14 Aprile 2020

L’oltraggio d’una minima stella rugginosa. Le traiettorie poetiche di Bartolo Cattafi

Bartolo Cattafi venne alla luce da facoltosi possidenti terrieri a Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) nell’anno di grazia 1922, lo stesso che vide la prima pubblicazione del poemetto The waste land di Thomas Stearns Eliot, testo esemplare per le rotte del pensiero poetico contemporaneo. La sua fu una famiglia culturalmente e attivamente impegnata nel campo sociale. Il padre, Bartolo­meo, medico molto noto e apprezzato per le sue doti umane e professio­nali, non ebbe la gioia di vederlo nascere perché morì quattro mesi pri­ma. L’educazione di Bartolo fu incombenza solo della madre, Matilde Ortoleva, donna di severi e rigorosi costumi, religiosissima e con una pesante personalità, che però non poté colmare il vuoto prodotto dall’assenza di una figura paterna protettiva e rassi­curante.  In questo florido centro tirrenico, grazie allo zio Enrico Barresi, uomo di vasti interessi culturali, frequenta sin da giovane la casa del futurista siciliano Guglielmo Jannelli, incontrando nomi quali Giacomo Balla, Vann’Antò (al secolo Giovanni Antonio Di Giacomo), Fortunato Depero e soprattutto Nino Pino Ballotta.

Dal 1940 Cattafi frequentò la facoltà di Giurisprudenza della vicinissima Messi­na, seguendo saltuariamente le lezioni, senza entusiasmo e con scarsa convin­zione. Unica passione la lettura: Melville, Conrad, Faulkner, Caldwell, Saroyan, Hemingway e gli altri scrittori compresi in Americana di Vittorini, la cui pri­ma edizione risale al 1942; tra gli italiani: Zavattini, Vittorini, Pavese, Savarese, Malaparte, Bontempelli, Pirandello. Ben presto la sua preferenza andò verso i poeti: Machado, Jiménez, Lorça, Eliot, Hopkins, Auden su tutti, poi i nostri Govoni, Quasimo­do, Ungaretti, Montale.

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L’esperienza militare del 1943, l’anno più cruciale della sua vita, lo riportò bruscamente alla realtà. Chiamato alle armi l’8 febbraio, raggiunse Bologna, dove fu aggregato al 3° Reggimento fanteria carristi, e da qui avviato al 17° Battaglione d’istruzione a Forlì, per frequentare il corso di addestramento per allievi ufficiali. Le marce estenuanti, l’equipaggiamento inadatto, il vitto carente, l’impreparazione e l’ottusità degli apparati militari, l’ubbidienza mor­tificante a ordini insensati gli causano (sono parole sue) un «crollo fisico e nervoso», di cui si hanno tracce marcate in vari componimenti di A dicembre Badoglio, sezione compresa poi ne L’aria secca del fuoco.

Frutto di questo primo «compitare in versi un ingenuo inventario del mon­do» è un folto materiale, che il nostro organizza in due raccolte, corredandole di due brevi note introduttive, l’una datata 28 aprile 1944, l’altra 16 ottobre 1946 (entrambe inedite). Siamo d’altronde negli anni della guerra, della resistenza al nazifascismo, dello sbarco alleato in Sicilia: periodo segnato da un soffocante aleggiare di morte che si intravede anche in molte di queste primissime poesie, permeate tuttavia da un abbacinante colorismo, in cui si rispecchia la fervida smania sensoriale di un animo ancora profondamente pagano, immerso nell’ovattata fisicità di un paesaggio dalla solarità allucinante, ovvero coercitiva perché illusoria. “Cominciai a scrivere versi non so come, ero sempre in preda a non so quale ebbrezza, stordito da sensazioni troppo acute, troppo dolci. Tutt’intorno lo schianto delle bombe e le raffiche degli Hurricane, degli Spitfire… Me ne andavo nella colorita campagna, nutrendomi di sapori, aromi, immagini: la morte non era un elemento innaturale in quel quadro; era come un pesco fiorito, un falco sulla gallina, una lucertola che guizza attraverso la viottola” (Bartolo Cattafi in Poesia italiana contemporanea 1909-1959, a cura di Giacinto Spagnoletti, Guanda 1964; ristampato in Roma, Newton 1994)..

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Nel­l’immediato dopoguerra, Cattafi medita di trasferirsi a Milano, alternando però lunghe permanenze con periodici ritorni in Sicilia e, più tardi, con frequenti viaggi all’estero, finché, a partire dal 1956 e fino alla prima metà del 1967, vi dimora stabilmente trasferendovi anche la resi­denza. Stringerà qui amicizia con Sergio Solmi che gli fa poi conoscere Vittorio Sereni – diventerà presto suo fraterno amico –, il quale lo introduce negli ambienti letterari e artistici della città. In tal modo, Cattafi entra in contatto anche con Carlo Bo, Vanni Scheiwiller (suo futuro editore) Enrico Emanuelli, Giansiro Ferrata, Luciano Erba, Luciano Anceschi, Giacinto Spagnoletti, Giovanni Giudici, Piero Chiara. Le pubblicazioni si faranno così assai cospicue ed incisive, sia su rivista che in antologie, tra cui appunto la più rinomata è certamente Quarta generazione (proprio a cura di Piero Chiara e Luciano Erba, 1954).

Nel 1948 vince il «Concorso Nazionale “Pagine Nuove” per la poesia», con Corrado Govoni presidente della giuria, al quale egli era stato presentato dal concittadino poeta Nino Pino Ballotta, forse il suo primo lettore. La stessa rivista organizzatrice del premio, nel numero di maggio del 1949, gli pubblica sette componimenti che entreranno tutti – tranne Eolie, mai più ristampato – nel volumetto Nel centro della mano che, accolto da Sereni nelle Edizioni della Meridiana nel 1951, segna il «battesimo» poetico di Cattafi.

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Nel 1952 ha inizio la grande stagione dei viaggi: Francia, Inghilterra, Irlanda, Scan­dinavia, Spagna, Africa. Poiché ogni vicenda pas­sa «sulla sua pelle e dentro il suo sangue», è naturale che il nomadismo di Cat­tafi si traduca in poesia, in presa diretta o a distanza di anni, a cominciare da Partenza da Greenwich del 1955. Dai viaggi trae anche materiale per articoli e corrispondenze che manda a vari quotidiani e periodici, tra cui «L’Ora» di Palermo, la rivista «Pirelli», «L’I­talia illustrata», «L’Indicatore librario». Vagheggia di fare l’inviato speciale, anche per assicurarsi un tenore di vita dignitoso non bastandogli le modeste rendite dei suoi terreni. Di questa frammentaria e disorganica attività giornalistica mi piace ricorda­re il reportage Lo Stretto di Messina e le Eolie, corredato dalle fotografie di Alfredo Camisa e stampato, in bella veste tipografica, a cura dell’ACI nel 1961.

Contemporaneamente, tenta l’avventura pubblicitaria. Viene assunto in prova dalla Motta, ma si dimette dopo appena due mesi, e dalla Pirelli nella “Direzione propaganda”, in qualità di «compilatore di testi di prestigio». An­noiato e deluso, abbandona anche questo lavoro.

Nel 1958 esce il primo libro mondadoriano, Le mosche del meriggio, rias­suntivo della produzione 1945-1955, col quale vince il «Premio Cittadella».

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Due anni dopo, la perdita dolorosissima della madre (la ricorderà in una toccante poesia dell’Osso, Un 30 agosto), una tormentata e deprimente storia amorosa e l’aggravarsi della sua situazione finanziaria, seriamente compro­messa dall’incapacità di svolgere una stabile attività lavorativa, lo gettano in uno stato di profonda prostrazione fisica e psichica che, puntualmente, si ri­specchia ne L’osso, l’anima, edito sempre da Mondadori nel 1964. Questa raccolta, l’unica che può fregiarsi di una seconda edizione, vince il «Premio Chianciano» e segna la definitiva consacrazione poetica. Sarà poi la vendita all’Enel del fondo di contrada Archi, nel comune di S. Filippo del Mela (Messina), conclusa nel 1966 dopo lunghe e complesse trattative, a garantirgli la tranquillità economica, consentendogli di dedicarsi esclusivamente alla scrittura.

Dalla fine di dicembre del 1962, Cattafi non aveva infatti scritto un verso e non ne scriverà fino al 21 marzo del 1971: un lungo periodo di astinenza poetica, durante il quale dirotta altrove le sue energie creative. Disegna, dipinge – alcuni quadri sono bellissimi –, si dedica alla fotografia.

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Il 26 giugno 1967 sposa, col solo rito civile a Callander, in Scozia, Ada De Alessandri, milanese, di ventidue anni più giova­ne di lui, che aveva conosciuto a Milano e ritrovato in Inghilterra durante un viaggio organizzato. Qualche giorno dopo ritorna in Sicilia, ristruttura una vecchia casa colonica di sua proprietà nella campagna di Mollerino (vicino Barcellona n.d.r.) e qui stabilisce il domicilio, conservando la residenza a Milano, dove però ormai si recherà per brevi periodi, quasi solo per curare la pubblicazione dei suoi libri o per ragioni di salute.

Nel marzo 1971, come si accennava, finisce il silenzio poetico. “Alle quattro del mattino di un giorno del marzo 1971, come morso dalla tarantola, dovetti alzarmi dal letto e cercare carta e penna. Da quel momento si aprirono le cateratte: dopo sette anni di silenzio, durante i quali non ero riuscito a mettere insieme due versi, scrissi in dieci mesi circa quattrocento poesie” (Enzo Fabiani, In Sicilia a caccia di sirene. «Gente», 22 luglio 1972).

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Da quel giorno e fino alla morte, se si eccettuano gli anni 1974-’75, durante i quali si limita a rimaneggiare e a ordinare in volume le poesie concepite nel biennio precedente, l’urgenza espressiva di Cattafi non avrà so­sta o interruzione. Per dare un’idea di questa esplosione creativa, si pensi che, tra il marzo ’71 e il gennaio ’72, compone le 362 poesie de L’aria secca del fuoco, con cui vince i premi «Vann’ Antò» e «Sebèto». Esse, attraverso varie redazioni non sempre datate o databili, formeranno, per citare solo i vo­lumi riassuntivi, La discesa al trono (1975), Marzo e le sue idi (1977), Segni e parte di Codadigallo, (questi ultimi due pubblicati postumi).

La stagione dell’ultimo Cattafi è non solo caratterizzata da uno straordina­rio fervore creativo, ma anche ricca di avvenimenti che si riflettono sulla poe­sia. Il 10 agosto 1975, dopo otto anni di matrimonio, nasce l’unica figlia, la «dolcissima» Elisabetta Maria (destinataria di quattro delle 18 dediche).

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Da tempo però Cattafi accusava vari disturbi fisici, lo sa bene chi gli è stato vicino, ma la scoperta dell’insanabile ferita avviene solo il 20 aprile 1978, quando una visita radiologica rivela un «punto oscuro nella pleura del polmone sinistro», come si leg­ge nel Diario. Le analisi seguenti confermano la funesta diagnosi: «È dunque cancro», annota il poeta il 9 maggio dello stesso anno. E tuttavia non si può negare che la malattia e il presentimento della morte accelerano spesso le spinte se­grete, da sempre però operanti, e favoriscono la disponibilità dello spirito ad accogliere in sé il senso del divino e a lasciarsi invadere da esso.

Cattafi spende le ultime, residue energie lavorando alla revisione delle «poesie segniche», alla definizione di Codadigallo e alla stesura di nuovi componi­menti. Aveva appena avuto il tempo di firmare le copie del servizio-stampa de L’allodola ottobrina e di salutare gli amici in un ristorante milane­se, quasi presagisse non più rinviabile l’appuntamento con la morte. Una data, questa del 13 marzo (1979), che sembra preannunciata, come per una sorta di inquie­tante premonizione, nella poesia del lontano 1972, elevata a dignità di titolo del volume Marzo e le sue idi: «Di tutto diffido / del pugnale di bruto / della tenera carne di cesare / dello stesso destino / che passi presto il tempo / venga­no alfine marzo e le sue idi».

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Cattafi è abile come pochi nel costruire versi colla perizia derivata dall’uso finissimo dell’allitterazione, dei sintagmi paronomastici, delle rime al mezzo, strumenti questi sistemati come mattoni che si incastrano alla perfezione, a cui si aggiunge la malta di un pensiero illuminato e illuminante, ma tarlato dall’angoscia esistenziale: ne vien fuori una poesia di impeccabile compiutezza fonica e – soprattutto – mentale, sempre intenta a smascherare ogni minima aberrazione con vivido spirito metaforizzante e, dunque, maggiormente efficace poiché sprigiona, grazie a questa potenza simbolica, la massima carica esplicativa.

Se una vena barocca esiste in queste liriche così cesellate è di certo quella dell’analogismo ardito, dalla visionarietà quasi orfica e, al contempo, razionalissima, strutturata grazie alla giustapposizione di elementi disparati che creano abissali scarti, fulminei lampi di pensiero, estrose immagini plasmanti lucidi concetti. In molti passaggi si riscontra, oltretutto, una marcata inclinazione dell’io a defilarsi, il che comporta un investire l’oggetto della carica di “referente”, lasciandogli svolgere quel ruolo di “attante” solitamente interpretato dall’io lirico. Le ‘cose’vengono così innalzate ad emblemi di uno status esistenziale o intellettivo, come accade nel “correlativo oggettivo” di T.S. Eliot (uno fra i modelli di Cattafi ma, ancor prima, di Montale). Anzi il soggetto, a volte, sembra talmente ben nascosto da permettere un inusuale ribaltamento di prospettiva: lo ha intuito bene Silvio Ramat, secondo il quale si dovrebbe parlare piuttosto di un «correlativo soggettivo».

La spinta analogica dei versi è talmente complessa da sfociare in una sorta di “astrattismo espressionistico” del tutto sui generis, fatto di ingranaggi inusuali, di accostamenti capaci di una forte folgorazione, di metafore dagli addendi talvolta stranianti, ma limpidi poi negli effetti. Ne risulta una poesia rarefatta ma, allo stesso tempo, concretissima, che scandaglia gli eventi in maniera scrupolosa, come un microscopio farebbe con freddi campioni biologici: la mente è sempre protesa a sondare il nucleo nascosto delle cose, ricercando quel ‘nodulo’ che le rende maligne, inconoscibili, allo scopo di comprenderne non solo le fattezze esteriori ma anche i cancerosi meccanismi interni.

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Passiamo adesso ad analizzare alcuni testi.

Nel cerchio

Qui nel cerchio già chiuso
nel monotono giro delle cose
nella stanza sprangata eppure invasa
da una luce lontana di crepuscolo
può darsi nasca un’acqua ed una nebbia
il mare sconosciuto e il lido
dove per prima devi
imprimere il tuo piede
calando dalla nave
consueta, transfuga
che il rombo frastorna
in corsa nella mente,
lungo le belle curve di conchiglia.
Sarà prossimo il centro:
là s’appunta il nero
occhio, la nostra
perla di pece sempre in fiamme,
serrata tra le ciglia,
che per un attimo, in un battito ribelle
intacca il puro ovale dello zero.

(da Le mosche del meriggio, Mondadori 1958)

In questa lirica un senso di soffocamento, di abitudinario ritualismo corrode la percezione della realtà circostante, occlusione che tarpa le ali ai voli della mente, succuba così della propria limitatezza. È forse la vana ricerca della verità, dell’indefinibile palpito dell’universo a tarlare l’immaginario del poeta che pur vorrebbe ribellarsi al perenne fallimento di ogni sforzo cognitivo. Siamo in completa consonanza con quel limite fisico che, metaforizzato, simboleggia l’insuperabile ostacolo alla piena comprensione: ricordiamoci per un attimo della ‘siepe’ leopardiana o dell’infinita ‘scala a chiocciola’ nell’antica torre di My house di Yeats. Tutto questo induce a pensare che il vero motore della poesia di Bartolo Cattafi sia da ricercare nell’ansia gnoseologica, sebbene – in fin dei conti – essa venga sistematicamente messa sotto scacco.

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Brughiera

[…] La stagione è finita; ancora vivono
il dente infisso nel centro della mano,
ciò che la spina lentissima ci scrisse.
Una lampada gracile, l’allodola
rientra incerta, s’addentra sull’immoto
colore di brughiera.

La poesia di Cattafi si popola spesso, fin dal suo primo incedere, di immagini ancipiti che contemplano insieme il caldo abbraccio di un esasperato vitalismo e il rovello spasmodico della morte, in un quadro che risente delle precoci frequentazioni col simbolismo messinese di matrice futurista (in particolare Giuseppe Jannelli e Nino Pino Ballotta), sicuramente sperimentato dal poeta negli anni universitari trascorsi all’ombra del Faro.

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Mio amore non credere

Mio amore non credere che oggi
il pianeta percorra un’altra orbita,
è lo stesso viaggio tra le vecchie
stazioni scolorite,
vi è sempre un passero sfrullante
nelle aiuole
un pensiero tenace nella mente.
Il tempo gira sul quadrante, giunge
un segno di nebbia sopra il pino
il mondo pende dalla parte del freddo.
Qui le briciole a terra, la brace del camino,
le ali,
le mani basse e intente.

L’universo interiore di Cattafi risulta sempre orientato alla continua corrosione mentale: il poeta spesso si aggrappa al dialogo, quasi sotto forma epistolare, con qualcuno a cui ‘confessare’ le proprie afflizioni, i patimenti di un eterno sottofondo di dolore che sembra incrinare finanche la struttura intellettiva.

La martellante ossessione dei pensieri è resa con un’analogia tra le più vivide e funzionali dell’intera poesia cattafiana: il movimento convulso, a scatti, imprevedibile, instancabile del passero che mima, in un’immagine di rara precisione descrittiva, l’estrema saturazione – quasi ai limiti del compulsivo – della vessata interiorità del poeta. Egli accenna ad ulteriori motivi universali: l’inesorabilità dello scorrere del tempo («il tempo gira sul quadrante»), la precarietà della condizione generale – forse con la mente ancora alla difficile ricostruzione post-bellica («il mondo pende dalla parte del freddo. /Qui le briciole a terra, […] le mani basse e intente»). Il quadro negativo è rafforzato, a mio avviso, dalle efficaci forzature allitterativo-paronomastiche, con funzione di allarme, di sensibilizzatori della coscienza personale e collettiva.

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Arcipelaghi

Maggio, di primo mattino
la mente gira su se stessa come
un bel prisma un bel cristallo un poco
stordito dalla luce.
Dal soffitto si stacca
neroiridato ilare il festone
delle mosche,
posa su grandi carte azzurre
riparte e lascia
ronzando isole minime, arcipelaghi
forse d’Africa e d’Asia.
Intanto in cielo sempre più si svolge
la mesta bandiera della luce.
Prima di sera l’unghia
scrosta l’isole
le immagini superflue.
Le carte ridiventano deserte.

(da Qualcosa di preciso, Scheiwiller 1961)

Qui si assiste a una progressiva quanto discussa inversione di rotta, che trascorre da un colorismo ponderoso ad un lucore attenuato, quasi plumbeo; da una natura dirompente, sebbene già estenuata, ad un’asettica impronta meccanicistica; da un accennato intreccio ad una raziocinante epigrammaticità.

Attraverso pochi ma significativi aggiustamenti di traiettoria i versi diventano esemplari di una nuova ‘maniera’ del poetare più astratta, quasi assiomatica. Al tocco leggero, appena accennato, subentrano nuove forme aggettivali e sostantivali che tendono ad una maggior precisione, direi geometrica, ad evidenziare un rinnovato, lucido sforzo del raziocinio: Cattafi vorrebbe “scrostare le immagini superflue” cercando, col suo analogismo pregnante, una soluzione più incisiva rispetto al descrittivismo pittorico. Le sue liriche si appropriano così un’asciuttezza tonale adesso poco incline al narrare, immettendosi piuttosto sulla difficile strada della chiarezza sentenziosa («Le carte ridiventano deserte»). Si direbbe che il poeta abbandoni, quasi a malincuore – tant’è che lo riprenderà qualche anno dopo nelle liriche de Lo Stretto –, il proprio volto mediterraneo («[…] lascia/ ronzando isole minime, arcipelaghi»), dando risalto al lato ‘lombardo’, al retaggio ‘illuministico’ come nuova forma mentis («Intanto in cielo sempre più si svolge/ la mesta bandiera della luce»), che lo rende pienamente intrinseco allo spirito della cosiddetta “Quarta Generazione”.

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Qualcosa di preciso

Con un forte profilo,
secco, bello, scattante,
qualcosa di preciso
fatto d’acciaio o d’altro
che abbia fredde luci.
E là, sul filo della macchina, l’oltraggio
d’una minima stella rugginosa
che più corrode e corrompe più s’oscura.
Un punto da chiarire, sangue
d’uomo, briciola
vile oppure grumo
perenne, blocco di coraggio.

Non resta adesso che giocarsi l’ultima chance prima di soccombere, di cedere il passo definitivamente, ma stavolta con diversi mezzi, servendosi di risorse più adeguate, di “qualcosa” che abbia una sconcertante evidenza, enumerabile con la “precisione” che sgorga dalla certezza di un esito risolutivo.

L’evidente trasmutazione si avverte anche nel forte cambiamento linguistico: dismessi i panni impressionistici, Cattafi si veste di un profondo rigore nomenclatorio, di matrice scientifica, davvero molto raro in poesia. C’è inoltre una netta modifica del tempo verbale, coniugato ora quasi esclusivamente al perfetto che descrive un’azione già conclusa (le sue occorrenze sono numerose lungo tutta la raccolta: andammo, indossammo, vedemmo, pensammo, uscimmo, camminammo, potemmo, navigammo, portammo, chiedemmo, fummo, etc.; tantissime dunque per un libro di sole 19 poesie). Se tutto ciò rappresenti una definitiva rinuncia, che peraltro pone l’accento sulla comune sorte umana (il poeta usa esclusivamente la prima persona plurale), od un ennesimo tentativo di superamento di una soglia di dolore esistenziale ormai giunta a livelli acutissimi, non è dato saperlo.

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L’osso

Avanti, sputa l’osso:
pulito, lucente, levigato,
senza frange di polpa,
l’immagine del vero,
ammettendo che in questo
unico osso avulso dal contesto
allignino chiariti, concentrati
quesiti fin troppo capitali.
Credo che tu non possa
farcela: saresti cenere nella fossa,
anima da qualche parte.

(da L’osso, l’anima, Mondadori 1964)

Sondare dentro il “vero”, alla fine, diventa un atto impossibile alle capacità umane; non solo: affannarsi a trovare la soluzione assoluta è un’operazione effimera, inservibile se poi la verità è sganciata dal contesto delle cose o pretenda di esaurire il reale. Non per questo Cattafi intende rinunciare, anche se un silenzio poetico, durato ben sette anni, lascia intendere che una resa, seppur parziale e provvisoria, è stata avvertita come necessaria, quantomeno per riordinare le idee in vista di una nuova battaglia contro l’inconoscibilità del mondo.

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Cancro

Il sei luglio alle cinque del mattino
il tram a vapore partito da Messina
emise dall’imbuto fumo
faville e un lungo fischio,
appena nato girai la testa
verso quel primo saluto della vita.
Appartengo a una razza
bisognosa di auguri
mi dolgo di non potere
stringermi la destra con la destra
baciarmi le guance
quando una volta l’anno
mi scorre accanto zampettando all’alba
l’acquatico figlio della luna
che porta la mia sorte sigillata
nel pentagono della sua corazza.

(da L’aria secca del fuoco, Mondadori 1971)

La natura risulta sempre strumento o corsia preferenziale a esprimere la similitudine. Spesso trapela in Cattafi un forte senso di costrizione, di soffocamento che egli tenta di esorcizzare per mezzo di figurazioni oracolari simili ad allucinazioni (Cancro). L’andamento sospeso e misterico sfocia in sentenze spiazzanti e, talvolta, apparentemente indecifrabili.

Questa linea orfica lo accomuna a tanti illustri predecessori – penso a Yeats, a Campana e, non ultimo, a Lucio Piccolo – sospingendo il dettato in una direzione ermetica, infine addirittura “segnica”. E, paradossalmente, sembra che tanto più la poesia si faccia oscura, quanto più la sensazione è quella di una maggiore chiarezza sintetica dei messaggi. La parola aumenta di densità e consistenza, in modo tale da lasciar risplendere, in poche pennellate, una forte carica ‘universale’.

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L’allodola ottobrina

S’alzò in volo e cantò invece
l’allodola ottobrina
prima che giungesse concentrato
il piombo dodici undici dieci.

(da L’allodola ottobrina, Mondadori 1979)

Il poeta affida ancora una volta ad un animale simbolico, adesso l’allodola, tutto un carico di impulsi attinenti ad uno stato di estrema resistenza, di sfacciato titanismo che oltrepassa il radicato dolore dell’anima. Chissà che in Cattafi non agisse una qualche reminiscenza ungarettiana di Agonia? (Morire come le allodole assetate/sul miraggio// […] Ma non vivere di lamento/ come un cardellino accecato).

È fondamentale continuare, imperterriti, a creare “pienezze di senso”, anche laddove ci si sente accerchiati da mali di sconcertante varietà: opporsi cantando (ecco il perché del corsivo per l’avverbio) anche se il mondo si dissolve. “In uno scrittore quale è Cattafi (post-montaliano e post-ermetico, sperimentatore per indole, senza dover chiedere lumi alle neoavanguardie coi loro codificati e spesso scontati azzardi), l’oggetto è sempre al centro, ha il compito di fisicizzare cioè di render concreta l’intenzione di un io storicamente perplesso quanto alla propria parte, dubbioso per forza del suo governo sulla fluidità del vivente. […] L’allodola è dunque anche il grande, persuasivo testo della persona che ha fiducia nell’oggetto, catturato di continuo e di continuo lasciato rifluire; oggetto amato infine anche nelle specie del male, del disgusto, della sventura. C’è un graduale incremento, pagina dopo pagina, degli aspetti ingrati, degli eventi penosi, eppure tutto segnala una medesima “teofania”… (Silvio Ramat, Bartolo Cattafi oltre la “quarta generazione”: il terzo tempo della poesia cattafiana, in AA.VV., Atti del Premio Nazionale di Poesia «Bartolo Cattafi» VII e VIII edizione – Barcellona P.G., 1996, 1999. Marina di Patti-Messina, Pungitopo 2000, pp. 46-49).

Tutto ciò non elimina l’azione ineluttabile della morte, che azzera qualsiasi tentativo di rivolta, distrugge ogni spasimo di volo (distinzione dalla massa?), spezza le fragili trame umane fatte di fatica, di un confuso annaspare per la difesa di una sterile sopravvivenza.

Ed è un annullamento totale, se è vero (come è vero) che il poeta si propone di cancellare addirittura la propria ombra, ultima proiezione residua del suo status di creatura terrena, che lo costringe ancora ad un’esistenza involuta.

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Creazione

In quel muro in quel foglio
nell’area bianca che la tua mano cerca
il mignolo bagnato nell’inchiostro
sopra strisciato con fiducia
azzurro corso d’acqua rapinoso
vena arteria in cui scorre
a occhi chiusi il mondo.

(da Segni, Scheiwiller 1986)

Si potrebbe dire che ogni enunciazione segnica produce linearità, ovvero consta di un’estensione nel tempo (oralità) o nello spazio (scrittura). Tutto ciò implica un’inevitabile distinzione tra una parola tratta dall’infinito ‘sottobosco’ dei segni in potenza e le effettive attuazioni in un discorso a sé stante: «Ségnala/ dalle un connotato/ spazio circondato d’altro spazio/ stràppalo come foglia/ all’immane foresta del non-segnato» (si legge in un’altra poesia: Pagina bianca). Da qui l’assoluta necessità della scrittura, vista come azione prometeica di conquista del barlume minimo di conoscenza possibile, sebbene ciò comporti un discernimento solo relativo dell’infinita molteplicità del reale.

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Nidiata

Coloniali parole
gregarie filiformi
da te lasciate in un luogo
in un discorso
nidiata
ora straniera
ritornante rimorso
fosforo stridente
nel sonno della sera.

Le parole – sostanziazioni del pensiero astratto (ricordiamo l’altra dicotomia saussuriana tra langue e parole) – hanno la capacità di rivelarsi ossessivo portato di una razionalità ormai destabilizzata: il poeta tenta di decrittare una realtà che gli si ribella, quasi fosse animata da palpiti cospirativi che disgregano una consistenza intellettiva faticosamente acquisita.

Perduta la vis demiurgica, l’io si trova svuotato di ogni orizzonte gnomico, dunque esistenziale; gli stessi oggetti dissipano la propria “funzione connotativa” di simboli: è un quadro dal barocchismo assai accentuato, un horror vacui che travolge anche la percezione più elementare. Insomma un’estrema negazione del mondo, sia esso identificabile con le cose (la vita) o col vano tentativo di arrestare il loro inarrestabile trascorrere (la scrittura):

I segni e il senso

I segni e il senso
dei segni su soggetti scalpitanti…
O apatiche scritture
membra ammansite
materie inerti ammucchiate in fondo all’anno
scritte luminose di novembre.

Diego Conticello

Gruppo MAGOG