a disperdere nel caos della vita i suoi componenti, presto trasformati in «orfani della tempesta» come nella profezia di Julia. Spettri a sé stessi che solo il tocco ultimo della fede potrà redimere, riunendoli nei cieli:
“Forse tutti i nostri amori non sono altro che indizi e simboli; una collina dalle tante cime invisibili; porte che si aprono in sogno per rivelare solo un altro tratto di tappezzeria e una nuova porta; forse tu ed io siamo degli esempi e questa tristezza che alle volte cade fra di noi nasce dalla delusione nella nostra ricerca, ciascuno teso verso e oltre l’altro, ad intravedere qua e là l’ombra dietro l’angolo, sempre a qualche passo da noi.”
Il destino dei personaggi reali non sarà meno nefasto: caduto in disgrazia il patriarca, dopo lo scandalo per omosessualità consumato coi suoi servi (che lo vede da quel momento in poi in esilio), Hugh morirà a soli trentun anni in circostanze misteriose durante un incidente stradale, infine Maimie, dopo aver contratto un matrimonio opprimente e deleterio col principe di Russia Vsevolod Ivanovich, si abbandonerà alla solitudine e all’alcolismo fino alla morte.
La casa divenuta un parco di ombre, le tombe di tutti i fratelli ritornati uno ad uno presso Madresfield Court verranno raccolte sulle colline di Malvern, dove riposano gli avi.
D’altra parte, anche l’eroe del romanzo doveva perdere i suoi più cari di quell’angolo di Paradiso per ritrovarlo inaspettatamente, a guerra avanzata, occupato dalle truppe e spogliato dell’antico splendore. Quel che resta è un omaggio della gioventù perduta di un’età condannata al disastro, un tuffo nel tempo più bello che appaga la noia del presente. Gli anni più felici erano finiti.
Pierluigi Piscopo
*Le traduzioni degli estratti dal romanzo sono di Pierluigi Piscopo