Avendo scritto moltissimo, con genio, Cornelio Fabro, che è nato 110 anni fa, per paradosso è scomparso dagli altari dell’editoria, dal dibattere pubblico (spesso, un dibattersi tra inchini, corteggiatori, urlatori). Per lo più, il nome di Fabro è legato a Søren Kierkegaard, che ha sviscerato e tradotto, pressoché integralmente (Le grandi opere filosofiche e teologiche sono edite da Bompiani; i Diari per Morcelliana). Nato in provincia di Udine nel 1911, da famiglia semplice, che lascia a undici anni, entrando nella Congregazione dei Padri Stimmatini a Verona, Fabro si laurea in filosofia alla Lateranense, è ordinato sacerdote nel 1935, continua, con foga a studiare. Sarà professore all’Università di Roma, poi a Napoli, a Perugia. “Rimettersi in uno stato di radicalità, dimenticare tutto quello che si era imparato per ritrovare l’origine, il primo scaturire del nostro spirito, il cominciamento essenziale nella ricerca della verità, questa era la «filosofia»… La verità quindi non è una conquista ma piuttosto una insopprimibile esigenza, proprio perché la filosofia non è una disciplina obiettiva ma una reflexio regressiva, intensiva, verso il fundus animae: è cioè inquietudine, fermento, insoddisfazione delle cose immediate, desiderio di tornare al principio, di arrivare all’origine, alla scaturigine del sapere, a quel rapporto iniziale e originario della coscienza alla verità dell’essere che fonda la verità in atto di ogni altro sapere”, scrive, testimoniando Fabro, Anna Giannatiempo Quinzio.
Guardò con sospetto alle attività del Concilio, Fabro, o meglio: “Grazie alla sua straordinaria conoscenza sia del pensiero cattolico che di quello moderno, è stato consapevole come pochi… che tra le due culture non c’era una semplice antitesi polemica che con una qualche forma di ‘ottimismo pastorale’ si sarebbe potuta rimuovere, bensì una radicale alternativa teoretica e spirituale… Ci è toccato assistere – e Fabro l’ha vissuto con profondo dolore – a patetici tentativi di teologi e pensatori cattolici di cercare l’accordo con le espressioni più radicali dell’ateismo contemporaneo, cominciando dal marxismo… per anni i ‘santi padri’ della teologia cattolica sono stati Heidegger, Kant, Hegel: come si poteva chiedere a uno studioso come Fabro di tacere?” (Giuseppe Mario Pizzuti). Dal 21 aprile del 1980 Fabro ricevette diverse lettere minatorie da parte delle Brigate Rosse: pregò le sue assistenti più vicine (Rosa Goglia e Anna Maria D’Ambrogio) “di remunerare chi l’avesse ucciso”. Nel corso di molti anni l’insegnamento orale di Fabro è stato appuntato, organizzato e definito in un libro anomalo, quasi aurorale, di certo audace, Libro dell’esistenza e della libertà vagabonda edito postumo da Piemme, nel 2000, cinque anni dopo la morte del suo autore. Naturalmente, di quel libro, trama di un insegnamento ‘nascosto’, remoto, non c’è più traccia libraria. Il “Progetto culturale Cornelio Fabro” tiene viva, più che la statica memoria, la statura dei testi.
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Una filosofia che si consuma nel pensiero, consuma se stessa, si annienta. La filosofia deve aprire le finestre della libertà, le porte della libertà, deve fondare la libertà. Una filosofia che non fonda la libertà è un letto di Procuste, una ghigliottina.
Tutte le cose hanno al loro fondo l’abisso del nulla che le attira, ma perché hanno superato l’abisso del nulla? Questo è il problema filosofico.
Capire non è afferrare parole, ma accettare uno stile di vita.
O umanità senza gioia! Ha tutto ed è spogliata di tutto, ha tutto di fuori ed è isolata di dentro… quasi per una specie di risentimento verso se stessa! Non è così?
La filosofia cerca, i sistemi han già trovato; ecco l’elemento esistenziale: il cercare; e poi il rischio della decisione.
Reale e concetto stanno agli antipodi.
Afferrare il reale e vivere in continua attesa delle manifestazioni del reale.
Il singolo si oppone alla massa.
L’uomo con la ragione si è creato le civiltà, ma l’uomo singolo trascende la ragione.
Solo ai limiti della pazzia si scopre l’invisibile, l’inesprimibile, allora, quando l’io non ha più sostegni.
Occorre l’isolamento, perché nell’isolamento si decantano le nebbie della vita quotidiana.
La nostra vita spirituale non è soltanto vita di idee, ma è vita di tensioni, di azioni, di decisioni, è vita come rischio.
Il mondo della natura non è separato dal mondo degli uomini come ci ha insegnato invece il razionalismo.
…chinarsi sulla fonte per bere l’acqua originaria è mettersi in quell’appartenenza al mondo, creato dal nulla.
Appartenere al mondo è un’incognita, è un abisso, è un fondo senza fondo, è un indecifrabile che l’esistenza può vivere e può dare: ma l’esistenza non può spiegare ciò che ha il principio al di là di ogni coscienza e previsione. Essere al di là di ogni previsione, anzi di ogni imprevedibilità, l’essere imprevedibile fa a pari con l’inconoscibile divino.
Il nulla è indispensabile perché al nulla noi riferiamo tutte le differenze: una cosa è differente dall’altra in quanto non è quell’altra e non è al modo di quell’altra, non è nel tempo di quell’altra, non è nello spazio di quell’altra. Bisogna abituarsi a queste riflessioni radicali; altrimenti la filosofia non è che nozione.
L’angoscia è la situazione radicale, è l’incertezza sulla verità dell’essere.
Il sonno nessuno riesce a spiegarlo, ed è la confutazione di tutta la filosofia moderna: che l’essere non è l’autocoscienza.
Forse ciò che viviamo in maniera più esistenziale è proprio il nostro corpo.
Tutta la filosofia moderna è senza senso di fronte alla prospettiva esistenziale della realtà, perché è di tipo osservabile, di tipo galileiano.
Per un uomo riflessivo la malattia ha questa funzione isagogica, introduttiva e rivelativa, che la salute non ha.
Nel momento della malattia o del dolore, qualunque cosa capiti non siamo piagnucoloni, viviamo quell’ora esistenziale e conosceremo noi stessi. È una grande esperienza, un’esperienza impagabile: sperimentare l’isolamento totale e l’impotenza totale, ma l’io è presente, l’io sorveglia. Può avere dei momenti di smarrimento in questo isolamento, in questa impotenza, mentre lo spirito è pronto, è presente, è attivo.
Dobbiamo avvertire l’importanza dell’essere nel corpo; del problema dell’essere nel corpo, del gioco complesso e semplice, ordinario e straordinario, misterioso e luminoso del nostro essere nel corpo. E perciò dobbiamo amare il nostro corpo, rispettarlo, esaltarlo nel senso appunto, sì, che noi non siamo il corpo, ma abbiamo il corpo e abbiamo solo questo corpo.
Essere uomo o essere donna non è una distinzione accidentale, ma esistenziale profonda costitutiva.
La compassione è una specie di metastasi dell’angoscia; l’angoscia è la paura per noi, la compassione è la paura per gli altri.
Noi ci troviamo liberi (non ci siamo fatti liberi), ci troviamo liberi, dobbiamo noi liberarci essendo liberi, liberarci mediante la libertà.
La filosofia non s’impara, non s’insegna, la filosofia si cava, si estrae, si fa sorgere.
La vera situazione della disperazione è morire la morte, morire la morte senza che la morte muoia; non vivere la morte ma morire la morte, essere in uno stato di morte che vive se stessa come morte.
La libertà è una facoltà emergente.
Cornelio Fabro
(gli aforismi sono tratti da: Cornelio Fabro, “Libro dell’esistenza e della libertà vagabonda”, Piemme, 2000)