Talvolta presso il volgo e i poeti dicesi Caso quella Cagione fantastica degli accidenti, che si è chiamata con altro nome Fato, Destino, Sorte, Fortuna. Ed è sicuramente per un caso che una mattina di fine estate di qualche anno fa mi recai al cimitero Musocco di Milano in cerca della tomba di Dante Virgili. Lo feci dopo aver letto i suoi due romanzi, ma soprattutto dopo aver letto quel libro strepitoso che si intitola Cronache della Fine (Marsilio, 2003), di Antonio Franchini, che racconta perfettamente la strana vicenda umana, editoriale e letteraria dello scrittore della Distruzione (1970) e di Metodo della sopravvivenza (1992). In Cronache della fine, in chiusura del capitolo Una visita, a pagina 200, Franchini racconta una passeggiata del 2002, tra le tombe del Musocco, fatta in compagnia di Ferruccio Parazzoli (storico editor Mondadori, oggi a capo della Saggiatore) in ricordo della morte di Virgili, avvenuta dieci anni prima: Qualche giorno dopo [la passeggiata] Parazzoli mi è venuto incontro allegro. Dice: “Sa, adesso faccio mettere a posto la tomba del Virgili. S’è troppo rovinata, così com’è non può stare. Ho dato disposizione di risistemarla, è giusto così”.
Quando mi recai al cimitero Musocco, libro di Franchini alla mano, purtroppo la tomba di Virgili non esisteva più, inoltre il numero del campo di sepoltura e il numero del sepolcro riportati nel libro non erano corretti. Fu così che scoprì che i resti di Virgili stavano per essere gettati nell’ossario comune e, con il prezioso aiuto di Andrea Lombardi, ma nel disinteresse generale, feci quello che mi sembrò giusto fare. Una raccolta fondi per un nuovo loculo e la ripubblicazione dei suoi libri, ma sopratutto siamo riusciti a non far dimenticare il suo nome, almeno per qualche tempo. La storia è raccontata bene in due articoli di Luigi Mascheroni, apparsi sul Giornale: qui e qui.
E certamente è per la stessa cagione fantastica degli accidenti che ho avuto la grande fortuna di intraprendere un viaggio di cinque giorni sulle orme del poeta orfico Dino Campana, un viaggio terminato qualche giorno fa. Insieme ai poeti Serse Cardellini e Massimiliano Bardotti ho camminato sulle orme dell’Ultimo dei Germani, visto le rose e le valli descritte nei suoi Canti Orfici, il BarCafé Orfeo di Faenza, la casa natale a Marradi. Siamo stati ad Acquacheta, dove l’acqua tinta che rimbomba offendeva le orecchie di Dante Alighieri, che la descrisse nel canto XVI dell’Inferno. Abbiamo visto la luce bianca e verde che cade dagli alberi e gli orridi sotto il sole di mezzogiorno. Abbiamo goduto della vista del Monte Falterona ancora avvolto tra le nebbie, abbiamo toccato le cortecce ritorte dal tempo dei castagni di Campigno, ci siamo bagnati nel torrente Rovigo. Abbiamo fantasticato sul dialetto perduto greco-bizantino che si parla ormai solo a Casetta di Tiara, dove Dino ha vissuto con Sibilla Aleramo. Abbiamo attraversato grigie rocce frastagliate, e visto un mare infinito di ginestre, abbiamo compiuto un viaggio chiamato Amore.
E come da rituale, per un perfetto pellegrinaggio poetico, l’ultimo giorno, dopo aver visitato Villa Castelpulci (ora Scuola Superiore della Magistratura), il manicomio dove Campana fu rinchiuso all’età di 33 anni e, annientato dal bromuro o forse dalla Sifilide (così Sebastiano Vassalli, Un po’ del mio sangue, Rizzoli 2005), smise definitivamente di scrivere; visitammo il suo attuale luogo di sepoltura, nell’Abbazia Santi Salvatore e Lorenzo a Badia di Settimo. Fu in questo meraviglioso viaggio che scoprimmo che anche la salma di Campana ebbe una strana sorte.
Il 2 marzo 1932 il Poeta viene inumato nel cimitero di San Colombano a Badia di Settimo, nel territorio di Scandicci (FI), non lontano dal manicomio dove morì il giorno prima, per una forma di setticemia, dovuta a una malattia mai ben chiarita, e da dove, poco tempo dopo, sarebbe dovuto uscirne per sempre. Nel 1938, dalle pagine del Frontespizio, all’approssimarsi del decennale della morte, accortosi che la famiglia non avrebbe mai richiesto i resti mortali del diseredato parente (che sarebbero allora finiti nell’ossario comune), Piero Bargellini, letterato e futuro sindaco nella Firenze alluvionata del 1969, lanciò un appello per la salvaguardia delle spoglie del Poeta. Trovato a fatica, grazie a una vecchia mappa, il luogo esatto dell’inumazione (era in un campo appartato del cimitero, denominato il ‘quadrato dei morti in manicomio’), tramite un nuovo articolo, fu lanciata una sottoscrizione per una nuova croce, in attesa di trovare una sistemazione in un luogo più degno. La sottoscrizione raccolse più di mille lire, aderirono scrittori come Falqui, Pavolini, Zavattini, l’editore Scheiwiller, l’artista Giorgio Morandi, il politico Giuseppe Bottai. A luogo più degno fu scelta una “deteriorata e trasandata” cappella romanica, cappella San Bernardo, posta ai piedi del campanile della Badia di Settimo, che fu poi restaurata velocemente, grazie alle sollecitazioni di Bottai, dalla Reale Sovrintendenza.
Un resoconto del maggio del 1940, quando un folto gruppo di intellettuali dell’epoca riesumarono dal cimitero San Colombano le spoglie di Dino Campana per deporle nella cappella, apparve nella rubrica Marginalia, della rivista Poesia (All’insegna della Medusa), anno II, fascicolo ¾, gennaio 1946, a cura di Bargellini: “Una mattina presto cavammo di sotterra le ossa del poeta. Quando, adagiato tra la terra e i resti imporriti della cassa, apparve lo scheletro, Luigi Fallacara esclamò: ‘È lui’. Aveva il teschio inclinato sulla spalla destra secondo il suo atteggiamento naturale, e rideva con tutti i suoi bellissimi denti intatti. Tirammo fuori i nostri fazzoletti e, ginocchioni attorno alla fossa, ripulimmo uno per uno gli ossi terrosi prima di riporli nella cassetta di zinco. Quando fu la volta dei grossi femori, Carlo Bò disse: ‘Ha camminato tanto’. Poiché gli ossi erano fradici, esponemmo la cassetta al sole, e si attese che l’umidità si esalasse, stando seduti sul prato del camposanto.Un’altra sera facemmo il trasporto dal cimiterino di San Colombano alla Badia di Settimo. Poeti e artisti erano intorno alla bara. I contadini, al di là delle siepi, salutavano; le donne dicevano ai ragazzi: ‘È il poeta’, senza sapere chi. Intanto i lavori di restauro della chiesina si facevano sempre più laboriosi. Fu scoperta una cripta e si pensò di deporre lì sotto le ossa di Campana. Ma le acque dell’Arno invadevano periodicamente il sottosuolo della Badia. Si preferì chiudere le ossa in una cassetta schiacciata e murarle nel cervello della volta, ai piedi del piccolo altare. In una lapide per terra fu incisa questa semplicissima epigrafe: DINO CAMPANA / POETA / 1885-1932”.
Il 3 marzo 1942, a dieci anni dalla morte di Campana, in piena Seconda guerra mondiale, si svolse la cerimonia ufficiale per la traslazione della salma dal cimitero alla Cappella San Bernardo, erano presenti numerose personalità pubbliche: Vallecchi, Papini e Rosai, Hermet e Fallacara, De Robertis e Montale; e scrittori della generazione successiva come Bo, Gatto, Bigongiari, Luzi, Parronchi, Pratolini. Dopo la benedizione, la cassetta contenente le ossa venne calata da Gatto e Montale nel piccolo loculo sotto l’altare; Bo e Rosai vi deposero la corona offerta dal ministro Bottai.
Ma per la definitiva pace delle spoglie di Campana bisogna aspettare ancora. Solo due anni dopo la cerimonia del decennale, il 4 agosto del 1944, i Tedeschi in ritirata minarono il campanile di Badia di Settimo, che crollò rovinosamente sulla cappella sottostante, distruggendo così per sempre la tomba scelta con tanta cura per il Poeta. Nel dopoguerra si ricostruì il campanile ma non la cappella, e le spoglie di Campana furono nuovamente spostate pochi metri più in là. Nel 1946 si svolse un’altra cerimonia ufficiale, alla presenza di più o meno le stesse personalità pubbliche presenti anche alla cerimonia del 1942. La destinazione ultima delle spoglie adesso si trova nella navata sinistra della pieve, all’interno dell’Abbazia di Badia di Settimo. Sempre dal resoconto di Bargellini, sulla rubrica Marginalia del 1946, una nota della direzione della rivista Poesia, scritta a margine dell’articolo: “Anche se oggi disgraziatamente sono molti i luoghi d’Italia ridotti a un cumulo di macerie, la notizia è di quelle che sorprendono e addolorano. Chi conservi animo sensibile per le cose dell’arte e della poesia, non potrà, apprendendola, non sentire un moto di pietà per la triste sorte riserbata alla salma dl Dino Campana. Così non v’ha dubbio che otterrebbe immediato affettuoso consenso qualunque iniziativa di cui ci facessimo promotori tra gli artisti e i poeti per cercare di restituir copertura e pace a quelle povere ossa. Ma noi vogliamo augurarci che a provvedere, con la dovuta sollecitudine, sarà di nuovo la Direzione delle Arti. Nella certezza di onorare in Campana un poeta ben degno. (Nota della Redazione)”.
Oggi, nonostante tutte le vicissitudini passate dalla salma del poeta di Marradi, visitare la sua tomba non è così semplice. La parrocchia S.Salvatore e S.Lorenzo a Settimo apre la chiesa solo per svolgere la funzione della SS Messa. Dunque il sepolcro è visitabile solo la domenica mattina e alle 18, dal lunedì al sabato. Per visitare la Badia abbiamo dovuto chiamare telefonicamente, e fissare un incontro per farci aprire le porte. All’appuntamento abbiamo trovato un volontario gentile e molto preparato, che ci ha fatto da guida raccontandoci la storia della Badia per un’abbondante ora. È stato il volontario a raccontarci le vicissitudini della salma di Campana, che ormai sono diventate parte integrante della storia di questo luogo magico. Ci siamo accorti però che né la pagina Wikipedia della Badia né il sito ufficiale della parrocchia riportano la sepoltura di Campana interna alla chiesa. E fuori dalla chiesa stessa manca qualsiasi riferimento al sepolcro, nessuna lapide, nessun cartello, nessuna nota informativa. A onor del vero, comunque, la notizia è riportata all’interno della brochure dell’Abbazia, acquistabile con offerta libera, all’interno della chiesa.
I parenti di Virgili e quelli di Campana non hanno voluto sapere niente delle sorti dei resti mortali dei due scrittori. Tutti e due già in vita ruppero i rapporti con le loro rispettive famiglie. Di Virgili probabilmente esiste ancora qualche lontano famigliare, in qualche parte del Sud Italia, ma che non credo abbiano cognizione di chi sia il loro parente scrittore.
La famiglia di Campana invece da l’impressione che voglia disintegrare la memoria del Poeta. La casa di famiglia a Marradi dove nacque Dino è abbandonata a se stessa e il manoscritto originale de Il più lungo giorno, prima promesso in dono al Centro Studi Campaniani “Enrico Consolini”, fu poi venduto dai famigliari nel 2004 ad un’asta di Christie’s a Roma, per 213.425 euro. Quella che viene considerata la prima stesura dei Canti Orfici, che risale al 1914, è stata acquistata dall’Ente Cassa di Risparmio di Firenze, e probabilmente depositata in qualche caveau sotterraneo.
Tappa obbligata del nostro pellegrinaggio è stato anche il Centro Studi Campaniani “Enrico Consolini”, che si trova in centro a Marradi, dove ad accoglierci abbiamo trovato la cordialissima Sig. Anna Gentilini, che da anni ormai insieme alla sorella Mirna, cura ottimamente le sorti di questo centro studi molto attivo e attentissimo alle traduzioni dei libri di Campana che ogni anno vengono pubblicate in giro per il mondo. Campana è stato, ed è, uno dei poeti “nazionali” più letti all’estero. Abbiamo chiesto al Centro Studi cosa ne pensasse della strana vicenda delle spoglie del Poeta, e ci hanno risposto che già dalla fine degli anni Cinquanta (grazie all’interessamento dell’allora sindaco Antonio Cassigoli) è stato più volte progettato di riportarlo nella sua città natale, e che nel 1972 sembrò quasi possibile, ma alla fine saltò tutto e che comunque al giorno d’oggi sarebbe difficile, che si creerebbero delle tensioni con la Diocesi di Scandicci che già ne ha viste e passate tante a causa dei resti mortali del Poeta Pazzo di Marradi.
Questa storia delle tombe, del ricordo, è una questione molto ambigua. È giusto o non è giusto occuparsi delle sorti di semplici resti mortali? Non lo so, probabilmente è una di quelle questioni che tocca l’animo profondo di ognuno, dunque alla fine una questione prettamente personale. Però qui stiamo parlando di scrittori, e scrittori potenti. E un luogo, un posto, un punto fisico dove mantenere il ricordo della loro presenza viva, credo sia importante curarlo e tenerselo caro. Per non dimenticare, come troppo spesso si dice senza attuarne il senso.
L’idea, tutta personale, che mi sono fatto sulla storia della salma di Campana è che sepolto dove è finito adesso non sia il luogo giusto. Seppure il posto sia meraviglioso, silenzioso, veramente carico di spiritualità e la tomba sia curata alla perfezione (ci sono una lapide con dei versi incisi e una scultura che riproduce i Canti Orfici) credo che Dino Campana meriterebbe di essere sepolto nella natura, in mezzo a un bosco, o perlomeno nel cimitero di Marradi, dove dal ’72 esiste già un cenotafio (una tomba vuota) in sua memoria; d’altronde in vita era un anarchico anticlericale. La mia impressione è che in quella chiesa lo spirito di Campana subisca, per uno strano accordo sottaciuto tra fantasmi, una sorta di espiazione dai peccati commessi in vita, quasi una punizione. Terrestre però, non divina. E bisogna dire che nelle intenzioni di Pietro Bargellini la tomba nella cappella San Bernardo sarebbe dovuta diventare una specie di santuario laico, come nel sepolcro di Dante a Ravenna, ci sarebbe stata una “Zona Campaniana”, un luogo di silenzio e meditazione, non solo dedicato al poeta ma alla poesia tutta. Ma sicuramente spostare la salma non è una priorità, e non biasimo certo chi trovi la faccenda inutile e senza senso. Vorrei però almeno porre l’attenzione sulla visibilità della tomba stessa. Mi auguro che il comune di Scandicci o la Diocesi di Settimo, magari in collaborazione con il Centro Studi Campaniani, provveda a mettere una lapide o un cartello al di fuori della chiesa che indichi la presenza della tomba. Almeno per quei non pochi turisti che al compimento dei tanti “percorsi campaniani” presenti nelle colline circostanti, abbiano l’incauto ardire di arrivare fino al sepolcro del poeta. Sopra alla lapide, in epigrafe, dovrebbero far incidere queste parole scritte da Campana, in una lettera spedita nel ’30, da Castelpulci, all’amico poeta Bino Binazzi: tutto va per il meglio, nel peggiore dei mondi possibili.
Gerardo de Stefano