18 Maggio 2022

Politica: giù le mani dalla cultura! Una polemica

Martedì 22 maggio, giorno numero 4 del Salone del Libro di Torino, viene pubblicato su «Il Giornale» un articolo a firma di Francesco Giubilei: “Salone del Libro e Circolo dei lettori: non regaliamoli alla sinistra”. In vista delle future nomine dei direttora/e/i/o/u/y di entrambe le istituzioni, Giubilei, dopo un’acuta riflessione sull’egemonia della sinistra radical nei posti di prestigio dell’ambito culturale, esorta il centrodestra, che governa in Piemonte, a svegliarsi e non lasciarsi sfuggire questa occasione. Nulla da obiettare, un colpo al cerchio e uno alla botte.

I problemi, però, in mia opinione, arrivano con i maldestri tentativi di essere politicamente corretto: In queste settimane sono circolati vari nomi e la partita è ancora aperta con due ipotesi in campo: da un lato tecnici che rischierebbero di non essere tali ma sbilanciati a sinistra, dall’altro una figura di spessore con valori assimilabili al mondo del centrodestra.

Quindi se “pendere” a sinistra è uno sbilanciamento tale da mettere a repentaglio la propria stessa professionalità di “tecnico”, essere ricondotti al centrodestra non è che detenere chiari valori. E i valori sembrano avere importanza ieratica: Sarebbe una scelta importante perché garantirebbe la nomina di un profilo culturale e valoriale ben definito. Il rischio di affidarsi a figure “tecniche” ma vicine all’apparato culturale della sinistra potrebbe avvenire per il Salone del Libro di Torino di cui nel 2024 verrà indicato il nuovo direttore.

Ergo, il Salone lo diamo già per disperso. Fermi in porto, immaginiamo la grande nave levare l’ancora, e guardiamo donne in abito da sera e uomini in smoking che ci salutano agitando forte i fazzoletti, rigorosamente rossi.

Ma ciò che mi ha dato per giorni da pensare, e che mi ha spinto a questo sproloquio, è quanto segue:

“Si tratta di una questione di principio: quando la sinistra è al governo a livello nazionale, regionale, comunale, tende a compiere (attualizzando la lezione dell’egemonia gramsciana), un’occupazione dei posti chiave in ambito culturale. Siano essi teatri, fondazioni, circoli letterari, nulla viene lasciato al caso e nessuna posizione viene concessa a chi proviene da una diversa tradizione politico culturale”.

E quanto scrive Giubilei qui è giusto. La politica è tutto e tutto è politica, ma la cultura può (e deve?) essere sottomessa al suo giogo? La cultura forma, il che è un eufemismo per dire che influenza le menti, e la persuasione cos’è, se non politica? Ma l’essere uno strumento di potere non la definisce. Semmai è parte dell’effetto. Andiamo con ordine: quando parliamo di “politica culturale”, intendiamo i piani di governo a tutela e promozione dell’arte tutta, dell’educazione, della comunicazione in generale. Mi servirò quindi del singolare, il concetto di opera d’arte, che sia letteraria, pittorica, musicale, per sfiorare l’universale. Ora, questa non è una tautologia, anzi, la fallacia logica del ragionamento è evidente, ma sarà ugualmente funzionale.

L’opera d’arte cosa fa? Produce una reazione, non ci lascia indifferenti. Produce un’emozione. Trasmette dei messaggi. Veicola idee. Per quanto Bruno Latour, per rintracciare le retroazioni ed enfatizzare la forza degli effetti al di là della causa, ritenga che l’azione prodotta da un agente possa servire, forse bastare, a definirlo, in questo caso le cose non stanno così. Cosa l’arte fa, non è cosa l’arte è. L’arte è necessaria a sé stessa, parafrasando un bel libro di Fabrizio Desideri. L’opera ha senso da sé, per sé. In parole povere? Una poesia che non avrà mai alcun lettore, perché chiusa in un cassetto o sepolta sotto la terra umida, rimarrà sempre una poesia. Ossia, non si può ridurre un’opera alla sua ricezione, e quindi al veicolare un messaggio. E questo concetto, il “necessaria a sé stessa”, si ricollega a un tema classico, quello dell’entusiasmo («invaso da una forza o furore divino»), o mania divina, o genio artistico. Ciò che rende l’artista, nel momento della creazione dell’opera, fuori di sé, come se fosse una forza altra da sé, Kant direbbe la Natura che dà la regola all’arte, a produrre. Ancora oggi, sono cambiate le parole, il concetto è rimasto. Roberto Bolaño in 2666 lo riconduce al vuoto: «Dentro l’uomo seduto a scrivere non c’è nulla».

Mi sbilancio, perché oso, e cado: la cultura, nella sua totalità, è superiore alla politica. È qualcosa che sta lì, su, nell’aere, è un pallone d’elio che sfugge dalle mani. E la politica è quel bambino che l’ha perso e salta, corre, si precipita col cuore in gola, ma il filo è troppo in alto. Le mani che sudano. Le lacrime.

In un articolo del 24 maggio pubblicato su Pangea leggo una frase di Hugo von Hofmannsthal: «Il poeta non può respingere nulla via da sé. Egli è il luogo in cui le forze del tempo tendono a equilibrarsi». Non c’è intellettuale che non abbia ideale politico, ma nel momento in cui produce l’opera è il tempo che si manifesta. Certo, sia chiaro, nell’Opera d’Arte. L’opera è la storia, nella sua ciclica compiutezza. Il mondo intero, nella sua totalità. Non si può, perciò, ridurre all’artista, sia esso fascista, comunista, gay o antisemita. Questo vale anche per ogni ingerenza biografica, che per alcuni, ahimè, sembra essere necessaria a una corretta interpretazione di un’opera.

È per tutto questo che penso sia ridicolo vedere professori universitari che chiedono scusa ai propri studenti se hanno la necessità di citare Carl Schmitt, o intellettuali che tacciono il talento di Céline dietro la sua abietta ideologia. E oggi si chiacchiera (se si dibatte, ditemi dove), di Cancel Culture come fosse qualcosa di nuovo!

La sinistra ha voluto obnubilare parte della produzione artistica per ragioni ideologiche, è vero. Ma Giubilei manda all’aria la possibilità di una riflessione seria con una considerazione inelegante:

“Quando il centrodestra ha l’opportunità di governare, è necessario seguire lo stesso modus operandi e promuovere personalità, a livello locale e nazionale, che non solo non siano ostili, ma provengano da un campo di gioco ben definito”.

Sarebbe quindi necessario che la destra seguisse lo stesso modus operandi, e questo termine, non a caso, è di uso comune in relazione ai serial killer. Si tratta di riproporre la stessa modalità, finora criticata, di uccidere il pensiero critico. Mi chiedo se l’unico modo d’azione che la politica possa avere sull’arte e la cultura in generale sia eliminarne una parte, dovendosi coprire gli occhi, come a fissare il sole, alla vista della sua totalità. Perché il Tempo non ha padroni, il Genio non ha padroni. E, per quanto Giubilei finisca per pasticciare – “Ciò non significa per forza scegliere figure con una connotazione partitica bensì orientarsi verso nomi che abbiano una visione valoriale condivisa. Solo così si potrà incidere riuscendo a realizzare programmi, eventi, iniziative che promuovano temi e autori spesso (ingiustamente) lasciati ai margini o che non trovano spazio quando la gestione è di segno opposto” – credo che in fondo sarebbe d’accordo con me: la politica dovrebbe guardare la cultura da lontano, come mera(?) contemplazione. Lui stesso, qualche anno fa, in relazione alle polemiche che vennero fuori con la presenza di Historica al Salone, disse: «Mi domando che cosa dice chi ha creato questo clima di odio, […], chi ha esacerbato i toni creando uno scontro tra delle fazioni quando in realtà la manifestazione, una manifestazione come il Salone del libro di Torino, dovrebbe essere un evento dedicato ai libri, dedicato alla promozione della cultura».

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