
“In una diaspora celeste”. Dialogo con Elisa Longo
Poesia
antonio coda
Amico lettore!,
m’hai girato su whatsapp l’articolo di Paolo Di Paolo, In Italia non c’è più nessuno con cui parlare di letteratura – Limina | Rivista Culturale Online (liminarivista.it) – hai notato il revival delle riviste online e qualche volta anche delle cartacee? Si vede che da quando se ne parla meno di letteratura se ne scrive di più – e decido di replicare a mia volta con un articolo: se non ci sono più persone almeno ci sono le riviste a parlare di letteratura tra di loro.
Il titolo dell’articolo di Di Paolo è così bello che ci starebbe bene su un romanzo, magari togliendo quel “In Italia” all’inizio che lo rende immediatamente provinciale: non so se in Grecia o in Spagna o in Ungheria tra un povero neonazista malmenato dalla Salis e l’altro o in Germania tra uno scandalo delirante dell’AfD sputtanato da Correctiv.org e l’altro o in Polonia tra uno sforzo e l’altro per ripristinare la legalità grazie al governo del nuovo premier Donald Tusk qualcuno con cui parlare di letteratura lo si trovi più facilmente, ma il titolo sarebbe stato più perfetto se fosse stato: “Non c’è più nessuno con cui parlare di letteratura”, ma ancor di più: “Non c’è più nessuno con cui parlare”, perché per la letteratura si passa proprio per poter parlare di tutt’altro, come ha scritto Aldo Busi.
Non è detto per tutt’altro si debba intendere obbligatoriamente il come l’Occidente appoggiando omertosamente Israele stia praticamente perdendo ogni credibilità, con immediata ricaduta sul conflitto ucraino e dunque perdendo anche quella guerra, dandola praticamente già vinta a Putin perché rende fin troppo palese come in gioco non ci sono i valori di questa o quella idea di civiltà ma una schietta questione di dominio economico dunque geopolitico, poi per carità sempre meglio vivere a New York che a Mosca ma il problema resta per chi non lo decide mica lui non solo in quale paese nascere e/o vivere ma neppure in quale classe sociale, in quale reddito, in quale minoranza eventuale ancora non abbastanza trendy.
Si potrebbe infatti anche parlare di come sia riprendere a lavorare dopo un congedo di circa un mese, di come appena hai l’occasione di scostartene per guardarlo un passo indietro il lavoro si riveli per quella demenza precoce che è diventato, e mi riferisco al mio che ha tutte le tutele, congedo compreso, figurarsi gli altri, al di là di quello editoriale e/o culturale considerato nell’articolo di Di Paolo, ma la digressione s’è già allargata abbastanza, è ora di tornare all’articolo di Di Paolo.
Il titolo bastava di suo, l’articolo che gli si dipana al di sotto non mantiene il livello, in sostanza è stato il modo di Di Paolo di farci sapere che gl’è piaciuto l’ultimo libro di Julian Barnes (per carità, mettendo voglia pure a me di leggerlo) e che l’ha commosso il caso di voler parlare di un libro per cui non è stato pagato per farlo, ma esattamente dov’è che parlerebbe di letteratura, Di Paolo? Dov’è cioè che ci fa sentire come la Rooney o Fosse o Barnes stesso diminuiscano la distanza tra la realtà per com’è e la realtà per come ci è raccontata per tenercela nascosta? In che modo Barnes continua il discorso della letteratura? Di mio, per dire, solo da pochissimo ho scoperto/capito come Beckett in Malone muore l’abbia continuato interrompendolo, rivolgendolo contro sé stesso, sottraendolo alla commercializzazione dello storytelling che a fine Seconda guerra mondiale era giù diventato medialmente più micidiale. Ogni scrittore e ogni opera restano inediti finché non li hai letti tu. Jon Fosse opera sul linguaggio nel segno di Beckett ma certo non imitando Beckett, non ripetendo Beckett. Parlare di letteratura per esempio potrebbe significare provare a dire cosa le è successo, cosa le hanno fatto succedere, le opere tra quelle di Beckett e quelle di Fosse (aggiungendo che i giurati del Nobel potranno starci sulle palle quanto ci va, però più le volte che ci prendono che no).
Julian Barnes che ha fatto in Elizabeth Finch, edito da Einaudi quindi mica da un editore di nicchia in cui si ci può imbattere più per caso che per posizione di predominio nel mercato? Ho capito che nel suo libro ha scritto almeno un bel paio di paragrafi ma in che modo il suo romanzo aggiunge qualcosa al discorso già fatto della letteratura? Che cosa intende per letteratura Di Paolo? Smettere per una mezzoretta di scriverne per mestiere per scriverne per piacere? A chi della letteratura non se n’è mai fatto un mestiere cosa mai potrà fregare dei corridoi intasati delle redazioni stracolme di libri che andranno al macero senza essere neppure scartati? Al massimo creerà una punta d’astio in chi i libri li deve comprare, mica glieli regalano per farli promuovere perché s’è aperto l’ennesimo canaletto social appunto per farseli spedire.
Allora parlare di letteratura potrebbe significare pure parlare di quanto costa il volerne poter parlare, il prezzo socio-economico che si paga per il piacevole dovere di non allontanarsi troppo dalla letteratura per non perdere lo strumento fondamentale per mantenersi in forma le capacità cognitive. Importante è non farlo passare per la solitudine momentanea dello scrittore che alle volte legge non a pagamento e che quando gli gira vorrebbe avere a chi rompere le balle con le sue emozioni-da-lettore-puro: qualcuno con cui parlare di letteratura così ce lo abbiamo persino io e te amico lettore! Ovvero tu hai me e io ho te, fino a poco fa eravamo in tre, avevamo anche M con cui parlarne, ma per dirlo con Flaubert M non è più e allora sì che si avvicina per noi il momento di dire “Non c’è più nessuno con cui parlare di letteratura” se muori tu o se muoio io.
Parlare di letteratura, essù, è parlare di questo: di cosa lascia la morte ma ancor di più di cosa non lascia, ma come si fa a parlare di morte ora che sono convinti di essere tutti immortali perché potenzialmente immortale è l’account che si lasceranno dietro come loro fantasmino digitale? Come pure parlare di cosa resta alla vita ma ancor di più del tempo che non le resta. Ridalli col Tempo Perduto? Certo, se nel computo entra il tempo perduto a parlare di libri per parlare di libri invece di andare che so a farsi ammanettare assieme a un gruppo di erotici ecovandali o al primo concerto di Ghali per solidarietà non tanto verso di lui ma verso tutti coloro che sentono una contrazione nel cervello e nelle gonadi quando sentono dire: “Ah, bella lui che allude alla macelleria a Gaza e poi non fa i conti con il patriarcato marocchino!” – e Repubblica che arriva a censurare un’intervista a un cantante e sanremese per di più è la prova provata che smettere di pagare il canone Rai è solo l’inizio e che disdire l’abbonamento ai quotidiani paraculi viene prima. Meglio finanziare Correctiv, ecco.
Parlare di letteratura se non significa estorcersi qualche in verità in più anche su quello di cui parli e di quelli con cui ne parli al dì là della letteratura in sé, se non significa capire qualcosa in più del discorso generale in cui ci troviamo tutti che ci facciamo caso o no, equivale a starsene zitti in uno dei tanti modi messici a disposizione.
La letteratura secondo me è quando senti il tempo che stai perdendo a non fare le cose che non avresti saputo di voler fare se non fossi passato dalla letteratura, è quando non avevi le parole e le forme per sentire cose che nemmeno avresti sentito se la letteratura non ti avesse mostrato che tramite le parole e il modo di farle stare assieme in frasi e paragrafi e pagine e libri interi è possibile sentire proprio così, anche così.
È letteratura quando fa incontrare la tua materia grigia con tutta la materia oscura che c’è senza per questo diminuire di un nanogrammo la quantità di materia oscura che c’è ma avendo avuto l’occasione di imparare qualcosa in più sul come convivere con la materia che se è oscura non è per questo detto che sia più minacciosa o dannosa della materia in chiaro e che in realtà è oscura anche lei a suo modo, specie quando non è detta bene, quando la si rende indicibile cioè dicibile solo secondo la versione consentita.
Dice la leggenda, o qualche biografo, che è lo stesso, che in morte Goethe abbia esclamato: “Più luce!”. Ecco, è come se avesse detto: “Più letteratura!”, e cioè: “Anche più tenebra va bene, l’importante è poterne scrivere come non ne era stato scritto fin qui.”
Come ricorda Tullio De Mauro in Guida all’uso delle parole, che ho letto mentre non ero in Italia perché la tua lingua è sempre più bella quando attorno a te non c’è quasi nessuno che la parla, il nostro è un linguaggio all’infinito: come a qualunque numero è sempre possibile aggiungere una nuova unità a qualunque discorso è possibile aggiungere una nuova parola, una nuova frase, un nuovo testo. Parlare di letteratura come lo intendo io significa ricordarci di come viviamo in un infinito a tempo limitato, a tempo perso.
E un saluto a te amico lettore!
antonio coda
*In copertina: Samuel Beckett e Beckett Rosset fotografati da Richard Avedon