25 Agosto 2023

“A quel che accade, un senso l’uomo non riesce a dare”. Note su Qohèlet e sul cielo che mette radici

Il poeta distilla domande come gocce d’acqua paziente che sgretola pietre:

Dov’è la vita che abbiamo perduto vivendo?

Dov’è la sapienza che abbiamo perduto conoscendo?

Il fare e il dire di sapere al nodo di una domanda di senso – tipicamente greca, tipicamente universale – che esige risposte da giocatori non bari. Innanzitutto, non barare significa usare una lingua durissima, per esempio quella ebraica di Qohèlet, che tra fumo (havèl havalìm) e vento che ha fame, riduce vita attiva e presunta sapienza a vapore (hebel, tradotto impropriamente come vanità) e nulla più.

“Ma ad ogni cosa che esiste
A tutto quel che accade sotto il sole
Un senso l’uomo non riesce a dare
Lì sopra gli uomini si affaticano
Senza poter trovare
E il sapiente che dice di sapere
Neppure lui ha trovato”

Richiami che giungono dal lontanissimo 200 a. C, ma le categorie della fisica – spazio e tempo – così solerti nel compiere il proprio lavoro, a separare solo in apparenza l’uomo che ascolta Qohèlet da quello di Eliot, si fanno pareti di carta velina di fronte a quello che è soltanto un chiedere verità – spesso e volentieri sommerso – che arranca stancamente sotto il sole, in quello che Pavese chiama il vivere che taglia le gambe.E neanche la quiete delle stelle porta consiglio ad un uomo che getta in pasto al suo vuoto grandi e piccoli autoinganni; capita così che, mentre cammina verso Gerusalemme, non sia in grado di raggiungerla. Lungo la strada, infatti, le vicende umane sono poco più che un rincorrersi di miserie e niente pare destinato alla durata o, ancora peggio, ci si lancia nella disperata impresa di edificare il duraturo con l’effimero.

Il fondamento della parola qohèletica è distruggere la parola inutile; sconsacrare il tempio eretto dall’ego, dissolvere come pulviscolo le false immagini che costruiamo pensando di ingannare il destino. Scomodiamo impropriamente gli eoni, ere geologiche, solo per dire che l’uomo – da sempre e per sempre lo stesso – attraversa la storia sotto lo sguardo di sole e stelle, ché loro rimangono lì come sentinelle di una Creazione più grande, a ricordarci un ordine più alto, ma ferreo nella sua necessità. E infatti, Qohèlet avverte: nessun potere ha l’uomo sul vento; il suo fare e disfare svaniscono senza traccia, nei giorni che troppo rapidamente dal desiderio si volgono in sciagura.

Così recita un’antica canzone religiosa della popolazione Fang, dell’Africa equatoriale:

‘Nzame (Dio) è in alto, l’uomo in basso
Dio è Dio, l’uomo è l’uomo
Ciascuno da sé, ciascuno in casa sua.

E ancora, in Qohèlet:

Perché nel cielo è Dio
E sulla terra tu.

Scrive Mircea Eliade (in Trattato di storia delle religioni) a proposito della canzone dei Fang, che il pantocratore ‘Nzame è una divinità trascurabile, cui la popolazione ricorre quando non può proprio farne a meno, per esempio per invocare la pioggia. Non è sempre stato un dio trascurabile, ma con il passare del tempo si è come ritirato dal culto, perché le popolazioni primitive tendono ad attribuire sempre meno importanza alle divinità puramente uraniche, confinate nel cielo. Infatti “l’uomo è quaggiù” e l’eclissi del sacro coincide con un reciproco ignorarsi di uomo e dio. In Qohèlet, dove anche qualsiasi teodicea si fa cibo per il vento, la lezione all’uomo che riempie una nostalgia con un vuoto si conclude con l’esortazione a temere Dio, osservare i suoi precetti perché

Tutte le azioni Dio chiama in giudizio
Tutto il bene nascosto
Tutto il nascosto male

E lo sappiamo, le parole dei sapienti sono chiodi che si conficcano, a paralizzarci dentro una distanza incolmabile tra due punti, non soltanto geografici. Un totalmente altro – che tanto ricorda quello della canzone dei Fang – e l’esortazione a gioire di ciò che ci è dato sembra non tenere conto che anche dentro questa gioia germina un perché, un chiedere da dove e per dove (o, ancora, un beffardo: tutto qui?) sebbene in modo meno drammatico che di fronte alla fatica di vivere.

I giorni sono solo rumore e il linguaggio inganna, perché chiama mancanza quella che non sa di essere un’attesa. Attesa di un’ora diversa, quella dell’Incarnazione, che giunge come una promessa che attraversa proprio gli eoni, per dire una parola nuova che rischiara la distanza tra viandante e destinazione, a dare un’altra ragione agli occhi che si levano su in preghiera; è proprio quaggiù che il cielo ha messo radici: già, ma non ancora. Così anche le stelle e il sole, ridotti a meccanico sorgere e tramontare, conosceranno una nuova indulgenza e perfino per la loro stanchezza, la loro solitudine – rispondendo al domandare di un altro poeta, Pessoa – esisterà qualcosa così, come un perdono.

Livia Di Vona

Gruppo MAGOG