04 Gennaio 2021

“Una fame immane di umanità”. Atelier 100!

Atelier non mi è mai sembrato un nome adatto. “Siamo artigiani della parola, letterati che non temono di sporcarsi le mani per tracciare qualche pensiero”: così Marco Merlin giustificava il nome della rivista, nata a Borgomanero nel 1996, per dedizione di un prof poeta (Giuliano Ladolfi), illuminata dallo scabro, violento talento di un ragazzo fuori dal tempo (Merlin) e da un gruppo di amici avventati (Paolo Bignoli, Riccardo Sappa). Merlin, nell’editoriale, si faceva accompagnare, in esergo, cioè sulla soglia del balcone, in bilico, da alcuni maestri – Dante, Shelley, il Salmista – e parlava di “una fame repressa e incompresa di poesia, mossa da una fame immane di umanità”. Chi conosce Marco – spoglio della cruda maschera di Andrea Temporelli – sa che ha il viso di una volpe, l’arguzia della faina, l’ostinata grazia del merlo. Sa essere brutale. Per questo Atelier, che nella mia mente rimanda alla moda e alla signorilità, non mi pareva un nome adatto. Marco Merlin, piuttosto, ha creato, negli anni – fino a che ha diretto la rivista –, una tana, un agone, l’agonia del ring, un cenacolo, il chiostro dove i monaci si pigliano a pugni fino a perdere il nome, i denti e a dimenticare Iddio. Idiota io, sdraiato sulla superficie dei nomi: atelier, in verità, viene da astelle, la scheggia di legno; da qui il laboratorio dell’artigiano. “Siamo schegge penetranti, testimonianze di un passaggio memorabile”, scriveva, ancora, Marco. Già. Si fa poesia come si sbozza una sedia. Come si lima un coltello. La scheggia è lì, nel sottosuolo del pollice – e sanguina – e non la sguaino.

Oggi Atelier, dopo 24 anni di vita, tocca il numero 100. La rivista, ora, è guidata, come allora, da Giuliano Ladolfi, che ha con sé Giovanna Rosadini, Luca Ariano e diversi altri direttori. Ladolfi scrive di “rinnovamento nella continuità del progetto iniziale”, e ci credo – agli inizi, non c’ero. Merlin ha mollato la direzione esattamente sette anni fa – se la cabbala ha un merito è quella di rendere tutto esatto – al numero 72 del dicembre 2013. “Mi smarco. Entro nella mia profezia privata”, scriveva, in un editoriale innaturalmente sobrio, perfino legnoso, dal titolo magnifico, Compimento del dono. In copertina – un caso? – la rivista riproduce il capricho numero 69 di Goya: s’intitola Sopla, “Soffia”; una strega tiene per le caviglie un bimbo che fluttua, mostra il culetto verso lo spettatore, scoreggia e inaugura fiamme. Da allora, per me, i numeri di Atelier sono una stele e uno specchio: la nostalgia di una giovinezza defunta, un monito a ritrarmi sempre per difetto, affinando la fiamma, cristallizzando le ferite. Ho capito la scelta di Marco: un’opera si realizza allontanandosene. Marco è così: con sé, uomo di lago, uomo del Nord, cioè di pensieri lucidi ma micidiali, è sempre stato spietato. Per amore più che per coraggio è ancora lì che si taglia le dita, falange per falange. Autentico eresiarca, potrebbe costruire monasteri, ideare regole, per lasciarle ad altri, installandosi in una severità d’altro rango.

Ho conosciuto MM vent’anni fa: il caso ci ha condotti sulla cima di un edificio di fianco alla Scala, a Milano. Marco, nel cenacolo di Borgomanero, insegnava – così ho capito, per lo meno – che dell’ispirazione bisogna diffidare, è un cobra; che ogni poesia è imperfetta e va presa a sassate, con la sovrumana gioia dei briganti; che l’opera è una comunità, difforme, dispari, spregiudicata; che del poeta, di chi si dice tale, per pudore e scaltrezza occorre dubitare. Insomma, fu una lotta – e furono gli anni più belli della mia vita, tra sentieri d’oro. Pubblicai i primi testi nel dicembre del 2002 (orrendi: in quel caso il capricho di Goya in copertina vede una massaia che sculaccia con la scarpa un bimbo, segno che avrei dovuto interpretare), ho scritto con spazientita e difforme continuità. MM ha raccolto gli editoriali di Atelier – un autentico arrembaggio – in un libro – quasi un manuale di guerra – che s’intitola Smarcamenti, affondi e fughe (2016). Nel primo numero di Atelier figuravano, tra i “Collaboratori”, Roberto Carifi e Franco Loi, Roberto Mussapi, Marco Guzzi, Davide Rondoni; il lavoro memorabile fu fatto tra i ragazzi, tra gli esordienti. Da Atelier, in forma occasionale o duratura, pubblicando libri o inediti, sono passati i poeti autentici di oggi (per me, tutti maestri a cui estrarre una costola): Federico Italiano, Alessandro Rivali, Riccardo Ielmini, Flavio Santi, Isacco Turina, Andrea Ponso, Gabriel Del Sarto, Tiziana Cera Rosco, Massimo Gezzi… nel 2005, in un numero speciale dedicato ai “Racconti italiani”, fu pubblicato un giovane e semisconosciuto Roberto Saviano. Simone Cattaneo, naturalmente, è altro. Nell’“Antologia di poeti nati negli Anni Settanta” L’opera comune (1999), esito del primo lavoro compiuto da Atelier, hanno pubblicato, tra i tanti, Elisa Biagini e Daniele Mencarelli, Laura Pugno, Daniele Piccini, Gian Maria Annovi.

Ma la poesia non indugia nelle nostalgie, non indaga le scelte parziali: è un salto che scioglie ogni paternità in gargarismo. Ciò che resta, in questa morte – di cui i poeti, spesso, sono i sacerdoti, mortificanti impiegati del perduto, incensieri che censiscono il proprio lamento – sono i legami, incauti, carnivori. La vita, cioè, che riverbera in versi, anche. Con alcuni si preferisce una fratellanza tale che non ha bisogno di prove né di proclami – selvatica. Nel ‘centenario’ di Atelier, pubblico una scrittura che proviene dalla sfida, con Marco, ancora. (d.b.)

***

VIII

D: scatenò i ghepardi tra le paludi

come Bibbie scagionate nell’oro

che reagiscono alla decomposizione

“è giusto svanire in un azzardo – finire

nel futile” – e aggiunse che la velocità

categoria distratta dai libri celesti

rende sacro l’assassinio – solo la preda

prevede la gittata del giorno –

“non sei più tu” – non lo sono mai stato

e non è questo che dovrebbe preoccuparti

“si muore per potersi rincorrere” dice e crede

incolpevole la lontra che con regolarità

d’argento recluta la nostra pazienza

a un destino di piogge – “per concisione”

ripeto – coincidere con la pupilla

d’odio e morire per tutti

sa schivare la tratta con un sillabario

i cervi censiscono la valle in vaniloquio

si agisce oggi come ci si spoglia dello scapolare

*

A: non credo in chi non si inchina

nelle scelte secondarie – giova a un’altra

perfezione e fa del corpo un convento dove

chi adora e chi arde sono entrambi

in abside – anche i ricordi hanno un patrigno

il tomismo del perdono e qualcuno ha scoperto

che a Nord zampilla il fratello – il cormorano

scava un golfo – una durata – perché il vento

è nobile come l’opera dell’uomo –

con un sinonimo hai curvato la generazione

in degenerato – scollinare dal dogma

ritarda la ritirata in un magma di grano

ricorre nella fronte la stessa memoria

con cui la pianta in spirali assale

la luce – bianca e abbreviata sull’epilogo

del muro – “siamo coerenti al bagliore”

eppure bisogna scegliere un fuoco – costruire

il sole ulteriore – per sciogliere il ferro dalla fede

distinguere cena e censura – e curvare

il corpo tra le risaie dell’ombra –

si è uccisi sempre per fraintendimento per

l’amore meno importante

Gruppo MAGOG