A volte un poeta rallenta: la sua corsa, il suo vagabondare. Può capitare addirittura che forse stacchi la spina. Perché? Perché appunto egli è poeta, e non scrive a comando. Soprattutto, non sopportando le attese che caso mai lo porteranno agli altari della gloria. Ma cos’è appunto questa gloria? Egli la cerca, la desidera, o fa parte soltanto di un falso immaginario, indotto dal mondo?
Più si fa un passo in avanti, più tutto sembra diventare maggiormente difficile, e la sfida si trasforma in battaglia in campo aperto. Il fatto, però, è che questa presunta battaglia consta di silenzi che non appartengono affatto al silenzio stesso del poeta.
Egli ‒ il silenzio ‒ lo anela quale patente e forma di solitudine perfetta, quella che già lo abita nei tempi del mistero. Per questo, tutto sommato, non smetterà mai di vagabondare. In fondo, il cammino intrapreso lo aiuta a trovare parole giuste e potenti, per attraversare quel deserto che viene chiamato giustappunto Pagina bianca.
Allora, qual è il silenzio che manca e che disturba, che porta l’uomo che è ad essere nervoso, triste, trepidamente in attesa di qualcosa? È quella partita a scacchi che le case editrici o ‒ peggio ancora ‒ gli agenti letterari impongono al caro prezzo di un corrispettivo, altrimenti di un’ingiuria senza tornaconto, se non nell’intento di spezzare la libertà dello scrivere, affinché forse (ci si auspica) diventi appetibile e quindi spendibile sul mercato.
Ma l’originalità del poeta, Signori, è altro! Ecco perché, patendo, preferisce nascondersi dietro ai versi dei poeti assoluti, di quei grandi classici che donano freschezza e forza nell’incoraggiare ad affrontare nuovamente un mondo ‒ lo sappiamo ‒ ottuso e corrotto.
L’originalità del poeta anela all’Opera. E se egli quindi si ferma a prender fiato, ne ha ben donde: ribellarsi, dunque, non tradire mai se stesso o vendersi, sarà il valido motivo di una vita spesa in un’unica direzione; sarà l’equilibrio infuocato di una scelta scaturita nel per sempre. (Giorgio Anelli)
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Se tu venissi in autunno
Se tu venissi in autunno,
Io scaccerei l’estate,
Un po’ con un sorriso ed un po’ con dispetto,
Come scaccia una mosca la massaia.
Se fra un anno potessi rivederti,
Farei dei mesi altrettanti gomitoli,
Da riporre in cassetti separati,
Per timore che i numeri si fondano.
Fosse l’attesa soltanto di secoli,
Li conterei sulla mano,
Sottraendo fin quando le dita mi cadessero
Nella Terra di Van Diemen.
Fossi certa che dopo questa vita
La tua e la mia venissero,
Io questa getterei come una buccia
E prenderei l’eternità.
Ora ignoro l’ampiezza
Del tempo che intercorre a separarci,
E mi tortura come un’ape fantasma
Che non vuole mostrare il pungiglione.
Emily Dickinson