Il mondo dell’arte, si sa, è un mondo di dandy. Estrosi, identitari, eccentrici, antiborghesi, idealisti, gli artisti degli ultimi secoli hanno marginalizzato la routine e il senso comune aspirando a fare della propria vita un’opera d’arte. Unica, preziosa e inimitabile. Salvador Dalí – e la sua mitopoiesi intrisa di realismo fantastico – docet.
Quanti, tuttavia, andando oltre i luoghi comuni, sono stati davvero, in senso proprio, campioni di dandysmo? La risposta, evidentemente, non è né semplice né scontata. Per mostrarne la natura chiaroscurale intendiamo qui presentare una figura centrale nell’arte del Secolo Breve che, a nostro avviso, ben incarna questo magmatico e proteiforme dissidio. Stiamo parlando di David Hockney. Molti di voi lo conosceranno in quanto la sua celebre tela Portrait of an Artist (Pool with Two Figures) è assurta agli onori della cronaca dopo esser stata battuta all’asta Post-war and Contemporary Art di Christie’s (New York, 15 novembre 2018) a 90.312.500 dollari: l’opera realizzata da un’artista vivente più costosa in assoluto, battendo di trenta milioni Orange Balloon Dog di Jeff Koons. Altri avranno adocchiato la medesima tela nel cartoon di successo BoJack Horseman (targato Netflix), in cui una versione “equinizzata” del capolavoro di Hockney campeggia sulla parete dello studio del protagonista, a emblema del mondo hollywoodiano, tutto star system e sogni infranti.
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Di Hockney colpiscono anche le scelte stilistiche: spregiudicate, anticonformiste, ispirate a una (auto)ironia davvero british. Qui, preferenze sofisticate e opzioni trasandate si confondono. Quanto c’è di voluto, e quanto è lasciato al caso, nel vestiario di Hockney? I colori talvolta cozzano fra di loro, in altri casi attendono semplicemente un completamento: quello che, in molti celebri scatti, è offerto dalle maestose tele dell’artista. In queste occasioni significative, gli abiti sono coordinati con le opere: l’Arte/Vita, equazione futurista par excellence, assurge a norma regia per lo stesso Hockney. Il quale rivela di dipingere abitualmente in completo. In una foto che lo ritrae rilassato a bordo piscina, allora, il trittico blu rappresentato dalla sdraio, dal fondo della piscina e dal suo maglione – perfetto equilibrio geometrico e cromatico – titilla il palato di ogni dandy che si rispetti. Così come una sua brillante e lapidaria sentenza: «Lo stile è qualcosa che si può adottare comportandosi come una gazza: prendendo soltanto ciò che si vuole. L’idea di uno stile rigido mi è sempre sembrata soltanto qualcosa con cui è meglio non avere a che fare, una trappola». Il testamento spirituale di un grande singolo? A questo forse può assurgere la dichiarazione di Hockney. Un messaggio importante in un’epoca, come la nostra, segnata da massificazione, globalizzazione dei costumi, appiattimento culturale, monotonia di gusto, semplificazione sistematica di tutto ciò che richiede, per sua stessa natura, complessità. Ché «lo stile», ci ricorda Cocteau, «è un modo semplice per dire cose complicate».
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Un personaggio così smagliante non poteva che esercitare una spiccata influenza sull’haute couture; il citazionismo di Hockney nei capi di alta moda è davvero pervasivo: da Michael Kors a Fendi, da Yves Saint Laurent a Burberry, il suo tratto – tanto artistico, con riferimento alle sue tele, quanto stilistico, rapportato alle sue scelte di vestiario – è comparso a più riprese sulle passerelle d’eccellenza.
Su un piano ideologico, le riflessioni di Hockney richiamano al sopra citato stile “di gazza”. Personaggio mainstream, inserito nell’high society internazionale, per molti aspetti politicamente corretto, Hockney nasconde – e talvolta rivela – aspetti ben più interessanti e ribelli. A partire dalla sua attenzione per il disegno, l’arte figurativa e la tecnica quasi artigianale richiesta dalla pratica artistica, in decenni in cui l’astrazione sembrava aver definitivamente trionfato. Ma la “fine della storia”, in politica come in arte, ha fatto ben presto bancarotta e le figure di Hockney hanno trainato – e continuano a guidare – generazioni di giovani artisti verso la bellezza dei tratti e delle forme. «La fotografia ha fatto il suo tempo, l’astrazione non ha futuro, l’avanguardia non interessa più: è musica per le orecchie di un conservatore l’ultimo scritto di David Hockney in collaborazione con Martin Gayford, Una storia delle immagini». Così Camillo Langone presentava sulle colonne de «il Giornale» la traduzione italiana di A History of Pictures. Precisando l’antiprogressismo estetico di Hockney: «“L’arte non progredisce. Alcune delle prime immagini sono rimaste le migliori. Raffaello non è meglio di Giotto”, afferma Hockney. Per dimostrarlo evidenzia la potenza di un toro di Lascaux, quindicimila anni avanti Cristo e diciassettemila avanti Christo, l’impacchettatore, più l’impressionante esattezza di un grande felino inciso da un nostro antenato nella grotta di Combarelles, sempre nel sud-ovest della Francia. Questo è un concetto già espresso da Jean Clair, ma Clair è uno storico francese evidentemente reazionario, mentre Hockney è uno dei massimi protagonisti del contemporaneo angloamericano».
Alla domanda: “Se stessi dando una cena festosa per cinque ospiti, chi inviteresti?”, Hockney non ha dubbi. Sono cinque grandi nomi dell’arte: quattro artisti, Picasso, Goya, Rembrandt, Michelangelo, e uno scrittore – dall’immaginario simbolico vivissimo, tuttavia –, Goethe. Cinque numi tutelari che molto dicono della postura estetica del nostro.
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Il fatto che egli si sia appassionato alle tecniche di disegno su iPhone e iPad non è contraddittorio rispetto al suo classicismo di fondo; in questa prospettiva Hockney è un rivoluzionario-conservatore: preservare la millenaria passione umana per il disegno, il confronto serrato con la figura, l’esercizio artistico è una sfida decisiva per il mondo digitale.
«Pittore di piscine, interni salottieri e collezionisti d’arte, Hockney è l’artista borghese per eccellenza, che si compiace di rappresentare il privilegio per confermare i miti del capitalismo contemporaneo, irraggiungibili eppure a portata di mano. Già, ma il suo mondo borghese, fatto di luce piena e spazi enormi, è attraversato da un senso d’impotenza e prigionia che non ha forse uguali nell’arte contemporanea. Le figure non si toccano e non si guardano mai, in una fissità che non può non disturbare» (Stefano Jossa, in Vedere Hockney nella Londra di Brexit, in «Doppiozero»).
E ancora, scelta deprecabile per un uomo moderno “perbene”, Hockney è un grande amante del fumo lento. Tanto da sostenere campagne in favore del sigaro ed esporre la propria visione in merito, il 29 dicembre 2009, alla radio della BBC. Fumare fa rima con felicità, nell’“Hockney pensiero”, di contro alle tendenze proibizioniste e salutiste oggi così in voga. Anche questa è una forma di Pop Art, in fondo. Forse meno “dandy”, in quest’ambito, il suo amore per le sigarette Camel e la marijuana terapeutica.
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Omosessuale dichiarato – si veda, fra le altre, la sua opera We Two Boys Together Clinging (1961), ispirata a un testo di Walt Whitman –, Hockney è in ottima compagnia, proprio in virtù di questo suo orientamento, nella storia dei dandy – potremmo figurarcelo fra Wilde e Mishima. Era anche amico, dai tempi degli studi al Royal College of Art, di Patrick Procktor, dandy e bohémien indimenticabile, star degli ambienti artistici londinesi degli anni ‘60. «Erano i gemelli dandy del mondo dell’arte», ci spiega il critico John McEwen nel suo Patrick Procktor: Art and Life. Diversamente da Procktor, tuttavia, i cui dèmoni oscurarono gli ultimi anni di vita sino al decesso, nel 2003, Hockney ha mantenuto anche in età avanzata il suo caratteristico piglio solare e ottimista. Per lui «ridere» rimane «la migliore medicina».
Di amici, d’altra parte, Hockney ne ha avuti tanti. Vederlo in fotografia mentre posa per Lucian Freud, titano del Novecento più esacerbato e sofferto, ci fa comprendere il calibro delle sue frequentazioni. Ricompone inoltre, davanti ai nostri occhi, un mondo di sinuosità, tortuosità e sincretismi. Come immaginare, infatti, le ilari, coloratissime e un po’ naive tele di Hockney affiancate alle opere laceranti di Freud, di questo splendido nichilista epigono di Schiele? Coincidentia oppositorum o contraddizione irrisolvibile?
Con questi interrogativi si chiude il nostro profilo di David Hockney, traslucido come la sua ambigua appartenenza all’universo dandy. Il ritratto di un uomo, classe 1937, che anche oggi, quando dipinge, continua a sentirsi trentenne. Sua unica patria, dimora del suo daimon: l’«eminente dignità del provvisorio» (Brasillach, I sette colori).
Luca Siniscalco
*In copertina: David Hockney nello studio di Lucian Freud, photo David Dawson