“I poteri magici e sovversivi del desiderio”. Traducendo René Char
Poesia
Giorgio Anelli
Un quarto d’ora dopo. Lui mi aspetta sotto casa: viso virile, naso importante, un uomo che addormenta a cazzotti la tigre del dolore. In dicembre ha avuto una ischemia, “mi sono ripreso brillantemente… ma qualcosa l’ho lasciato per strada”, mi dice, aprendo una lattina di Guinness, in casa. Arrivo un quarto d’ora dopo e Stefano Simoncelli s’incazza un po’. Cesena, 35 gradi, classe 1950, Simoncelli, 35 anni sono quelli che ci separano dalla rivista Sul porto, una storia incredibile, dell’altro mondo, dove la poesia sconfinava nella risata e nella rivolta. Sono venuto fino a qui per questo. Per toccare il corpo irrequieto di una storia. Un gruppo di ragazzi di Cesenatico, capitanati da Ferruccio Benzoni e dal suo Lancillotto, Stefano Simoncelli, s’inventa, dalla periferia del mondo culturale italiano, una rivista, è il 1973. Da lì, da quella bava di sabbia, da quell’Adriatico fermo come una spada, un gruppo di giovanotti, una specie di interpretazione antifilologica dei beat, scombussola la lirica italica, entra in sintonia con i massimi poeti del secondo Novecento italiano. Come se – dico io – i decani della poesia ammirassero in questi baldi romagnoli l’autenticità viscerale, cruda, spavalda della poesia. Simoncelli è sul divano, ora. “Lo sai che io ero un asso del tennis?”, mi fa, “ho giocato anche con Panatta… se pigli la racchetta contro di me, non c’è partita”. Simoncelli esce con un primo libro nel 1982, per Guanda, Via dei platani, seguirà, dal 1987, un lungo periodo di silenzio e di abbandono. Piuttosto, so che giocavi a calcio. Gli dico. “Diciamo che ci sapevo fare, ero una promessa. Ma sono rimasto nei miei luoghi, ho fatto la Serie D e la C, con il Cesenatico e con il Ravenna”. Simoncelli è anche l’eterna promessa della poesia italiana. “I poeti davanti sorridono sempre – poi ti accoltellano alle spalle. C’è un’invidia nella poesia, oggi, una cattiveria…”, mi fa. Di buono c’è che Simoncelli è un rompicoglioni, non le manda a dire. Poi gli occhi gli s’illuminano. Fissa il vuoto. Un Adriatico di memorie. Ne esce una specie di aneddotica della poesia italiana, un abbecedario di sketch più esemplari di un saggio critico. Lui parla. Io segno.
Vittorio Sereni e il colpo di fulmine in osteria. “Per parlare di Sereni bisogna partire da Giorgio Orelli. Orelli veniva a Cesenatico in ferie, a luglio. Io e Benzoni lo andavamo a trovare: ci parlava di Dante, ci immergeva in una energia particolare, era ossessionato dalla poesia. Un giorno Orelli deve andare a Bologna, a presenziare al Premio Gatti, un premio di poesia molto importante all’epoca e molto ricco, ti davano 5 milioni di lire se lo vincevi. Quell’anno il premio lo vinse Giorgio Caproni con Il muro della terra, un libro bellissimo. Vittorio Sereni era il presidente di giuria del Premio Gatti e quando Orelli ci dice che dopo la premiazione saremmo potuti andati a bere qualcosa con lui, beh, a noi parve incredibile… Vittorio Sereni, quell’uomo così riservato, austero, molto potente e in odore di Nobel… beh, in osteria scattò un colpo di fulmine, una simpatia immediata. Sereni poteva stare due o tre ore senza parlare: il suo silenzio non pesava, pensava, elaborava. Di solito, parlava dei suoi ricordi di guerra, parlava di calcio, tifava Inter, aveva un certo gusto per le belle ragazze”.
I leggendari viaggi a Valchiusa con Sereni, da René Char, l’intrattabile. “Lunghe telefonate, tante lettere, con Vittorio Sereni, testimoniate nel libro pubblicato da San Marco dei Giustiniani nel 2004, Miei cari tutti quanti… In ottobre, per un po’ di anni, siamo andati in Valchiusa, da René Char. Partivamo da Cesenatico a Milano. A Milano, poi, voleva guidare Vittorio Sereni, fino in Francia: guidava una Alfa Sud amaranto, in un modo micidiale, terribile. Stavamo per 3 o 4 giorni, in un posto vicino a L’Isle-sur-la-Sorgue e uno di quei giorni era dedicato a far visita a René Char. Se tirava il mistral, però, non potevamo avvicinarsi alla casa di Char perché dava di matto, non apriva a nessuno. Ad ogni modo, i viaggi continuarono fino al 1982, quando Sereni decise di fare una improvvisata a Char e Char, che sapeva tutto, aveva informatori ovunque, vedendolo, per caso, gli disse ‘lei è una persona disgustosa’. Sereni sbiancò, di Char non si è più parlato, da allora, l’anno dopo Vittorio morì. Ci sono tornato in Valchiusa, certo, quando sono morti tutti, Char, Sereni, Benzoni, ci sono tornato da turista commosso, diciamo così”.
“Sul porto”: una rivista a caratteri funebri. “Il fatto è che facevamo l’università a Bologna, senza concludere nulla, e con me, Benzoni e Walter Valeri era tutta baldoria fino al mattino. Parlavamo di letteratura, bevevamo di brutto. L’unico ad avere le idee chiare era Benzoni, è lui che mi ha tirato dalla sua parte, senza di lui non avrei scritto nulla. Un giorno Benzoni fa, e se facciamo una rivista, registrando quello che diciamo? Così, siamo partiti. Sul porto sta per il porto canale di Cesenatico, lungo le cui anse passeggiavamo ogni giorno. Lo stampava un tipografo che faceva i manifesti da morto, così la nostra era una rivista con i caratteri funebri… Il primo numero fu dedicato a Dante Arfelli, il grande scrittore de I superflui e de La quinta generazione, che dagli anni Cinquanta si era rifiutato di scrivere e non pubblicava più. Benzoni scrisse un testo, “Un silenzio emblematico”, in cui interpretava il rifiuto di Arfelli come un simbolo: lo scrittore ha introiettato il veleno di quegli anni atroci e non può più scrivere, non riesce. Quello fu il primo numero”.
Quella volta che abbiamo fatto ubriacare Franco Fortini. “Avevamo alcuni indirizzi di riferimento a cui inviare il fascicolo Sul porto. Il primo che ci rispose fu Franco Fortini, con una lettera lunga venti pagine in cui, sorprendentemente, ci prendeva sul serio… Con questo intellettuale fortissimo nacque una amicizia decisiva. Ogni anno andavamo a casa di Fortini, a Milano, a ragionare del numero che avremmo preparato di Sul porto. Ci accoglieva vestito con la tuta da operaio, poi per tre ore parlava solo lui… prima di portarci a mangiare. Noi siamo sempre stati dei forti bevitori e una sera facemmo bere di brutto anche Fortini. Per strada, al ritorno, Fortini, decisamente brillo, cominciò a declamare le poesie di Baudelaire in francese, fu una scena di una bellezza assoluta…”.
Pier Paolo Pasolini, ovvero: il tormento dell’intelligenza. “Siamo andati un paio di volte a casa di Pasolini, a Roma, poi a Chia, sopra Viterbo, dove aveva una casa. Era un uomo dal fascino micidiale, ne avvertivi l’intelligenza e il tormento dell’intelligenza. Aveva scritto di noi su Il Tempo e per noi fu una apoteosi. All’epoca ci chiamavamo “collettivo Sul porto”: lui ci disse che collettivo era una parola orrenda, e smettemmo di chiamarci così… Ci avvicinava la battaglia contro la neoavanguardia, noi non volevamo uccidere la poesia e questo gli piaceva molto”.
Alfonso Gatto, il whisky e le poesie d’amore. “Uno dei primi che incontrammo fu Alfonso Gatto. Ricordo una sera memorabile: ci lesse Poesie d’amore, che aveva appena pubblicato per Mondadori, bevendo whisky, fino all’alba. Vedi… più vai in alto più è facile, sono solo i mediocri che se la tirano… ti posso raccontare anche di Giovanni Raboni, poeta di una classe infinita e di una intelligenza sopraffina: La rissa degli angeli dovevo pubblicarlo con lui, per Scheiwiller… ma è morto”.
Giovanni Giudici e il torneo di calcio dei bar. “Diciamo che sapevo come trattare un pallone… C’è una fotografia che per me è formidabile: ci sono io, nello spogliatoio, con l’accappatoio, bagnato, dopo la partita, con una assurda catenina al collo e Giovanni Giudici, capisci?, il poeta de La vita in versi, vicino a me, vestito di tutto punto… Giudici veniva a vedermi giocare quando facevo il torneo dei bar: io giocavo per il Sala e segnavo sempre 3 o 4 gol, ero di un’altra categoria… ero ala destra e da giovane mi voleva la Fiorentina. Avevo 16 anni, avevo fatto un provino a Bologna e la Fiorentina era pronta a sborsare una discreta somma al Cesenatico. Mio padre non ne volle sapere: avrei dovuto andare a vivere a Firenze, lui si oppose. Da allora, i nostri rapporti sono diventati molto difficili”.
Giorgio Caproni, l’uomo che vedeva i treni passare. “Giorgio Caproni era seduto vicino a me, durante la fatidica cena del Premio Gatti, a Bologna. A Caproni quell’atmosfera da candelieri e camerieri in livrea non piaceva, così cominciò a parlarmi. Mi chiese se ero poeta e cosa stessi leggendo. Virgilio Giotti, gli risposi. Lui sbottò, sei un genio, mi disse. E poi, ma ti diverti qui? Dissi di no. Allora andiamo a vedere i treni, fa lui. Così ce ne andiamo, facciamo tutta via Indipendenza, arriviamo alla stazione di Bologna, ci sediamo a un binario e guardiamo i treni, in silenzio. Dopo un po’ Caproni mi dice che è stanco, lo riporto in albergo e finisce lì. Quando, nel 1983, escono Tutte le poesie per Garzanti, gli scrivo una lettera. Caproni non mi risponde. Poi, molti anni dopo, scopro da Paolo Zublena che quella lettera fu la miccia di Res amissa, l’ultima raccolta di Caproni. Caproni teneva molto a quella lettera, tanto che la nascose in un posto particolare, fino a dimenticarsene… dimenticarsi di ciò a cui si tiene molto… questo è il cuore di Res amissa. Incredibile. Tutto questo è testimoniato nel ‘Meridiano’ Mondadori che raccoglie le opere di Caproni: io sono nel ‘Meridiano’, sono già nell’eternità…”.
Marino Moretti, troppo vecchio per fare la Prima guerra mondiale… “Cesena è una città di pittori, Cesenatico di poeti, sarà per via del mare, ma soprattutto per via di Marino Moretti. La donna di servizio di Moretti, una amica della zia di Benzoni, ci fece comunicare che il poeta voleva conoscerci. Moretti era novantenne, eppure era un poeta in grado di scrivere libri importanti come Le poverazze e Diario senza le date. Ricordo che da vero imbranato gli chiesi se avesse combattuto durante la Prima guerra mondiale: ‘no, ero troppo vecchio’, mi rispose. Poi gli chiesi cosa pensasse di Baudelaire, e lui, che era cattivissimo, davvero cinico, mi disse, ‘non lo conosco…’. Aveva preso sotto la sua ala protettiva Dario Bellezza, aveva l’umiltà di riconoscere che ‘lui ha scritto cose che io non sono in grado di scrivere’”.
Ferruccio Benzoni? Siciliano preferiva le mie poesie… “Ferruccio Benzoni… io ho avuto un apprendistato totale grazie a lui. Gli battevo a macchina le poesie. Lui mi criticava sempre, non mi passava una poesia, e aveva ragione: io non scrivevo poesie, facevo dei calchi, cercavo la mia voce. Ho sempre cercato la semplicità, che è la cosa più difficile. Fedi nuziali è un libro splendido, uno dei libri più importanti degli ultimi decenni. Benzoni è stato fondamentale per me, ma non ha intaccato il mio modo di fare poesia; a Enzo Siciliano, per dire, piacevano di più le mie poesie”.
Sono un fascista di sinistra. “Ormai sono costretto a definirmi fascista di sinistra. Con quelli di sinistra non riesco più a parlare, sono fuori dal mondo. Non sto con Matteo Salvini, però, almeno, è uno che ha il coraggio di dire certe cose, puoi non essere d’accordo, ma quello che dice lo fa. Anche se i migranti, non li ferma nessuno…”.
Quando la poesia mi disse, ‘piccolino, mettiamoci a scrivere qualcosa’. “Dal 1986, dopo che ho rotto con Benzoni, ho avuto un periodo di depressione profonda, non ho scritto per molti anni. Nel 2000 è morta mia madre, e per me è stato un dolore fortissimo. Erano morti tutti. Mi sentivo solo al mondo. Enzo Siciliano, per anni, ha continuato a chiamarmi, stimolandomi a scrivere. Poi un giorno è venuta da me la poesia e mi ha detto, ‘perché, piccolino, non ci mettiamo a scrivere qualcosa?’. Così ho ricominciato. Prima ho scritto delle boiate. Poi, a poco a poco, sono usciti Giocavo all’ala, nel 2005, La rissa degli angeli, Terza Copia del gelo, Hotel degli introvabili… Scrivo tutti i giorni, ora. Anche se salvo poco di quello che scrivo. La poesia mi ha dato rigore. La poesia fa paura ai potenti, credo, credo che se la poesia scompare, l’uomo muore. Chi sei, cosa facciamo, dove andiamo? Queste sono le domande della poesia. La poesia è un viaggio verso l’ignoto, la poesia sa di me molte più cose di quante io sappia di me stesso”.
Davide Brullo