Hai libri che si depositano come una scia, un guscio rimasto vuoto. Se anni dopo la lettura restituiscono ancora un messaggio, sono diventati dei ‘classici’. È il caso de La guerra della fine del mondo di Vargas Llosa (1981). Il nostro uomo stava già costruendo un’immagine pubblica, si vedeva che era già fatto per stare sotto i riflettori. L’unico problemino è che poi la sovraesposizione mediatica negli anni ha messo in ombra le sue opere.
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La guerra della fine del mondo è uno dei libri più torrenziali di Vargas Llosa. C’è il peso della storia, in quei paragrafi lunghi una paginata. La storia è il resoconto romanzato dell’insurrezione dei canudos nel Brasile di fine Ottocento: poveri disgraziati finiti malissimo. Senti il piglio storico tolstoiano quando a fine romanzo il giornalista sfigatissimo sta per morire insieme gli insorti pezzenti, con un turbine di pensieri degno del principe Andrej…
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Sentiva il cannoneggiare come qualcosa di estraneo e una straordinaria indifferenza all’idea di morire. Le mani, il sussurro, il respiro di quella donna accanto a lui sul campo, la carezza delle sue dita lungo il suo cranio, la sua fronte, i suoi occhi, lo ricolmavano di pace, lo riportavano a un’infanzia vaga…
In quell’ubriachezza diffusa, rammemorava altri accessi durante i quali aveva pure avuto certezza della fine, quelle notti di baldorie a Salvador, che gli starnuti interrompevano brutalmente, come una coscienza censoria provocando l’ilarità dei suoi amici, quei poeti, musicisti, pittori, giornalisti, vagabondi, attori e lucciole nottambule della città fra cui aveva malvissuto la sua vita. Ricordò come aveva incominciato ad aspirare etere perché gli recava quiete dopo quegli attacchi da cui usciva esausto, umiliato e con i nervi tesi e come, in seguito, l’oppio lo salvasse dagli starnuti con una morte transitoria e lucida. Le carezze, il ninnare, il conforto, l’odore di quella donna ora accanto a lui e che era la sacerdotessa della disperazione dei canudos, assomigliavano all’oppio e all’etere, erano una dolcezza e un letargo, una grata assenza…
Nella sua mente sfilarono le aule e i cortili del collegio dei padri salesiani dove, grazie ai suoi starnuti, era stato zimbello, vittima, bersaglio di beffe. Per questo era divenuto timido, per quel maledetto naso incontrollabile aveva dovuto usare fazzoletti come lenzuoli, e per colpa sua e dei suoi occhi ottusi non aveva avuto un’innamorata, una fidanzata né una moglie, e aveva vissuto con quella permanente sensazione di ridicolo che non gli permetteva di dichiarare il suo amore alle ragazze che aveva amato, né consegnare i versi che scriveva per loro e che poi vigliaccamente stracciava. Per colpa di quel naso e di quella miopia aveva avuto fra le braccia soltanto le puttane di Bahia, aveva conosciuto quegli amori mercenari, rapidi, sudici…
Anche lui come i canudos, i diseredati della terra, era un mostro, un paralitico, un anormale… Si udì dire, fra un ansito e l’altro: non è giusto, non è giusto. Si accorse che lei lo baciava sulla fronte, sulle guance, sulle palpebre, mentre gli sussurrava parole tenere, dolci, incoerenti. Ma d’improvviso fu restituito al presente, alla brutalità, alla guerra. Il tuono dell’esplosione che strappò via il tetto gli posò sopra di colpo il cielo, il sole scintillante, nuvole, il mattino luminoso.
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Infine il giornalista si salva e a fine libro si ritrova a faccia a faccia col volto sordido del potere contro il quale aveva combattuto fino ad allora. C’è un abisso tra i due personaggi. C’è anche comprensione perché, manzonianamente, il potere corrompe l’ingenuo e ne sfrutta al massimo grado la purezza mutandola in violenza sorda.
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– Quindi quella donna l’ha trasformato? – esclamò il barone. – Le ha dato felicità, l’ha trasformata spiritualmente in uno jacunco [bandito]?
– La spiegazione è che io mi ero rassegnato – lo udì sussurrare con voce appena udibile.
– A morire? – disse il barone, sapendo che non era alla morte che pensava il giornalista.
– A non amare, a non essere amato da nessuna donna – indovinò che diceva, perché aveva abbassato la voce ancora di più. – A essere brutto, a essere timido, a non avere mai tra le braccia una donna che non volesse del denaro per starci.
Il barone si sentì immobilizzato sulla poltrona di cuoio. Come un lampo, gli passò per la testa l’idea che in questo studio, dove tanti segreti erano stati svelati, tante cospirazioni tramate, nessuno aveva mai fatto una confessione più inattesa e più stupefacente alle sue orecchie.
– È una cosa che lei non può capire – disse il giornalista miope, come se lo stesse accusando. – Perché lei, sicuramente, ha conosciuto l’amore fin da molto giovane Lei non può capire quello che succede a gente come me, che non è attraente, robusta, favorita, ricca come lo è stato lei. Lei non può capire quello che significa sapersi repellente e ridicolo per le donne, escluso dall’amore e dal piacere. Condannato alle puttane.
L’amore, il piacere pensò il barone, sconcertato: due parole inquietanti, due meteoriti nella notte della sua vita. Non era comico, grottesco che una cagnetta bastarda del sertao avesse fatto parlare d’amore e di piacere il giornalista? Quelle parole non evocavano la sensibilità, l’eleganza, i riti e le saggezze dell’immaginazione addestrata dalle letture, viaggi e istruzione, tutte cose incompatibili con quella selvaggia e il suo giornalista?
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Come in quel bellissimo polpettone-feuilleton di Sabato, Sopra eroi e tombe, il succo della storia di Vargas Llosa è che l’ingenuo, il puro di cuore, il defraudato, viene alla fine agganciato dal potere: c’è del fatalismo in questo. Ma dove nel libro di Sabato trovi lo studente ammansito dal colonnello in una calle di Buenos Aires dopo una passeggiata a dir poco kafkiana, in Vargas Llosa senti il respiro della storia, la sua incomprensibile sventura. Sipario.
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– Il fatto è che, così come stanno le cose, mi sono convinto che la persona con le doti necessarie per dirigere la politica dello Stato di Bahia è lei.
– Devo prenderla come una lode? – chiese il giornalista con aria sarcastica.
– Credo che sia finito uno stile, un modo di fare politica – precisò il barone, come se non l’avesse udito. Riconosco di essere rimasto indietro. Siamo entrati nel momento dell’azione, dell’audacia, della violenza dei canudos, perfino dei crimini. Ora si tratta di dissociare del tutto la politica dalla morale. Stando così le cose, la persona meglio indicata per conservare l’ordine in questo Stato è lei.
– Lo sospettavo che non mi stesse facendo una lode…
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La guerra della fine del mondo è un romanzo fatto per scandalizzare. È il libro del nostro tempo globalizzato dove ci sente ovunque stranieri – quando dire che ‘tutto è paese’ non significa tanto ‘che tutto è uguale’ ma che siamo sempre spaesati rispetto a qualcuno, a qualcosa.
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È un romanzo che rientra nel solco e nell’aura del classico. Va rivalutato. Lo stesso pensiero l’aveva avuto quel genio sbalestrato di Bolaño, uno che andava avanti per cenni negli ultimi anni. Aggiungeva questa confidenza: La guerra della fine del mondo è il romanzo del nostro tempo con la sua lotte tra barbarie (canudos) e politica ufficiale (il barone).
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Se c’è una morale è che i classici cambiano sempre e non sono quella bandiera sciocca agitata da Calvino fermo nella sua bonaccia di scrittore comunistoide. Quella bussola che una volta poteva essere L’educazione sentimentale di Flaubert non è più valida: è più classico per noi, sostiene Bolaño, Salambo con la sua storia violenta di contrasti barbarie-civiltà. Fine della predica, andate in pace.
Andrea Bianchi
*In copertina: Mario Vargas Llosa, Nobel per la letteratura nel 2010, in una fotografia di Daniel Ochoa de Olza (tratta da qui)