22 Maggio 2020

Per leggere Curzio Malaparte, lo scrittore eccentrico a tutto – anche a se stesso – dovete andare negli Stati Uniti

Che scoperta. Curzio Malaparte è uno dei grandi scrittori del Novecento – io non conto nulla, ma lo preferisco alle lacerate pagine di Pavese, al trapezio didattico di Calvino, alla pece pasoliniana. Spalanco i libri di Malaparte, putrescenti, eccessivi, eccezionali, anomali, imperiosi, e vedo qualcosa che si muove, come una cesta piena di serpi. Le parole di Malaparte si muovono. E lui mi pare puro Caravaggio, uno che della Madonna vede i piedi sporchi, sagomati di fango, che del sacro assembla l’osceno.

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A Lima i condor avevano messo nido sopra le case spelacchiate. Gli uccelli ti guardano male, là, perché il sentore di morte è ovunque se non hai i soldi per pagarti le guardie del corpo, e tutto è cibo e divoratori di cibo, come dice il santo Mani. Scortato – appunto – andai in Università – statale, i diamantati campus all’americana mi erano preclusi. Parlai di tre libri, diversamente emblematici, sulla Seconda guerra in Italia. Il partigiano Johnny, Racconto d’autunno, Kaputt. La traduttrice era italiana, a insegnare lì, al capo opposto del nostro mondo, dopo un concorso vinto attraverso il Ministero degli Esteri. Immaginai storie di solitudine, superbia, lussuria – che non mi confermò.

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L’ultimo capitolo di Kaputt s’intitola “Il sangue”. In Malaparte c’è qualcosa di biblico, ovunque. Egli pare il cronista che racconta l’eccidio Gerico, è l’oplita che varca l’ossario israelitico insieme ad Alessandro il Grande, è il satrapo che assiste allo sterminio di Sodoma, l’architetto che fa crollare Babele, lo scriba che a Babilonia tira a sorte condannati o redenti. “Quella parola suonava nuovamente come una parola divina”, scrive Malaparte a proposito della parola sangue. “Ero stanco, deluso, avvilito… Tutti fuggivano la disperazione, la miserabile e meravigliosa disperazione della guerra perduta, tutti correvano incontro alla speranza della fame finita, della paura finita, della guerra finita, incontro alla miserabile e meravigliosa speranza della guerra perduta. Tutti fuggivano l’Italia, andavano incontro all’Italia”.

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Secondo l’etimologia dettata da Malaparte, kaputt “proviene dall’ebraico kopparoth, che vuol dire vittima”. La Bibbia è “voce del sangue” e gli animali scelti come vittime – vitto al dio – sono dissanguati, eppure “non spargete il sangue” (Gn 37, 22): la pasta rubina è raccolta in prodigiosi catini. Nella guerra tutto è vittima; la scoperta di Malaparte, nelle viscere di Napoli, è la “sofferenza senza disperazione, una sofferenza illuminata da una grande, bellissima speranza, di fronte alla quale la mia povera e piccola disperazione non era che un sentimento gretto di cui avevo onta e pudore”. Già, ma il sangue di quelle vittime sul sagrato della guerra quale dio ha da sfamare? Kaputt termina così, “Eh, che volete, signore: hanno vinto le mosche!”. Mosche. Belzebù. Ronzio sinistro. Il Signore delle Mosche.

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Certo. È esasperante, patetico, esagerato, prodigo al grottesco, Malaparte. Si dissangua scrivendo, s’intrufola nella faida della Storia. È insopportabile – e necessario. Credo che in altri paesi ne farebbero un santo, l’agiografia della dissoluzione, sarebbe capitale romanzesco. Eppure. Che paradosso. Il suo Diario di uno straniero a Parigi, pubblicato nel 1966 da Vallecchi, postumo, per la cura di Enrico Falqui, è introvabile. Tocca leggerlo nella traduzione americana – Paris Journal, per mano di Stephen Twilley; in Francia La table ronde ha pubblicato il Journal d’un étranger à Paris nel 2018, che esiste pure in una versione olandese del 2014… – introdotta con devozione da Edmund White, scrittore di lusso (di suo, in Italia, leggete almeno La doppia vita di Rimbaud, Ritratto di Marcel Proust e Ladro di stile. Le diverse vite di Jean Genet).

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In un articolo di Gary Indiana, pubblicato su “Book Forum” nel 2006, intorno alla traduzione americana de La pelle. “Curzio Malaparte è stato il Proust del macello che ha sconvolto l’Europa”.

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Lo dicono Eccentric Italian, laggiù, Malaparte. Eccentrico rispetto a un centro centripeto al convenzionale. Concentrato in se stesso, piuttosto, messo all’angolo, Malaparte esercita la scrittura come martirio. È nudo, davanti a te, attende il pugnale, ne hai il coraggio? Al posto del sangue, dalle sue vene ventose, escono verbi, epigrammi, condanne. Si scrive ciò da cui si fugge, in memoria dell’inevitabile. (d.b.)

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Curzio Malaparte, prima di tutto, è un costruttore di frasi – frasi sensuali, che restano impresse a lungo nell’immaginazione. Nonostante si ritenesse un pensatore – era piuttosto geloso della fama di Gide, Sartre e Camus – le sue dichiarazioni sui francesi (“La Francia è l’ultima patria dell’intelligenza”), sul comunismo, sull’esistenza e sulle donne, lo rendono spesso confuso, ripetitivo, banale, sregolato, mentre la scrittura di un aneddoto bizzarro, un ricordo, una sensazione sono sorretti da frasi pressoché infallibili.

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In realtà, fu un mitomane, un mentitore compulsivo che adorna la verità di aggettivi, non sempre per guadagno ma per una sfrenata necessità. Chiunque abbia letto i suoi capolavori sulla Seconda guerra, Kaputt o La pelle, non può dimenticare la scena, memorabile quanto improbabile, dei napoletani affamati che servono agli americani una bambina bollita in maionese, con coda di pesce, sostenendo che si tratti una sirena; o la scena dei cavalli che precipitano in uno stagno, nel nord Europa, e si ghiacciano, dando ai visitatori l’idea di una giostra bloccata, agghiacciante… C’è un brano del libro in cui un ufficiale fascista apre una pentola ricca di ostriche sgusciate dichiarando che si tratta di 40 chili di occhi umani. Non dico che questi eventi non siano veri, ma è certo che Malaparte ha una particolare attenzione verso il grottesco. Vere o meno, queste scene rendono alla perfezione gli orrori della guerra.

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Dopo la guerra, Malaparte fu a Parigi: si attendeva un’accoglienza più calda di quella che ha ricevuto. Ha parlato e scritto in francese. Era socievole, ha coltivato molti amici parigini, era un sagace donnaiolo. Come risulta dal suo diario, in diversi lo evitavano, giudicandolo un fascista. A Parigi si vantava del suo esilio a Lipari, per cinque anni, per aver criticato Hitler; era stato agli arresti domiciliari nella lussuosa villa di Capri, diceva, per il suo assiduo antifascismo. In effetti, negli ultimi giorni del regime fu incarcerato per sottrazione indebita di fondi pubblici ad uso privato. Era stato membro del partito fascista e sostenitore di Mussolini. Fu messo agli arresti per aver attaccato verbalmente Italo Balbo, pilota ed eroe. Malaparte aveva scritto – per lo meno, firmato – un ritratto agiografico di Balbo. Il pilota non gradì e lo scrittore cominciò a calunniarlo. Malaparte era un uomo complesso, inquieto: alla fine della sua vita era un fervente cattolico e un membro del Partito Comunista.

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Di certo, fu un eccentrico. L’amore più grande della sua vita era il cane Febo. Quando scomparve, Malaparte lo cercò disperatamente per tutta Torino. Lo trovò da un vivisezionista. Malaparte nota che nessuno dei cani costretti alla tortura abbaiava: il medico gli spiega che il primo gesto compiuto in laboratorio è segare le corde vocali alle bestie. Malaparte, stremato dal dolore, convince lo scienziato a fare una iniezione letale a Febo, liberandolo dalle sofferenze. Di certo, si sentiva più vicino agli animali – innocenti, privi di innata malvagità – che agli uomini, Malaparte.

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È pieno di opinioni, su tutto, senza essere sinceramente interessato a nulla. Parla di Cartesio, ma forse non lo ha mai studiato, lo usa per dimostrare le ragioni dell’istinto sulla ragionevolezza. Lo esalta la distinzione tra Racine e Corneille; disprezza le donne tanto quanto ne ha bisogno, di una dice che “era piena di ovaie fino al collo”.

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In effetti, restò fuori luogo, un espatriato. In Francia non apparteneva agli esistenzialisti né ai comunisti, le due cabbale fondamentali; in Italia era stato eclissato da Alberto Moravia. In America fu denunciato da una rimarchevole donna che lo accusò di essere un rapace mentitore: “La verità in lui è una minuscola molecola sepolta da un gigantesco bozzolo di menzogne”.

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Per essere un anti-intellettuale Malaparte fu uomo dall’intelligenza sgargiante. Non fu un provinciale: conosceva l’Europa dell’Est, la Russia, la Finlandia, la Spagna, la Francia; poteva affezionarsi a chiunque, chiunque avrebbe potuto chiamarlo Mister Camaleonte. Come ha scritto il suo brillante biografo, Maurizio Serra, “Il camaleonte sa fare l’aristocratico con gli aristocratici, il diplomatico con i diplomatici, il soldato con i soldati”.

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Nel libro, prende il sopravvento lo sconcerto. Fa dei francesi i responsabili di Dachau. Quando continuano a chiedergli perché non abbia abbandonato le forze di Mussolini, esagera la domanda fino al grossolano. “Preferisco gli autentici collaboratori ai resistenti fasulli”. Racconta ai francesi quando fu convocato a Palazzo Venezia, da Mussolini, aveva vent’anni. Attende per ore, attraversa la stanza, silenziosamente, si approssima alla scrivania di Mussolini, nessuno lo riconosce. Alla fine Mussolini lo guarda, è stupito dalla sua giovinezza. Conosce tutto di lui. “La prego di non occuparsi più di me. Non amo i pettegolezzi e gli editoriali maliziosi”. Quando Malaparte gli chiede cosa lo abbia offeso, Mussolini risponde, “Due giorni fa al Caffè Aragno ha detto che indosso brutte cravatte”. Malaparte si scusa, viene allontanato. Poco prima di uscire, si volge verso Mussolini, gli dice: “Anche oggi, in effetti, indossa una brutta cravatta”. Mussolini ride, conquistato dalla sfacciataggine del giovane.

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Oggi ridiamo ancora delle sue osservazioni oltraggiose, discutiamo della sua singolarità, ed è indiscutibile la bellezza della sua prosa quanto il fascino dell’uomo.

Edmund White

Gruppo MAGOG