06 Settembre 2024

“Slanci di gioia tremenda”. Pavel Florenskij, il poeta dallo sguardo fanciullo

I mistici hanno fame di realtà. L’esistente non è altro che un ricamo di simmetrie con il mistero; una serie infinita di suoi riverberi nelle cose, che costituiscono la premessa – e la promessa – di qualcosa d’altro. Nelle conchiglie raccolte nell’infanzia a Batumi; nelle schegge di fuoco di un coltello affilato da un arrotino; nella fragilità perfetta di una viola, il baluginìo del noumeno è la vertigine che corre in ogni creatura e fenomeno nel cosmo, ma l’uomo deve stare attento a riconoscere l’istante irripetibile.

Pavel Florenskij non conosce altro modo di vivere che non sia questo e non viene meno a questa fedeltà neanche nei giorni della persecuzione del regime, rifiutandosi di spogliarsi dell’abito talare. Scienziato, studioso di arte, teologia, matematica. Il Leonardo da Vinci russo, così viene riconosciuto, è poeta. Potremmo dire anche poeta, come se si trattasse dell’elenco delle attività – fredda tassonomia – in cui si industria l’intelligenza e non di un’esigenza originaria. Innanzitutto, ciò che Elemire Zolla – uno dei primi a cui si deve la diffusione del pensiero florenskijano in Italia – ha chiamato pargoleggiare: avere per sempre quello sguardo ingenuo del fanciullo verso tutto ciò che lo circonda, cioè la certezza che dietro la foggia mutevole delle cose ci sia sempre e comunque di più. Tutti i bambini sono poeti autentici in tal senso; gli adulti che non hanno saputo conservare la loro infanzia, sono sguardi che hanno perso il lucore troppo presto. Florenskij chiama questo naufragio dell’armonia custodita come un segreto nelle cose, il consueto.

…Ma il sogno trascorre e tristemente
Guarda attorno a sé.
E sussurra in maniera misera e triste:
“Trovami, trovami…”

Conoscere significa accogliere la paura di un mistero fino ad abbracciarne l’indicibilità, senza farne una nemica. Ogni cosa, anche la parola, va ricondotta sub specie aeternitatis perché tutto parte da lì e tutto lì ritorna. La poesia di Florenskij, per la prima volta edita in Italia per Aragno, nella traduzione di Lucio Coco, non può prescindere dalla filosofia. Ogni motivo poeticamente vissuto in parola non si separa dal concetto, sviscerato, nel caso del mistico russo, anche in matematica. Misurarsi con il Florenskij poeta, significa innanzitutto osservare come la parola si faccia luogo di incontro e questo vuol dire, senza mezzi termini, sostare nel simbolo, in cui si eventua proprio l’incontro fugace. Dunque la parola non è affatto segno, strumento, ciò che Benjamin liquida senza troppi riguardi come concezione borghese del linguaggio. È il luogo di una compagnia discreta, in cui aprirsi a un Altro;

“Basta solo aprire la porta,
Dove sempre ho bussato,
E ci abbracceremo l’un l’altro,
Come prima”.

La parusia cara a Platone, in cui l’idea è già presente nella realtà sensibile. La poesia appare come un compromesso tra l’astrattezza dell’idea e la materia; incarnare significa appunto, insistiamo, incontro. Ma le parole non sono fatte per trattenere, Florenskij ne è consapevole. Che rimane, dopo? Se lo è chiesto Anna Cavalletti, l’amica dolcissima di Cristina Campo, nel suo diario a sedici anni (“Soltanto nel silenzio, prima o dopo l’espressione, posso vibrare. Ho scritto ‘dopo’; è vero? Ma la manifestazione non può essere distruzione…”.)

Yves Bonnefoy dice che le parole ci derubano, pur affascinandoci. Ma nelle poesie del mistico russo non c’è l’impotenza sconsolata del derubato. Almeno, non spetta a lei l’ultima parola. Chi, come lui, è andato al fondo del linguaggio, chi ha ingaggiato il corpo a corpo con il dire, soprattutto con la potenza del nome, non solo supera la disfatta, ma la esige come necessaria feritoia per andare più in là. Più in alto. In una poesia originariamente intitolata Canto delle ascensioni, Florenskij esordisce dicendo che andiamo senza strada, le rocce

“Sono sempre quelle…
Slanci
Di gioia tremenda
Inutili”

La nebbia grigia ci avvolge come umido inganno; non guardatela dice il poeta; fissare il cuore, quindi lo sguardo, oltre, più su. È in questa consapevolezza che lo squarcio del Caos invece di aprirsi come un abisso che risucchia, diventa la soglia necessaria da attraversare mentre si va, fino ad arrivare dove le lontananze hanno color di zaffiro azzurro. Marina Cvetaeva, col passo certissimo ed esatto, aggiungiamo, del poeta assoluto che alla parola ha dato tutto, sa e ci dice dell’esistenza di una gravità celeste. Secondo la legge dell’analogia – com’è in alto, così in basso – il poeta testimonia del miracolo della cosa unica (Ermete Trismegisto), oltre le furiose frammentazioni. E dice

“Tu cosa sussurri tanto timidamente
Canna acquatica?”

O uomini, credete,
Non c’è la morte!”

Livia Di Vona

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