12 Marzo 2022

“La luce lavora sull’ombra”. Montherlant, la tauromachia e Don Chisciotte

Si capisce poco di Montherlant se non si tiene presente il suo amore per la Spagna, coltivato sin da ragazzo e mai abbandonato. Una delle sue tragedie “spagnole” più famose, La reine morte, è del 1942, quando dunque l’autore aveva superato i quarant’anni, un’altra, Le maitre de Santiago, è di cinque anni più tardi, una terza, Don Juan, vedrà la luce all’incirca vent’anni dopo, così come una quarta e ultima, Le cardinal d’Espagne.

Tutte si rifanno coscientemente a quella idea di Ramón María Valle-Inclàn (1866-1936) che concepiva l’azione teatrale alla stregua dei tercios di cui è composta una corrida, ed è proprio una corrida, vista ancora quattordicenne a Bayonne, l’elemento scatenante di questo amore. Les bestiaires (1926), il suo grande romanzo sulla tauromachia, nasce allora nella sua immaginazione e troverà la sua realizzazione quando l’autore ha appena toccato i trent’anni e si appresta a lasciare la Francia per vivere altrove. Dove? Spesso e volentieri in Spagna. Ed è ancora e infine la Spagna, e la corrida, a tornare in quello che è l’estremo romanzo di Montherlant, Il caos e la notte, amara riflessione sulla miseria del vivere.

Per chi fosse interessato a saperne di più consigliamo la lettura di Montherlant et l’Espagne, appunto, di Manuel Sito Alba (Librairie C. Klincksieck, 1978) che oltre a essere incentrato sulle fonti spagnole di La reine morte, contiene anche quelle puntualizzazioni erudite che fanno la gioia dei ricercatori: per esempio, il numero di volte che Montherlant cita Cervantes, Calderòn, Quevedo, Gongora, Unamuno…

Non essendo noi eruditi, lasceremo volentieri da parte questa ricerca puntigliosa di preferenze letterarie o addirittura geografiche (Toledo no, e però l’Andalusia sì…) e non faremo al lettore il torto di cercare di parafrasare la bella introduzione di Montherlant al capolavoro di Cervantes qui presentata. Più semplicemente, metteremo in fila qualche riflessione intorno alla passione taurina di questo scrittore francese, che è poi un tutt’uno con la sua, la chiamiamo così, passione spagnola.

Credo di non sbagliare dicendo che ciò che nella corrida affascinava Montherlant fosse essenzialmente la paura. C’erano, naturalmente, tutte le altre motivazioni estetico-rituali, per dirla alla buona, la cerimonia e la recita, il sacerdote e la vittima sacrificale, il coro e i colori, l’arte in movimento eccetera, ma erano secondarie rispetto a quel sentimento dominante. Ho scritto paura e non coraggio e l’ho scritto non a caso. È difficile che il coraggioso lasci il passo alla paura, è possibile che il pauroso trovi in sé il coraggio. C’è più alternanza nella seconda concezione che nella prima e l’alternanza è una delle chiavi dell’etica di Montherlant, nonché della sua arte: “Non ci sarebbero ombre se non ci fosse luce e la luce lavora sull’ombra”.

C’è poi un secondo elemento della corrida che Montherlant fa proprio e che in francese ha una parola più o meno intraducibile nella nostra lingua, ovvero l’hauteur. In essa si mischiano più cose, lo stile alto e il portamento nobile, la sprezzatura e il disprezzo verso ciò che è basso, il distacco e l’ethos della distanza, la solitudine e la difesa del proprio io… L’unicità, insomma, l’esserci alla fine soltanto tu nell’arena, così come nella vita.

L’uno e l’altro aiutano a capire come e quanto la Spagna cavalleresca e insieme decaduta, povera, ma onusta di passate quanto polverose ricchezze, antimoderna eppure laboratorio tragico della modernità novecentesca, agissero sul suo animo. Per il trentenne Montherlant che la scelse voltando le spalle a una madrepatria dove l’aver assaggiato la fama l’aveva disgustato della fama stessa, la Spagna fu la libertà di essere sé stesso senza che nessuno sapesse chi tu eri, il piacere di una vita più naturale, la possibilità di far rivivere il passato, rimetterlo come in sintonia con il presente.

Oggi Montherlant è uno scrittore inattuale, incomprensibile quasi, nel senso che sembra provenire da un altro mondo dove si praticano valori considerati nella nostra contemporaneità anacronistici. Ha avuto la fortuna di uccidersi, lì dove l’eroe di Cervantes moriva di tristezza proprio per aver perduto “l’esaltante idea che aveva di sé stesso”. All’idea di sé stesso Montherlant non abdicò mai, anche se era perfettamente consapevole che “dieci anni dopo la mia morte sarò stato dimenticato da tutti”. Però aveva vissuto e aveva scritto e questo, nel gioco dell’alternanza, aedificabo ad destruam, giustificava la partita.

Stenio Solinas

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I giovani spiriti che entrano in contatto con le cosiddette opere classiche, devono essere messi in guardia da due atteggiamenti: la denigrazione sistematica e soprattutto il sistematico rispetto. La denigrazione sistematica passa per essere tipica dei giovani; lo è a maggior ragione il sistematico rispetto.

Queste due attitudini sono ancor più attrattive in un’epoca nella quale il pensiero sistematico – fa ridere accostare queste due parole che si escludono l’un l’altra – è quasi l’unico a essere tenuto in onore, mentre il pensiero oggettivo è fatto segno di disprezzo e ritenuto scandaloso.

Se applicassimo questa impostazione a tutte le opere letterarie, senza limitarci a quelle definite classiche, bisognerebbe aggiungere: il silenzio sistematico. Silenzio nel quale si sono inabissate per sempre innumerabili opere del passato e del presente, non migliori ma neanche peggiori a fronte di quelle che, dopo secoli, senza colpa, possono essere accolte con una sorta di ottuso rispetto.

Il silenzio sistematico è l’ambrosia propria dei colleghi confratelli. La sistematica denigrazione è lo spumante dei giornalisti. Il rispetto sistematico è il pane dei professori. Mio Dio! Quanto rispetto tributato in modo inopportuno! E non soltanto a uomini di lettere ma anche a uomini d’azione deplorevoli o sinistri, o meritevoli di entrambi gli attributi. Che pletora di rispetto in questo basso mondo!

Henry de Montherlant

*Si riproducono, per gentile concessione, l’introduzione e i primi paragrafi di: Henry de Montherlant, Contro “Don Chisciotte”, De Piante 2022 (traduzione di Ulisse Jacomuzzi)

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