Chissà se, quando ha deciso di farla finita, indossava il suo cappello. Il filosofo antiaccademico, Gilles Deleuze, ormai sconfitto dai problemi polmonari – è il 5 novembre 1995 – apre la finestra del suo appartamento parigino – un gesto quotidiano, Parigi, la sua città da sempre – e si getta nel vuoto. Il suo cappello, forse, era calcato sull’attaccapanni di casa, come sempre. La camicia sbottonata, lo sguardo gentile, ma fermo. Triste. Dopo la tracheotomia, poi, la sua parola era ulteriormente ferita, “fiammeggiava”, graffiata. Forse, Gilles Deleuze si è fumato un’ultima, amara, sigaretta. O forse no. Lui, “l’ultima anima filosofica che ci resta”, secondo Foucault, ha scelto di uscire di scena, con un balzo, come Amelia Rosselli, come Primo Levi. Il modo, drammatico, coraggioso. A precipizio. Se sono passati poco più di vent’anni dal suo suicidio, ne sono trascorsi cinquanta dalla pubblicazione di Differenza e ripetizione, un libro che, a differenza di altri suoi, non ha ancora trovato piena leggibilità. Al di là di una cerchia ristretta di studiosi. Si apre, tra poco, una conversazione, a Milano, al Cafè Rouge del Teatro Franco Parenti, mercoledì 21 novembre 2018 alle ore 18 (relatori: Viviana Faschi, Sandro Palazzo, Cristina Zaltieri, letture di Stefano Ferrara). L’anniversario offre lo spunto per tornare a misurarsi con queste pagine impervie, cercando di individuarne gli snodi fondamentali e i concetti chiave.
L’ardito gruppo di ricerche sull’immaginario contemporaneo OT/Orbis Tertius si è, quindi, fatto promotore di una conversazione aperta al pubblico, nel corso della quale tre studiosi svolgeranno ciascuno delle riflessioni, a partire da un enunciato o da un passo tratto da Differenza e ripetizione, per poi discuterne con il pubblico. Intercetto l’ideatore di quest’incontro, Stefano Marchesoni, filosofo e insegnante in un liceo milanese, voglio cercare di capire. Mi interessano, oltre ai suicidi, i libri “illeggibili”, la loro ombra seducente. Leggo che “questa pietra miliare del pensiero filosofico novecentesco resta tutto sommato poco conosciuta, anche e soprattutto a causa della sua estrema complessità”. Inizierei dalla fine, ovvero dall’atto volontario di togliersi la vita. Per parlare del significato di questo gesto ultimo, estremo. Il coraggio di farsi fuori. Anche il suicidio deve essere interpretato. Una scelta forte, folle, metafisica. Quale significato attribuisce al suicidio? “Il suicidio di Deleuze è pienamente coerente con il suo pensiero. Deleuze è morto così come è vissuto: in maniera affermativa e vitale. La massima etica che orienta, fin dall’inizio, il cammino di Deleuze si potrebbe formulare così: vivi in modo tale da affermare la tua potenza di pensare e di agire. Nel momento in cui vengono meno le condizioni per poter affermare la propria potenza, nel momento in cui ci si trova a dipendere da una macchina per poter respirare (come accadde a Deleuze) oppure in cui si ha la certezza di essere destinati alla deportazione in un campo di sterminio (come accadde a Walter Benjamin), il suicidio non è più un’idea astratta, ma un’opzione da prendere seriamente in considerazione. Fermo restando che ogni suicidio resta un mistero legato alla singolarità irriducibile di un’esistenza e ad una contingenza imponderabile. Davvero il suicidio “deve” essere interpretato? Io penso invece che si tratti di qualcosa dell’ordine del non-interpretabile. Se interpretare, nel senso più triviale, significa rappresentarsi qualcosa, farsi un’idea di qualcosa, allora il suicidio è evento irrappresentabile: quell’evento di fronte al quale non c’è interpretazione che tenga, o meglio: qualsivoglia interpretazione appare in fin dei conti inadeguata e posticcia. In questo senso il suicidio è evento puro che scardina l’ordine del discorso, che fa saltare i nessi di causa ed effetto abituali, che spalanca un abisso nel fluire del tempo. Contrariamente agli esistenzialisti, che insistevano sulla libertà e la scelta, Deleuze esalta il carattere impersonale della vita: la vita non è una questione personale e soggettiva, piuttosto un divenire impersonale, anonimo, allergico alle identità e alla loro narcisistica messa in scena. Anche il suicidio, nella sua singolarità, è dunque espressione vitale impersonale”.
Scegliere di studiare Deleuze significa sacrificarsi, dedicarsi, anima e corpo. Perché lei ha scelto Deleuze? Quali sono le ragioni anche personali, personalissime, che l’hanno portata a lui? “Per quanto mi riguarda, non ho mai vissuto lo studio come sacrificio, piuttosto, seguendo Deleuze e Spinoza, come letizia, come potenziamento, come passaggio da una minore a una maggiore perfezione. Ma non c’è letizia né filosofia, senza incontri. Nel mio caso è stata proprio l’amicizia filosofica con Fabio Agostini a farmi incontrare Deleuze. Studiavamo alla ‘Statale’, frequentavamo assiduamente le indimenticabili lezioni di Carlo Sini con il quale ci laureammo: io con una tesi sull’immaginazione in Husserl, Fabio invece con una mirabile tesi sul tema dell’evento in Deleuze, che poi è diventata un libro. Anche qui, dunque, nulla di personale: quel che conta nella vita sono gli incontri, è quel che accade tra gli individui e non negli individui”.
Cos’è OT (orbis tertius): perché questo strano nome, di cosa vi occupate, cosa si intende per “immaginario contemporaneo”? “Bella domanda. OT/Orbis Tertius si autodefinisce come un ‘gruppo di ricerca sull’immaginario contemporaneo’ che afferisce all’Università Bicocca di Milano, e specificamente alla cattedra di Estetica di Fulvio Carmagnola. Direi che si tratta di un esperimento, iniziato una decina di anni fa da Carmagnola insieme a Matteo Bonazzi e Francesco Cappa. Un esperimento sfaccettato: Orbis Tertius si è fatto promotore di conversazioni tra i suoi membri sulle rispettive ricerche, ma anche di seminari pubblici, di convegni e pure di una collana ospitata dall’editore Mimesis (per chi ne volesse sapere di più rimando al sito: orbistertius.formazione.unimib.it). Il nome è tratto da un suggestivo racconto di Jorge Luis Borges (in Finzioni) e allude appunto all’immaginario e al modo in cui quest’ultimo ha effetti reali, e cioè interviene potentemente su ciò che siamo solito chiamare “realtà”. La nozione di immaginario da cui partiamo viene dall’insegnamento di Lacan: l’immaginario non è tanto una facoltà del soggetto (l’immaginazione), bensì il medio stesso in cui qualcosa come un’esperienza diventa possibile. Per usare una bella definizione di Daniele Tonazzo (autore con Matteo Bonazzi di un prezioso lemmario lacaniano intitolato Lacan e l’estetica, pubblicato da Mimesis, nel 2015), l’immaginario andrebbe inteso come “soglia del visibile” e dunque, aggiungerei, come istanza che suscita desideri. Mi viene in mente il film “Her” di Spike Jonze, in cui il protagonista si innamora della voce di un sistema operativo. Ecco, troviamo qui una possibile allegoria dell’immaginario contemporaneo: non una faccenda psicologica, ubicata nell’interiorità del soggetto, ma un insieme di dispositivi che operano incessantemente ovunque, che ci stimolano e ci fanno desiderare”.
Cosa pensa possa dire Deleuze alla contemporaneità odierna, ovvero: mezzo secolo dopo, ma è ancora così attuale? Che senso ha parlarne? “Dubito che Deleuze, come del resto qualsiasi altro grande filosofo, abbia qualcosa da dire alla contemporaneità. La domanda è piuttosto: che uso possiamo farne? Mi spiego: Deleuze era molto diffidente nei confronti della storia della filosofia, che vedeva come una gabbia angusta e soffocante, come un addomesticamento e una neutralizzazione della potenza sovversiva del pensiero. Forse proprio per questa ragione egli iniziò la sua attività filosofica proprio con dei libri che sembrerebbero libri di storia della filosofia: su Hume (Empirismo e soggettività, 1953), Nietzsche (Nietzsche e la filosofia, 1962), Kant (La filosofia critica di Kant, 1963), Proust (Proust e i segni, 1964), Bergson (Il bergsonismo, 1966) e Spinoza (Spinoza e il problema dell’espressione, 1968). Ma basta aprire il libro su Hume, scritto da un Deleuze non ancora trentenne, per rendersi conto che non abbiamo a che fare con un libro di storia della filosofia in senso tradizionale, bensì con una vera e propria ripresa dei problemi che innervano le pagine di Hume. Un po’ come se Deleuze dicesse: voglio provare a spiegarvi perché questo e quel problema di Hume è diventato il mio problema. La posta in gioco non è storicizzare Hume, ma fare filosofia qui ed ora prendendo spunto da Hume. Penso che la stessa cosa possa valere per noi oggi: può accadere di incontrare uno scritto o anche solo un enunciato di Deleuze che in qualche modo ci interpella, ci forza a pensare. E allora dove sta l’attualità di Deleuze? Dire che – come ama dire Giorgio Agamben – la vera attualità può stare solo nella nostra capacità di sviluppare quanto in Deleuze è rimasto ancora inespresso. L’idea di una conversazione a più voci su Differenza e ripetizione nasce appunto da qui: dal tentativo di ripetere insieme alcuni enunciati di Deleuze per farli risuonare nel presente, per farli interferire con il nostro presente, per trasformarli in materiale su cui lavorare. Vedremo cioè in che modo tre diversi studiosi lavorano oggi con dei pezzi di Differenza e ripetizione. In sintesi: faremo a pezzi Deleuze”.
A proposito di illeggibilità: non è che forse si tratta di una peculiarità positiva nella società contemporanea, frutto dell’esagerata informazione e delle fake news? Fermarsi a leggere, a pensare, trovarsi di fronte a una parola che disorienta, che costringe ad una lenta lunga meditazione. Perché non lo facciamo più? “Quando parlo di leggibilità mi richiamo implicitamente al pensiero di Walter Benjamin, pensatore a me molto caro: secondo Benjamin ogni oggetto storico è in attesa di essere redento, cioè di essere ricordato in modo speciale. Per citare la seconda delle sue tesi sul concetto di storia: “Il passato reca con sé un indice segreto che lo rinvia alla redenzione”. Penso che questa idea sia molto affine a quella deleuziana di “incontro”: ogni vero incontro con un testo filosofico è occasione per la sua attualizzazione. Ma questa attualizzazione non va scambiata con una moda. La “vera attualità” di cui parlava Benjamin è precisamente ciò che scardina il presente nel suo incedere, ciò che interrompe il flusso continuo di informazioni e messaggi da cui siamo bombardati quotidianamente. Ciò avviene in virtù di una peculiare forma di rammemorazione (Ernst Bloch e Benjamin parlavano di “Eingedenken” in alcuni testi che ho raccolto recentemente in una piccola antologia intitolata Ricordare il futuro, pubblicata da Mimesis) in cui vengono finalmente a palesarsi le potenzialità ancora inespresse del passato. L’anniversario di Differenza e ripetizione vuole essere per noi un momento di “Eingedenken” in senso benjaminiano”.
Linda Terziroli