“Oggi, ogni ufficio, ogni industria è una prigione”. Un saggio di Aldous Huxley su Piranesi
Cultura generale
Aldous Huxley
Nell’immensa e solitaria opera di analisi critica dei valori di una modernità colta al suo crepuscolo, Walter Benjamin si fa forte di un’arma a lui estremamente congeniale: la citazione.
Strana ambizione la sua di voler comporre in vita un libro esclusivamente costituito di frammenti di citazioni! Infatti, a partire dall’importante saggio critico su Le affinità elettive (1921), la tecnica procedurale delle citazioni e il gusto, tutto personale, verso il “citazionismo”, avranno per Benjamin una funzione centrale in ogni sua opera successiva.
Come Hannah Arendt conferma e spiega esplicitando nello studio a lui dedicato: «Proprio questo distingue i suoi scritti da ogni genere di trattazione erudita, in cui la funzione delle citazioni è di provare e di documentare un’opinione, motivo per cui esse possono tranquillamente venire inserite nelle note. Ma questo non è affatto il caso di Benjamin. All’epoca in cui preparava il suo studio sul dramma barocco, si vantava di una raccolta di “oltre 600 citazioni, in bell’ordine e facilmente reperibili”; e al pari dei successivi taccuini, questa raccolta non era un accumulo di estratti intesi a facilitare la stesura del saggio, bensì rappresentava la parte più importante del lavoro, rispetto a cui la stesura vera e propria veniva a trovarsi in secondo piano» (Hannah Arendt, Walter Benjamin 1892-1940, SE, Milano 2004, p.73).
La tecnica del “montaggio” di citazioni diverse, più o meno attinenti al discorso critico-letterario, giungeva a Benjamin attraverso le vie convergenti d’una duplice derivazione “storica”: il montaggio cinematografico e l’avanguardia surrealista. Pratiche artistiche legate ai nuovi mezzi di riproduzione tecnica, prese e trasposte dal nostro critico, con originale e geniale intuizione, dal campo aperto della storia dell’arte a quello più ristretto ed intimo della scrittura letteraria. Pratiche adottate con l’intento di dare maggiore validità estetica e un libero sostegno critico al saggio letterario. Da ciò, ben al di là dal considerare tali intrusioni citazionali semplici ornamenti formali, più o meno funzionali al discorso teorico/critico, va anche detto che tali componenti di base di qualsiasi genere e provenienza, erano ripresi e riportati nel contesto di studio alla luce della storia culturale collettiva, quali preziosi frammenti documentari, interessanti oltre che per la costituzione di un “archivio” storico-letterario da mettere accanto a quello delle immagini fotografiche, anche come segno pregnante della disgregazione di una civiltà che obbliga a muoversi tra i frammenti culturali rimasti a galla attorno a noi come ultima testimonianza di un mondo sul punto di inabissarsi.
I procedimenti sono quelli del continuo e del discontinuo, della ripresa e del rimando senza logica apparente, tipici della tecnica cinematografica e del linguaggio filmico in particolare. Prelevare frammenti comunicativi dal microcosmo del reale per immetterli nel macrocosmo narrativo e immaginifico, è operazione tecnica di carattere prettamente scientifico. Ci si muove dalla semplice continuità narrativa del racconto lineare alla complessità del montaggio cinematografico colto e praticato come riflesso della discontinuità visiva del mondo moderno. Ma è anche l’illusione di voler raggiungere, con l’uso delle nuove pratiche riproduttive, la comprensione di questo mondo attraverso l’accumulo delle storie umane, sia le grandi che le piccole. Tutto, infatti, è significativo per il narratore, così come per il cineasta: entrambi vogliono cogliere in fieri la fugacità dell’istante tentando di cogliere il senso dell’esistenza umana nell’accostamento preordinato delle citazioni letterarie e storiche.
È ancora nelle parole di Hannah Arendt che possiamo ritrovare le ragioni profonde di questo amore per il frammento divenuto poi usuale nella produzione letteraria di Benjamin. Spiega la Arendt: «Il lavoro principale consisteva nello strappare frammenti dal loro contesto e nel disporli secondo un ordine che permettesse loro d’illuminarsi reciprocamente e di dimostrare la propria raison d’être in uno stato, per così dire, di libera sospensione. Si trattava senza dubbio d’una sorta di montaggio di derivazione colta surrealista. L’ideale di Benjamin era quello di costruire un’opera che consistesse unicamente di citazioni, e dunque così sapientemente montata da poter rinunciare a qualsiasi testo di accompagnamento. Idea che può sembrare grottesca e autodistruttiva, ma non lo era più di quanto non lo fossero gli esperimenti surrealisti contemporanei nati da impulsi analoghi».
La reinvenzione del reale, attraverso pratiche critiche di ricontestualizzazione (quali il remix, il mashup, ecc.) costituisce la forma fluida e fusionale di un’operazione artistica collettiva, poiché provengono dai confini estremi di una network-culture emergente attorno al tema dell’hacking e della proprietà intellettuale. Rappresentano idee fondamentali soprattutto riguardo all’appropriazione di materiale artistico e letterario, già elaborato da altri, da utilizzare in un contesto diverso. Visione ultramoderna che in un ambito più marcatamente sociopolitico ci riporta alla teoria situazionista del détournement .
Pratiche simili sono presenti da secoli nel mondo dell’arte. Basti pensare all’Arco di Costantino (313 d. C.), realizzato con frammenti sottratti a fregi dedicati ad altri imperatori non soltanto per velocizzare i tempi della costruzione, ma soprattutto per ribadire nuove possibilità nell’operare artistico. Con l’era moderna le avanguardie artistiche, riportando in auge, in tempi a noi più vicini tecniche di manipolazione e di appropriazione quali: ready-made, mixage, collage, découpage, ecc. e con l’avvento innanzitutto della Pop art di Warhol e Lichtenstein, che hanno utilizzato fotografie e fumetti precedentemente realizzati da altri, ma trasformati da una diversa forma, per non parlare di autori, come Sherrie Levine, che negli anni Ottanta del Novecento, hanno messo profondamente in questione lo status dell’opera fotografica attraverso diversi lavori: in una serie molto celebre, questa artista ha rifotografato celebri scatti di Walker Evans, semplicemente firmandoli con il proprio nome.
Anche il panorama artistico attuale è un continuo rimando di specchi, con citazioni, appropriazioni e semplici ispirazioni prese a prestito. Basti pensare a Maurizio Cattelan, che così spesso ha indicato il “furto” come una fondamentale strategia del fare artistico. Si tratta di “manipolatori” che vogliono creare dei piccoli sistemi, ma anche oggetti, luoghi, contenuti, in cui le competenze divengano fluide, nomadi, riuscendo ad inventare nuove prospettive di relazione, di scambio e d’incontro. È l’operazione “transmediale” messa in campo da artisti autodefinitisi mediattivisti che viene contestualizzata attraverso la critica della proprietà intellettuale.
L’ambito aperto dalla pratica citazionista conduce quindi, come è evidente, a un duplice esito: la ricreazione di un’opera nuova di derivazione da opere precedenti e il superamento dell’arte intesa come proprietà privata.
La cornice è dunque ancora quella della critica della proprietà intellettuale, ovvero del copyright. Il copyright, i brevetti e la tutela dei marchi sono diventati i dispositivi giuridici per legittimare le attuali enclosures dei beni comuni, dall’acqua alla conoscenza generale. Sviluppare un’attitudine situazionista che va verso la liberazione della proprietà intellettuale significa dunque porsi in una prospettiva di “antagonismo critico” verso l’ordine del discorso dominante. Si tratta di riflettere, nei tempi della frammentazione storica, sulla natura sociale dell’opera d’arte, invitando a spostare su altri piani il discorso della cosiddetta “autorialità” (M. Foucault, Che cosa è un autore? In Scritti letterari, Feltrinelli, Milano 1996, p.1 e seg.).
Il rapporto tra autore e opera d’arte si riproduce in ogni momento uguale a se stesso nella consapevolezza che l’opera d’arte sia espressione particolare delle relazioni sociali che l’autore ha, e che la sua produzione artistica è sempre espressione di queste relazioni sociali.
Ma per capire cos’è ab origine questa traccia umana, ossia: “la funzione autore” presente in ogni espressione artistica, è bene rifarsi a ciò che scrive Foucault su quella figura misteriosa che è lo “scrittore”: «la traccia dello scrittore sta solo nella singolarità della sua assenza; a lui spetta il ruolo del morto nel gioco della scrittura. Da tempo ormai la critica e la filosofia hanno preso atto di questa scomparsa o di questa morte dell’autore».
Nella sua opera di critica lucidissima dei caratteri di una modernità colta al suo declino, Walter Benjamin, appassionato collezionista attento ai valori dell’infanzia, si rifà allo spirito ludico/letterario dei surrealisti (basti pensare a quel divertissement collettivo detto del “cadavre exquis”, così come ai collages e ai calligrammes), scopre essere questi non semplici giochetti artistici ma “jeux d’esprit”: autentici esperimenti magici con le parole. E il discorso è simile per la manipolazione delle immagini e dello stile con cui operano i registi sperimentali (da Èjzenštein a Hans Richter fino a Jean-Luc Godard) dell’arte cinematografica in straordinaria ascesa. Tra sogno e necessità si tentava di puntellare, come in una “Terra desolata” (Eliot, 1922), la nostra realtà frammentata, nel tentativo di contrastare la perdita progressiva dell’io e l’estrema reificazione dell’esistenza umana, con la intensificazione interna della riflessione critica e la resa creativa. Tentativo estremo di salvare il salvabile. In Strada a senso unico Benjamin confessa: «Le citazioni, nel mio lavoro, sono come briganti ai bordi della strada, che balzano fuori armati e strappano l’assenso all’ozioso viandante» (W. Benjamin, Strada a senso unico, Einaudi, Torino 2006, p. 61).
Ma chi è l’ozioso viandante? Non è forse lo stesso Benjamin, camminatore solitario per le strade della metropoli moderna, il cui sguardo analitico fa rivivere le immagini di un universo condannato alla barbarie nazi-fascista? Ma essi, i briganti, non seguono la via maestra, acquattati ai bordi della strada aspettano che il flâneur appaia per ingiungergli di seguire “la retta via” dominando il gioco felice delle interferenze extratestuali. Ma nella lettura di un’opera e di un autore, per una sua corretta valutazione, affinché l’opera si conservi viva e vitale, l’analisi critica deve arricchirsi di apporti diversi ed operare una sorta di “montaggio” dei diversi materiali prescelti a supporto della giusta e piena ricezione dell’opera.
Una tecnica artistica essenzialmente “deformante” quella dell’inserzione citazionale, come si può facilmente dedurre, la quale trova la sua origine primaria a partire proprio dagli scritti teorici dell’avanguardia surrealista, in particolare da quella visione dell’avanguardia artistica che collegava la conservazione del bello al momento “distruttore”. Ciò fa dell’uso della citazione un’arma a doppio taglio. Essa è parte costitutiva di un discorso in fieri che segue sempre due direzioni in palese contrasto creativo: tra forma e sostanza, tra fedeltà e infedeltà, tra accostamento e distanza. Sin dal suo apparire iniziale nel corpo del testo, essa toglie qualcosa nel momento stesso in cui lo aggiunge. Ma cosa toglie? Diciamo che, sia che ci si trovi davanti ad un’opera d’arte definita così come in un’espressione letteraria ancora tutta da definire, la citazione esplica il suo carattere costruttivo/distruttivo in primis nei confronti dell’autorità costitutiva dell’opera da tutti riconosciuta come indiscussa: ossia la “tirannia testuale” e, in particolar modo, l’inconfutabile sovrano dominio “autoriale”. Se ne deduce quindi che da parte di quei “briganti” appostati al bordo della strada si mira, tacitamente, a ridimensionare il potere dell’“Autore”.
La citazione, nel portare più vitalità al discorso artistico-letterario, preannuncia nel contempo una catastrofe sacrificale. Nel suo amore per le citazioni, Benjamin manifestava in buona sostanza tutta la sua passione per lo scarto, per l’oggetto perduto e dimenticato verso il quale, come in una sorta di vizio di forma, si dirigeva il suo amore per le macerie causate dal “progresso” tecnico.
Nell’esperienza nomadica alla base dell’inclusione del frammento, si muoveva la retorica formale del dandy, del flâneur e del bohémien… Figure della modernità morente che portano impresso sulle loro sognanti effigi non altro che dispersione e disfacimento, lasciandoci un mondo che ha liquidato la sacra unità delle tradizioni, del racconto popolare e l’integrità simbolica dei valori etici e politici.
Sì, la storia umana tutta è andata in frantumi e il mondo, ormai privo di armonia, non ha più ragion d’essere. Ed è ciò che ben vide Baudelaire dal suo esilio forzato in Belgio, un po’ prima di morire disperato e gravemente malato. Ora, per una volta, l’uso della citazione idealmente “rubata” spetta a noi: «Il mondo sta per finire. La sola ragione per la quale potrebbe durare, è che esiste. Com’è debole questa ragione paragonata a tutte quelle che annunciano il contrario, e specialmente a quest’altra: ormai che cos’ha da fare il mondo sotto il cielo?» (Charles Baudelaire, Diari intimi, Einaudi, Torino 1960 p.22).
Pasko Simone