In un bel libro pubblicato da Aragno nel 2006, Il secolo dei manifesti, Giuseppe Langella, fin da subito (“Se la rivista è un’invenzione tipicamente moderna, il Novecento ne costituisce di sicuro il secolo d’oro”), ribadì un fatto: la storia della letteratura recente s’è fatta su rivista, mica sui libri. La rivista è la lancia, la nave slanciata su cui si son combattute le battaglie intellettuali. La cosa, nota, è ribadita dagli esempi forniti (“le centoventi testate”) che sono, comunque, “soltanto la punta emergente di un iceberg di dimensioni enormi, quasi inimmaginabili”. Proprio così. Nel secolo le riviste son proliferate come le idee, non c’era isolotto intellettuale che non avesse il proprio ‘organo’, organico ai pensieri propugnati da chi lo ha creato. Non va dimenticato che i grandi testi della letteratura recente – chessò, La terra desolata e l’Ulisse – sono passati, prima che sul libro – oggetto archetipico e archeologico – su rivista.
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Poi, le riviste, fiorite in abbondanza, sfiorirono.
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Il nuovo millennio, però, poiché l’uomo, in fondo, è un paradosso inafferrabile rispetto alle sue creazioni, rivede il proliferare di riviste. Esse assumono nuova forma, nei deserti digitali, come Pangea, piccolo Isaia che non sa se il sole sfama o uccide. Oppure. Di recente Castelvecchi ha radunato un caravanserraglio di teste fini – Giorgio Manacorda, Walter Siti, Alfonso Berardinelli, Paolo Febbrario – intorno a una rivista L’età del ferro, che sta tra l’accademico e l’eccentrico – ormai, gli aggettivi sono equivalenti in questo tempo spurio. Poco prima è nata, con altri intenti, Il Maradagàl – ogni allusione a Gadda è omaggio – con Sara Calderoni al timone e cervelli sani a scrivere (a volte, sempre gli stessi, dacché la cultura italiana è un continente in un ditale).
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Intendo dire. Se l’editoria è fiacca – bisogna far soldi, e per farli si pubblica un po’ di tutto – la rivista, come genere, torna a veleggiare, in una sorta di cavalleria dell’intelletto (si scrive gratis).
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Anch’io, per ciò che conta, son nato nel seno di una rivista. Atelier. Fondata da Marco Merlin e da Giuliano Ladolfi, nel 1996, in un periodo, francamente, galvanizzato per le riviste. Pochi anni dopo Atelier, infatti, nasce, a Cesena, per merito di Marisa Zattini, che di mestiere si occupa d’arte, è artista, e ibrida il verbo con il fatto artistico, Graphie. Era il dicembre del 1998 e il primo editoriale – griffato ‘La Redazione’ – era già il lancio di un sasso in fronte al destino. “Un’altra rivista inizia il suo percorso in Romagna. Quante saranno? Fino a poco tempo fa solitamente si constatava che ogni media città italiana ne avesse almeno una; ormai temiamo che il conto fosse sbagliato per difetto. Comunque: buon segno! Indica creatività, voglia di affermare qualcosa e rischiare tempo e denaro. Ma anche: cattivo segno per la dispersione di forze, la divisione, l’assenza di criteri di selezione che il fenomeno implica. Anzi, veramente un grande ‘selettore’ è rimasto: il tempo, dato che gran parte di queste iniziative cessano presto, per stanchezza dei curatori, mancanza di lettori, esaurimento dell’impeto di partenza”.
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Col senno di poi, la sfida è andata bene, il sasso ha colpito in fronte il millennio, Graphie festeggia vent’anni con un numero dal titolo fascinoso, “Delle Grazie & dei Naufragi”. La festa, per altro, si fa davvero: per chi passa da quelle parti, a Cesena, nel luogo mistico, la Biblioteca Malatestiana, da questo pomeriggio – ore 16 – fino a domenica, rassegna di convegni con chi della rivista è stato protagonista – tra i tanti, cito Gian Ruggero Manzoni, Francesca Serragnoli, Gianni Fucci, Nevio Spadoni, Vittorio D’Augusta – e mostra, dedicata a Federico Fellini, e concerto – sabato, ore 16, con Paolo Chiavacci, e l’Orchestra ‘archi del Conservatorio ‘Maderna’.
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Di Graphie affascina il titolo: grafia, certo, ma anche graffio; colpo felino sull’ansia vetrificata dell’era. Incisione sulla pietra della Storia, direi; atto un poco bambino e un poco barbarico. E l’eleganza, sorprende, di Graphie – merito dell’ideatore-editore, Marisa, che concepisce l’editoria (date sguardo alla collana dei suoi libri, edito come Il Vicolo) come gesto formale ineccepibile, atto d’architetto, geografia del disporre i caratteri, dell’orientare le rubriche. C’è un’etica nella forma pura: si resiste vent’anni se si è, oltre che intelligenti, ‘belli’. E la bellezza è sempre scanzonata, la canzonatura dell’eleganza, il gesto atletico – perciò, armonico – del tipo che fa ruotare la pietra e la sgancia in faccia al mostro.
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Mi sorprende capire oggi che avevano capito tutto allora – o è la storia che ha valuta di serpe. Janus, nel primo articolo della rivista di allora, 1998. Titolo. Dove va l’arte contemporanea? Risposta. “Da nessuna parte. Dove potrebbe mai andare? Ha perso il senso dell’orientamento. Brancola nel buio. È angosciata. I grandi modelli del passato premono su di lei suscitando sensi di colpa e di smarrimento”. Da questo nessun luogo e nessun posto dell’arte, da questa angoscia papale, però, mi pare, è rinata la caccia. Esausti dal tempo che annienta, gli artisti imparano a cavalcare la pantera – senza addomesticarla. Dove si va lo decide lei, questione di salto e di fame.
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In quel primo numero, intagliato, di Graphie, c’erano nomi che sarebbero apparsi spesso: Gianni Fucci, Stefano Maldini, Franco Loi, Tonino Guerra, Marina Sangiorgi, Tolmino Badassari, Nevio Spadoni. Con quella disciplina d’eccellenza artigiana che è italica: partire dal proprio posto, dal luogo specifico, dalla terra, per conquistare altre terre, trafugando il provincialismo con un balzo. Fare del campanile – di cui non bisogna godere dell’ombra, occorre scalarlo – un faro per anelare altre vite, immaginare altre lande. Nel primo numero firmava Gianfranco Lauretano, poeta, di Cesena, che proviene da una rivista nobile, ClanDestino, e ne fonda un’altra, Graphie, appunto (l’etica del nome è sua). Nell’editoriale dei primi vent’anni di Graphie, oggi, scrive, “Noi siamo un po’ pagliacci, un po’ comici, certamente circensi alla maniera di Fellini. E il pagliaccio, si sa, ride anche nel mezzo della disgrazia, anzi è questa la peculiarità del suo mestiere. Ma non è tutto qui, e non si tratta solo di pagliacci. C’è anche un’esperienza più profonda, perfino antica: nell’evenienza più dura e difficile, nel momento di maggior disgrazia, può sempre trovarsi una speranza, un colpo di coda della vita, un senso magari laterale che rovesci la faccenda. L’ossimoro è sempre possibile, per noi, per i più veri di noi: siamo sempre pronti a sfidare le circostanze per scorgere una grazia anche nel più cupo dei naufragi”.
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Vedete, che grandezza. La vita vince la morte, la grazia accade nel naufragio, il pagliaccio risolve lo stridore di denti in sorriso. Il graffio di Graphie resiste, ed è ancora la poesia a imbambolare il Cerbero della Storia, trovando grani di bene nel nulla – per ferirsi, per amore. (d.b.)