05 Aprile 2022

“Ossequi rituali alla luna”. Esagerata lode a Dylan Thomas

Credo non sia affatto un caso l’essermi imbattuto, in meno di sei giorni, in due libri fondamentali del poeta Dylan Thomas. Sto parlando di una raccolta di poesie, edita da Guanda, trovata su una bancarella dei Navigli, a Milano; e di tutti i racconti, Prose e racconti (allora editava Einaudi, nel 1961) acquistati oggi, a Torino.

Per l’ennesima volta, nulla può essere un caso nella mia vita, men che meno in letteratura, se scopro e leggo queste parole: “In una sua nota d’apertura ai Collected poems pubblicati nel 1952, Thomas scriveva: «Ho letto da qualche parte di un pastore che, quando gli chiesero perché rivolgesse, dal centro di cerchi magici, ossequi rituali alla luna per proteggere il suo gregge, rispose: “Sarei un pazzo dannato se non lo facessi!”. Queste poesie, con tutte le loro crudezze, dubbi, e confusioni, sono scritte per amore dell’Uomo ed in lode di Dio, e sarei un pazzo dannato se non lo fossero». Si tratta di un chiarimento necessario, che indica l’intenzionalità, spesso nascosta eppure mai dimenticata, di un procedere compositivo rivolto ad evidenziare, della poesia, una funzione, una «utilità»: una poesia «utile agli altri per la sua testimonianza individuale di quella lotta in cui ognuno è necessariamente coinvolto»”.

Stamattina un amico mi scrive, dicendomi di tenergli da parte una copia del mio ultimo libro. Aggiungendo: di ’sti tempi, la poesia è un bene rifugio.

Qualche sera fa, un altro amico, un regista, m’incalza parlando della poesia come necessità.

Sta di fatto che, per quel che mi riguarda, la poesia fa parte della mia essenza. E le parole ‒ non scelte mai a caso ‒ mi permettono quel riscatto dalla e nella vita, che forse non raggiungerò mai. Eppure io ci credo, come a una fede laica, attorniato da libri. Come credo alla testimonianza di Thomas, se pure leggo una delle sue belle e lunghe poesie che s’intitola Io, nella mia intricata immagine, della quale ricalco solamente le prime due strofe:

I

Io, nella mia intricata immagine, a grandi passi avanzo su due piani,
Forgiato in minerali d’uomo, oratore d’ottone,
Forzo il mio spettro nel metallo,
Premo i due piatti di bilancia di questo duplice mondo,
Questo mio mezzo spettro in armatura tengo saldo
Nel corridoio della morte, al mio uomo di ferro m’accosto furtivo.

Con la condanna nel bulbo iniziando, la primavera sdipana,
Splendida come i suoi arcolai, la stagione spasmodica
Ricamata su un mondo di petali;
Infila linfa ed aghi, e sangue e bolle attorce
Alle radici del pino, traendo l’uomo come una montagna
Dalle nude viscere.

Di colpo mi accorgo che fuori sta diluviando, finalmente. La terra, più che la città, ne aveva bisogno. Come l’uomo ha ed avrà sempre bisogno di una qualche poesia ad aprirgli il cuore, attanagliato com’è dalla morsa di infinite vite spente o recluse nel vuoto. Tra poco forse uscirò per le strade: ho bisogno di sentirmi addosso la sferzata del vento e della pioggia. Ho bisogno di andare avanti, di sentirmi nuovamente coinvolto nella lotta.

Giorgio Anelli

Gruppo MAGOG