In una intervista pubblicata sul Corriere della Sera per festeggiare i suoi 80 anni (li ha fatti in aprile), Paolo Fabbri ha detto a Paolo Di Stefano, con sconsolata lucidità, “Tira un’aria di revisionismo. Un esempio: nel 1969 è uscito L’anti-Edipo che ha sconvolto per la critica rigorosa contro la psicoanalisi. Ebbene, oggi si va avanti parlando di Edipo e di Telemaco. Non è la semiotica che è superata, è il fatto che siamo nettamente tornati indietro: regna il principio di precauzione. In un saggio luminoso, Umberto Eco ha parlato di ‘passo del gambero’”. Fabbri tocca il cuore della questione, che non è – mai – ‘accademica’, ma culturale, di coltura, di dati primi, ‘agricoli’, di un terreno comune su cui intendersi. Intendo: non conta aver studiato L’anti-Edipo (affare per affamati di cultura o per studiosi) ma percepire che siano esistiti Gilles Deleuze e Félix Guattari.
Beh, oggi ci sono, nel consesso universitario, insegnanti d’inglese che non hanno letto Joyce, studenti che ignorano chi sia Eliot, mai sentito nominare, ma conoscono tuto degli Avengers. Questo non è snobismo – la trincea dei cretini –, è vita: ragion per cui, Fabbri, a parlargli, pare più giovane di un giovane; la lettura, lo studio incessante, il pensiero rendono davvero supereroici. Insieme a Umberto Eco (che lo ha immortalato nel Nome della Rosa come “Paolo da Rimini”), Fabbri ha introdotto la disciplina semiotica in Italia: ha conosciuto e seguito i corsi di Roland Barthes a Parigi. A questo punto, direi, ma chi lo legge ancora Roland Barthes? Chi si è fissato sul Grado zero della scrittura, su S/Z, su L’ovvio e l’ottuso? Per carità, l’ottuso sarò io. Ora: Marietti ha appena pubblicato Sul racconto, un pamphlet di Roland Barthes in forma di “conversazione inedita con Paolo Fabbri”. L’incipit di Fabbri ha il nitore di un noir accademico (“Il 10 giugno 2018, alle ore 10.12, ho ricevuto una mail di Thomas Broden, professore della Purdue University negli Stati Uniti, biografo di Greimas e studioso del pensiero strutturalista. Mi segnalava che nel taccuino di Roland Barthes depositato alla BNF, Bibliothèque nationale de France, era annotata una Conversation improvisée con Paolo Fabbri, tenutasi a Firenze il 18 dicembre 1965…”), il dialogo è alto, arguto, Barthes specula, tra l’altro, intorno alla struttura di Goldfinger, il romanzo di Ian Fleming del 1959, da cui il film del 1964 con Sean Connery. Chi lo capirà? Intanto, per capirci, per capire, parlo con Paolo Fabbri. (d.b.)
Roland Barthes: che ‘tipo’ è?
Un intellettuale europeo, cioè un professore che scrive di sociologia delle forme di vita (l’amore, la moda, la cucina), di linguaggi e di semiologia letteraria (la narrazione, la retorica). Critico della mito-ideologia borghese e fautore brechtiano di una società senza classi, cercava valori alternativi nella storia, nella mistica e della geografia (il Giappone, la Cina). A Parigi ho frequentato i suoi corsi all’Ecole pratique des Hautes Etudes, nella metà degli anni Settanta.
Roland Barthes: cosa ci dice ancora? O meglio: consigli al neofita volenteroso il libro da cui partire per conoscere RB. Meglio ancora: che cosa la conquista di lui, RB?
Ci rimane la ricerca esatta delle mitologie contemporanee, le loro connotazioni collettive (per questo io ho lavorato gli zombi e sui tatuaggi!). E soprattutto la scrittura, l’effetto della sua sintassi curata nel fragore esclamativo dei media di massa e nel cicaleccio sgrammaticato dei social. Propongo alla rilettura la sua autobiografia Roland Barthes di Roland Barthes, fatta di frammenti che non sognano totalità perdute.
Lettore totale, da Ignazio di Loyola a Lupin, se fosse qui, oggi, cosa leggerebbe Barthes? Ergo: a che ‘grado’ di scrittura appartiene il nostro tempo (se una scrittura ancora gli pertiene)?
Leggerebbe certamente François Jullien e i suoi saggi sulla retorica della Cina classica, che ho curato per Mimesis. E forse Pascal Quignard, che finiremo per leggere anche in Italia
Pare che morto Eco sia morte la semiotica: in una intervista al “Corriere della Sera” lei ha detto “tira un’aria di revisionismo”. Cosa significa?
La semiotica non è morta anche se la mancanza della forza trainante di Eco si fa sentire. I nuovi paradigmi dopo il momento esplosivo forbiscono gli strumenti e riscrivono i limiti (con i media studies, le post-filosofie, i cultural studies, le biologie della letteratura…). All’Associazione internazionale di Semiotica a Buenos Aires ho detto che credo in una semiotica “marcata”, intensiva non estensiva.
Forse occorre coniare una nuova parola per definire lo stato politico dell’Italia attuale. Forse c’è. Me la dica lei, mi orienti.
Seguirei il principio: “torniamo all’antico, sarà del nuovo”. Il nuovo oggi è il perenne TRASFORMISMO. L’eroe fondatore della politica nazionale non è Cavour o Garibaldi ma Agostino Depretis, il trasformer.
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Per gentile concessione si ricalca un brandello da: Roland Barthes, “Sul racconto. Una conversazione inedita con Paolo Fabbri”, Marietti, 2019.
Supponiamo di essere una persona molto “innocente”, ma dotata di un certo bagaglio linguistico, quel bagaglio linguistico di cui abbiamo or ora parlato, e di trovarci di fronte a un racconto. Prendo Goldfinger perché si tratta di un’opera di massa non contestabile. Mi trovo dunque di fronte a questo racconto ed evidentemente il primo compito che mi si impone è quello di suddistinguere queste cinquecento pagine in unità, in segmenti, in modo da poter poi classificare questi segmenti, determinare delle classi di unità e, in terzo luogo, osservarne i legami esistenti. Qualunque sia il sistema di significazione questa serie di operazioni è sempre necessaria: suddividere, classificare, aggiuntare. Davanti a questa serie ininterrotta, o apparentemente ininterrotta, di annotazioni che è Goldfinger, o anche solamente un capitolo di questo libro, come deciderò di operare una sezione dopo certe parole e/o certe frasi?
Ci sono parecchi criteri: se fossi un linguista distribuzionalista, cercherei di osservare le ripetizioni e i contesti delle cose che si ripetono, senza fare riferimento ad alcun senso, ad alcuna significazione. Poiché sono invece per mille e mille ragioni, saussuriano o hjelmsleviano in questo caso utilizzo un criterio che si chiama commutazione, consistente nel far variare artificialmente una forma, per vedere se questa variazione comporta un mutamento di senso. Se ne consegue un mutamento di senso, allora io comincio a considerare questa unità come significante. In francese ad esempio faccio variare la parola poison (ho spesso citato questo esempio che è molto semplice) e voglio sapere se la s di poison è un segno significante che comporta una significativa incidenza sul senso. Faccio allora variare questa s e la indurisco, ad esempio ne faccio una s (dolce) ottengo da poison, poisson. È evidente che ne deriva una variazione di senso, e di conseguenza la forma che ho fatto variare ha un potere significante, e che io riconosco essere un’unità. Ebbene, lo stesso metodo approssimativamente lo si può applicare al racconto. Prendete ad esempio una frase, un segmento di frase o anche una parola (talora), oppure un gruppo di frasi, ed immaginate quello che accadrebbe se voi sopprimeste questo segmento. Se ne consegue un’alterazione nel resto della storia, della intelligibilità, della comprensione della storia, allora avete un’unità significante. Altrimenti sarà necessario allargare l’unità; o riportarla in una categoria a parte che sarà la categoria delle unità non significanti. Allo stesso modo davanti a un segmento di testo potrete chiedervi, senza sopprimerlo, se l’autore avesse affermato il contrario o una cosa diversa conseguendo a questo modo una variazione significante della storia. Altrimenti detto, il criterio di determinazione dell’unità è, in senso ampio, un criterio di funzionalità: l’unità è quella che possiede un valore funzionale e naturalmente a titoli estremamente diversi da commisurare ai fini della intelligibilità della storia. Nella fondazione di questo criterio di funzionalità siamo stati preceduti proprio dai formalisti russi, i quali illustravano questo criterio quando affermavano che in una novella di Čechov, se si pianta un chiodo all’inizio è perché l’eroe s’impicca proprio a questo stesso chiodo alla fine. Cioè quando si pianta il chiodo non si sa assolutamente a cosa servirà, si ha l’impressione di un fatto casuale, poi, cento pagine più tardi, ci si accorge che era necessario venisse piantato. Ebbene, ecco grosso modo e semplificando molto, come si cerca di determinare le unità del racconto.
Naturalmente le unità narrative possono avere delle dimensioni molto varie e in qualche caso può trattarsi d’una parola, d’una parte di frase; ma in ogni caso se noi osserviamo con esattezza il nostro criterio di funzionalità, siamo liberati per un certo periodo almeno, da certi pregiudizi.
Roland Barthes