David
Il 12 settembre del 2008, David Foster Wallace si impiccò nella sua casa, a Claremont, nel sud della California, a quarantasei anni, lasciando la moglie e i suoi due amati cani. Wallace ha avuto sempre dei cani nella sua vita. Il primo si chiamava Roger, un incrocio tra beagle, pointer e terrier: era l’unico membro della famiglia con cui David da bambino si sentiva a proprio agio, dal momento che già durante l’infanzia cominciò a soffrire di «sentimenti depressivi» e «ansia patologica», come lui stesso scrisse in un’anamnesi autobiografica, e non riuscì mai a confidare i suoi disturbi mentali ai genitori. Sviluppò già da allora, quindi, verso Roger una spiccata capacità empatica, che caratterizzò poi sempre il rapporto con gli altri cani della sua vita. Da adulto ha avuto due coppie di cani: prima Jeeves e Drone, che aveva soprannominato i «Fratelli Schifezza» (Icky Brothers), poi Werner e Bella.
Jeeves era un cucciolo di Labrador che Wallace adottò nel 1993, quando si era trasferito da poco a Bloomington, per tenere un corso di scrittura creativa all’Università dell’Illinois. Era il periodo in cui lavorava al suo romanzo Infinite Jest, un libro di culto, di più di mille pagine, che lo avrebbe consacrato come lo scrittore americano più ammirato della sua generazione. «L’ho preso perché era bruttissimo, non lo voleva nessuno – diceva –; e adesso è, diciamo, un cane da copertina».
Il cane dormiva nel suo letto, mangiava dalla sua bocca, gli masticava il piede mentre scriveva, abbaiava continuamente (al punto che lo costringeva a usare un paraorecchie di quelli che adoperavano gli addetti delle piste d’atterraggio degli aeroporti), all’improvviso dava i numeri, tentava di accoppiarsi con la poltrona reclinabile, faceva i bisogni in soggiorno, insomma, era un disastro, e Wallace non era capace di porgli dei limiti, non sapeva sgridarlo, considerava l’imposizione della disciplina come una crudeltà e quando una volta un amico gli mandò un dog-trainer, non resistette alla vista del suo cane in punizione.
Due anni dopo, mentre faceva jogging con lui, s’imbatté in un meticcio di Labrador a pelo nero, molto simile a Jeeves, e decise di portarlo a casa, battezzandolo Drone. I due cani insieme spadroneggiavano in casa, disseminata ovunque di peli e giocattoli mangiati, in una situazione di caos dominante. Una volta, davanti a un giornalista del «New York Times Magazine» che lo aveva intervistato a casa, Wallace si fece togliere letteralmente di bocca da Jeeves un panino alla mortadella. «Fanno finta di baciarti – spiegò lo scrittore al giornalista – ma in realtà ti scavano in bocca in cerca di cibo».
Lo scrittore viveva in simbiosi coi suoi cani, una simbiosi che forse lo riportava all’antico amore per Roger, il cane di famiglia con il quale si sentiva meno solo e meno goffo. Di sicuro i cani ebbero, per molto tempo nella sua vita, un effetto terapeutico. Quando tornava a casa, era solito inginocchiarsi per terra e lasciare che i «Fratelli Schifezza» gli saltassero addosso, impazziti di gioia, gli sbavassero in faccia e lo leccassero, annusandolo, scodinzolando violentemente. Drone morì per un linfoma, nel Natale del 1998 (un «Triste Natale», come Wallace corresse sulla cartolina di «Buon Natale» che inviò a Don DeLillo), tra le braccia del suo padrone, mentre il veterinario gli praticava l’iniezione letale. E per tre settimane, in attesa della cremazione, Wallace si recò ogni giorno dal veterinario, restando seduto all’esterno della cella frigorifera dove era conservato il cadavere del cane. Poco dopo, per lenire la sofferenza della perdita e per far compagnia a Jeeves, gli regalarono un meticcio di pittbull, che fu chiamato Werner.
Jeeves, invece, morì nel 2002, poco dopo che Wallace si era trasferito a Los Angeles, per un contratto con il Pomona College. La morte di Jeeves («la cosa più vicina a un figlio che avevo» scrisse a un amico), gettò lo scrittore nella depressione, il male oscuro con cui aveva combattuto per tutta la vita. Ma il lavoro appagante all’università e l’incontro con l’artista Karen Green, che sarebbe diventata sua moglie, lo aiutarono a superare quel momento. Nel settembre del 2006, due anni dopo il loro matrimonio, Karen e David adottarono Bella, un cane di due anni, che Wallace così descrisse all’amico Jonathan Franzen: «In parte Rottweiler, in parte Lab (?) o Boxer (?) […] Ha buon cuore, è paziente e intelligente quanto basta per cavarsela con Werner».
L’arrivo di Bella, che ricompose la coppia canina con Werner, diede a Wallace la sensazione che la sua famiglia fosse di nuovo al completo. In quel periodo progettava di aprire un canile, valutava di dimenticare per un po’ la scrittura o comunque di dedicarsi in futuro solo alla non-fiction, anche se in realtà il romanzo incompiuto, Il re pallido, a cui lavorava da anni, continuava a tormentarlo. Intanto, decise di abbandonare la terapia con il Nardil che seguiva da venti anni, inizialmente per passare a un altro antidepressivo, poi provò a rinunciare del tutto agli psicofarmaci, perché voleva una vita normale. Poco dopo, però, fu ricoverato per un episodio depressivo maggiore, ma dopo le dimissioni Wallace non aveva più fiducia nei medici e nelle medicine.
Un giorno, alla fine di una lezione all’università, scoppiò a piangere senza motivo.
«Stava così male, verso la fine – ha scritto Franzen – che ogni suo pensiero, su qualunque argomento, si avvitava immediatamente nella medesima convinzione della sua indegnità, provocandogli paura e dolore continui».
Forse aveva capito che senza gli antidepressivi non riusciva più a scrivere. O che una vita «normale» non l’avrebbe mai potuta vivere. In Infinite Jest aveva scritto sulla «depressione psicotica» parole definitive:
«La persona in cui l’invisibile agonia della Cosa raggiunge un livello insopportabile si ucciderà proprio come la persona intrappolata si butterà da un palazzo in fiamme. Non vi sbagliate sulle persone che si buttano dalle finestre in fiamme. Il loro terrore di cadere da una grande altezza è lo stesso che proveremmo voi o io se ci trovassimo davanti alla stessa finestra per dare un’occhiata al paesaggio; cioè la paura di cadere rimane una costante. Qui la variabile è l’altro terrore, le fiamme del fuoco: quando le fiamme sono vicine, morire per una caduta divenuta il meno terribile dei due terrori. Non è il desiderio di buttarsi; è il terrore delle fiamme».
Così, dopo una terapia elettroconvulsiva, un ricovero e diversi consulti psichiatrici, Wallace, al culmine del suo successo come scrittore, fu spinto a farla finita per il «terrore delle fiamme», che sentiva sempre più vicine. Si impiccò sul patio di casa, dopo aver lasciato nel garage una lettera d’addio alla moglie e quasi duecento pagine di manoscritto del suo romanzo incompiuto.
Alla fine, l’amore per i cani non lo ha salvato. Sua sorella disse che per molto tempo non riusciva a togliersi dalla testa l’immagine di David impiccato davanti ai suoi cani, nel buio della casa. «Sono sicura che li ha baciati sulla bocca – disse – e gli ha chiesto scusa».
Fabrizio Coscia