In questo articolo in forma di confessione, pubblicato sul “TLS” come “My therapy animal and me”, Joyce Carol Oates, grande scrittrice americana – La Nave di Teseo ha appena pubblicato “Ho fatto la spia”; è edita da il Saggiatore, Mondadori, Bompiani –, raduna tre temi, impedendosi – fortuna nostra – di ricadere nell’ennesimo ‘diario in quarantena’, pratica che ha dimostrato, in Italia, per lo meno, che troppi scrittori sono incapaci di interpretare e sentire la ‘realtà’. In superficie la Oates parla di animali ‘da compagnia’ o ‘da terapia’. Il pezzo, quindi, è una variante sul tema topico: i gatti e gli scrittori, che annovera firme nobili (da T.S. Eliot a William Burroughs, da Lewis Carroll a Poe, Bulgakov e la formidabile gatta di Tanizaki). Soprattutto, la Oates ci dice che il contagio, la pestilenza, appesta la creatività: lo scenario distopico e fantastico è lecito finché c’è una realtà ‘normale’ da cui evadere. Quando si vive nell’anormalità, nel pericolo, lo scrittore deve stare lì, tra silenzio e imprevisto. Il rischio, altrimenti, è il patetico. Di più, la scrittrice gioca il paradosso. Se siamo degli animali ‘sociali’, per cui il nostro io è il riflesso di ciò che gli altri pensano di noi, da soli chi siamo?, forse non siamo, esistiamo davvero? Questo – la nostra inesistenza, la dipendenza da chi e da che cosa – è un enigma degno di romanzo. Che un libro, in questa ondivaga incertezza, sia una zattera va da sé.
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Auden disse: “Vivete alla giornata”. In una realtà claustrofobica come questa non ci resta che vivere alla giornata. Perché è davvero difficile contemplare un futuro! La mia vita, in genere così prevedibile, definita e (per lo più) piacevole, adesso è instabile, mi sembra di essere su delle montagne russe impazzite. Non sono in grado di lavorare, neanche di trovare la concentrazione per prepararmi al lavoro, mi ritrovo in balia di incessanti email, messaggi e telefonate; “ultime notizie” che non portano quasi mai un barlume di speranza, ma solo crescente paura, 76000 morti per coronavirus negli Stati Uniti, e in continuo aumento.
E in tutto ciò, non c’è niente di minimamente romanzato, non c’è nessuna allegoria o metafora (regni dell’essere in cui gli scrittori si sentono più a proprio agio); niente di tutto questo potrebbe essere seccamente sintetizzato in “rivelazioni” o “epifanie”. Gli scrittori sono condannati a immaginare di poter carpire il senso anche dalle più terribili circostanze e che spetti a loro esprimerlo.
Invocando distopie e scenari infernali, i narratori hanno ampiamente dato per scontato la relativa normalità del “mondo reale”; se il mondo reale diventa uno scenario infernale, replicarlo in prosa è ridondante. Ci sarà anche una cupa soddisfazione nel profetizzare il vigente disfacimento della democrazia liberale negli Stati Uniti, ma si tratta senz’altro di una soddisfazione amara – la tendenza è pensare che l’aver immaginato un disastro possa bastare. È in dubbio il destino non solo dei prossimi progetti creativi, ma anche quello del possibile pubblico.
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In mezzo a tutte queste distrazioni, ecco il mio “animale da terapia” Zanche che fa le fusa, sinuosa, mi si struscia contro le gambe e salta, con pesantezza e un grugnito ansante, sul mio grembo. (Ho scritto “animale da terapia” per gioco, Zanche non fa parte di questa categoria, ma di recente, nel periodo di lockdown, sembra stia qualificandosi per questo ruolo). Mi colpisce il fatto che il Felis catus sia straordinariamente portato all’autoisolamento, e, quando sterilizzato e nutrito bene, sia più che lieto di starsene in solitudine, mentre l’Homo sapiens è ovviamente mal equipaggiato a stare solo, persino nelle condizioni migliori. Non stupisce che attualmente negli Stati Uniti, stando ai dati, ci siano 500.000 cani di servizio e 200.000 animali di “supporto emotivo” legalmente registrati presso le autorità sanitarie. A cui va sommata una vasta schiera composta da un numero indefinito di “animali da terapia” non ufficiali, come Zanche, una splendida gatta Maine Coon bianca e nera che ho adottato l’anno scorso dal canile. Infatti tra i nevrastenici, molto probabilmente in rapido aumento in quarantena, le fusa sono diventate il “rumore bianco” associato al conforto, a rimpiazzare persino la commiserazione umana. (Il paradosso è che le fusa non sarebbero naturali per i gatti, ma una tattica messa a punto dai loro antenati selvatici per sedurre, disarmare e addomesticare l’Homo sapiens, l’unico altro mammifero a poter essere soggiogato a loro vantaggio).
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Incapace di rimanere seduta da una parte per più di qualche minuto, guardo indietro con sconcertata nostalgia a quando, non troppo tempo fa, riuscivo a perdermi felicemente nel lavoro per dieci, dodici ore al giorno. Ora invece, vengo presa d’assalto da versi casuali di prosa profetica o da poesie che vagano nel cervello come matasse di alghe, mentre cammino avanti e indietro per la casa a ogni ora del giorno e della notte, perché il tempo si è sciolto, come in un quadro di Dalí e la vita è diventata una sequenza di frasi sconnesse senza interruzione né principio – “Tutta l’infelicità degli uomini deriva da una sola causa, dal non sapere starsene in pace, in una camera” (Pascal, Pensieri #139). “Niente che sia d’oro resta” (Robert Frost). Henry David Thoreau, che ammiro sin dall’adolescenza, adesso mi sibila superbo, arrogante: “Volevo vivere profondamente, succhiare tutto il midollo della vita, volevo vivere da gagliardo spartano, per sbaragliare ciò che vita non era, falciare ampio e raso terra e riporre la vita lì, in un angolo, ridotta ai suoi termini più semplici”.
Che ingenuità! Nell’isolamento forzato è legittimo chiedersi perché mai qualcuno dovrebbe desiderare di ridurre la ricchezza e la varietà della vita “ai suoi termini più semplici”, un lusso che ci si può permettere solo se c’è un mondo stabile da ripudiare. (Sappiamo che a Walden Pond, Thoreau viveva a due passi dalla propria famiglia amorevole, a Concord, e che andava da loro ogni volta che si sentiva solo, voleva un piatto caldo o dei panni puliti).
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L’uomo non è un animale molto razionale, ma è di certo un animale sociale. Apprendiamo i segnali sociali dai nostri simili umani: sorrisi, bronci, lamenti, risate. Persino il silenzio, quando siamo tra gli altri ha un significato che non può avere quando siamo soli. Come osservò William James, ogni individuo ha tanti sé sociali quante sono le persone che lo conoscono e interagiscono con lui: viceversa, se i nostri “sé sociali” non vengono costantemente stabiliti dalle interazioni con gli altri, noi esistiamo? A metà marzo, quando il mondo esterno è diventato una piastra di Petri brulicante di contagiati e il numero di decessi cresceva di ora in ora, il New Jersey ha stabilito che la popolazione dovesse rimanere a casa, prescrivendo il nostro fondamentale estraniamento dagli altri, per fare fronte alla possibilità (probabilità!) di infettarci l’un l’altro. Spettatori disorientati, siamo stati catapultati dallo stupore a un intorpidito orrore. Un’aura di irrealtà strisciava tra le nostre vite, portandoci a dubitare della nostra stessa identità; e se invece di entità durevoli le nostre, da sempre, non fossero altro che costrutti sociali? Siamo “reali” in tale estraniamento? È come se i nostri stessi corpi siano sul punto di fondersi in ectoplasma, come in quelle assurde, ma perturbanti “fotografie spiritiche” dei primi anni del ventesimo secolo.
Perché, dopotutto, cos’è l’identità, e cos’è la sanità, quando da troppo tempo siamo soli, nascondendoci da una dirompente, ma invisibile forma non vitale chiamata virus? E qual è il tono giusto da usare in un clima di terribili sofferenze?
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C’è il tono da videolezione che si acquisisce per necessità se si è insegnanti e la scuola chiude da un giorno all’altro, costringendo ogni forma di istruzione online. Forma scomoda, all’inizio, socialmente inadeguata, ma poco a poco navigabile e persino, in assenza di altri rimedi, piacevole. (Il tradizionale insegnamento face-to-face è già datato). C’è il tono richiesto dalla società: quando chi è sconfortato, cosa frequente in questi giorni, può facilmente sentirsi offeso se altri usano un tono “leggero”; quando chi cerca di reagire con un tono “leggero” alla propria demoralizzazione, rischia di offendere qualcun altro. Perché mai come in un periodo di crisi collettiva è chiaro che le condizioni di ognuno sono del tutto relative: c’è chi sta (colpevolmente) meglio di chi ha sofferto per vere disgrazie, oltre all’inconveniente della quarantena, mentre c’è chi sta (anche) peggio di chi è recluso con amorevoli compagni umani. Sapremo di essere tornati a qualcosa di simile alla normalità quando, invece di far di tutto per avere i nostri animali da terapia addosso a farci le fusa, con un gesto distratto li cacceremo dalla tastiera del computer, mentre cerchiamo di scrivere – “Zanche, vai via!”.
Intanto, nell’attesa di questa liberazione, continua a rincuorarci il contatto con un corpo caldo che fa le fusa e impasta con le zampe, ci consola l’aver accanto un altro essere vivente con cui parlare, anche se a senso unico. E per noi insonni, con la crisi che non fa che peggiorare il problema, c’è anche la profonda consolazione della lettura, preferibilmente con un animale da compagnia che sonnecchia al nostro fianco.
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Un’amata categoria di libri, il libro sul comodino, in genere letto sporadicamente, finito raramente, e se anche finito, riposto con riluttanza sullo scaffale, è la lettura ideale durante la quarantena. Sul mio ingombro tavolo di fianco al letto, ho molti libri del genere, molti dei quali lì da anni. Tra cui Weatherland: Writers and artists under English skies di Alexadra Harris, uno splendidamente eccentrico compendio di prosa e opere d’arte sul tempo atmosferico, attraverso i secoli. Troviamo cieli, nuvole, paesaggi, “stati d’animo” nelle opere di Shakespeare, Milton, Spenser, degli autori romantici, delle sorelle Brontë, di Virgininia Woolf, John Constable, William Turner, John Everett Millais, Ted Hughes: “Negli anni a venire, che potrebbero essere gli ultimi con un clima inglese, la nostra esperienza sarà determinata dalla memoria e dall’associazione, dalle cose che abbiamo letto e osservato, dai posti in cui siamo stati o che abbiamo immaginato”. Similmente, The Making of Poetry: Coleridge, the Wordsworths and their year of marvels di Adam Nicolson, è una cronaca delle giornate dei giovani poeti attraverso gli idilliaci paesaggi inglesi che attraversavano durante le loro passeggiate insieme, gli itinerari ripercorsi a più di duecento anni di distanza dall’intrepido autore. Poi ho il massiccio A Little Book on Form: An exploration into the formal imagination of poetry e l’ancor più pesante The Poem di Don Paterson, insieme al meraviglioso forziere che è The Work of the Dead: A cultural history of mortal remains; ci si potrebbe impiegare anni per scrutare attentamente le più di seicento pagine tempestate di preziosi dettagli.
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Non c’è notte insonne priva di speranza, infestata dalla paura per il futuro che non possa essere salvata, trasfigurata, accendendo l’abat-jour e aprendo un libro.