
Spinoziana/2 Qualche libro per riscostruire come si deve la biografia di Spinoza
Filosofia
Luca Bistolfi
Ciò che si sa di Laozi – o Lao Tse – è che si sa niente – ciò che si sa del Daodejing – o Tao Te Ching– è che si sa niente. “Sulla storicità di Laozi molto è stato scritto e forse ancora si scriverà negli anni a venire. Gli studiosi sono infatti divisi tra coloro (oggi pochi, invero) che ipotizzano sia esistito come persona reale, vissuta intorno al VI secolo a.C., grosso modo al tempo di Confucio, e coloro (i più) che invece ritengono si tratti di un personaggio immaginario, frutto della fantasia di seguaci o simpatizzanti di quelle pratiche meditative e dottrine filosofiche classificate come daoiste”. D’altronde, anche la storia del Daodejing – il testo “non si è stabilizzato prima del II-I secolo a.C.” – “è complessa e per alcuni versi ancora oscura” (le citazioni sono dal saggio di Maurizio Scarpari al fondamentale Laozi. Genesi del “Daodejing”, a cura di Attlio Andreini, Einaudi 2004). Nel niente monta questo libro straordinario.
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Di questo libro e del suo autore non si sa nulla: essi appaiono. Come i grandi libri, sembrano lì da sempre, privi di origine, sono sempre nuovi, inesauribili. Scaturiscono da un vuoto.
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Il grande libro del Tao sfugge: il suo autore balugina in una bruma di leggenda (“Laozi coltivò la via e la virtù e nei suoi studi si sforzò di cancellare ogni traccia personale di sé”, scrive di lui lo storico Sima Qian, vissuto nel I secolo a.C.); ogni ‘morale’ tratta da questi versi, magnetici perché elusivi, è nebbia, fonte di fraintendimenti. Non agire, alienarsi dai desideri, fuggire la massa, far conto di una civiltà come di un filo d’erba, ritenere la capitale equivalente a un grumo di nuvole, definire la fama una condanna, il dominio una tortura; assecondare la natura delle cose, adattandosi spontaneamente al corso della vita. Di fatto, il Tao non offre un ‘sistema’, ci colloca nella contraddizione, è un manuale atto all’annientamento. Ma è lì, in quel niente, che scopriamo la nostra personalità autentica – il resto è un gioco di specchi, il riflesso corrusco delle interpretazioni altrui, una illusione, falsità.
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La parola di Laozi evoca la poesia: è elusiva, enigmatica, fitta di epigrafi sull’acqua. Vissuto tra XII e XIII secolo, il poeta taoista Bai Yuchan scrive: “I sentimenti del poeta sono come fili fluttuanti/ che uno dopo l’altro vanno a formare una ragnatela” (Bai Yuchan, Con il braccio piegato a far da cuscino, Einaudi, 2010). Prima di governare il mondo, il Tao insegna a governare se stessi, a non avere bisogno di nulla. Se ci si accontenta di ciò che si ha, dando ad ‘accontentarsi’ l’accezione di ‘ricchezza’, perché viaggiare alla scoperta di altre terre, perché desiderare un qualsiasi potere, perché arricchirsi di sapienza? Ogni ‘di più’ – più soldi, più potere, più amore, più sapere – corrode l’equilibrio fragilissimo, vitreo, tra cielo e terra. Il taoista danza sugli spunzoni di vetro della vita, perché in essi vede nuvole.
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Si è prediletta la dizione Tao rispetto a quella più comune, Dao, per affinità vocale con Tau. Nell’alfabeto ebraico e in quello greco tau è la lettera T, è il simbolo della Croce secondo l’etica francescana, è segno di salvezza (ricavabile nel libro del profeta Ezechiele: “Passa per la città, attraversa Gerusalemme e segna un tau sulla fronte di chi piange sugli abomini che lì si celebrano”, 9, 4). Una fratellanza lega le due vie: uno stare al mondo senza appartenere al mondano.
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Insondabile è il Tao come il Verbo cristiano, come il Logos di Eraclito: “Ma questo logos che è, gli uomini non lo comprendono mai, né prima di porgervi orecchio, né dopo averlo ascoltato”, dice il sapiente in uno dei frammenti più noti. Nel commento al brano, è lo studioso Angelo Tonelli a indicare un legame tra sapienza greca e taoismo: “Il logos-che-è, cioè la trama nascosta che fonda il mondo fenomenico e attraverso il mondo fenomenico si mostra, e al quale spetta il predicato dell’essere come segno distintivo della sua sostanzialità, è ipso facto presente dentro tutte le cose: come il Tao, le pervade” (in Eraclito, Dell’Origine, Feltrinelli, 1993). Il nome di Dio non si può pronunciare, il Tao non si può possedere, d’altronde, insegna Eraclito, “il Signore che ha l’oracolo in Delfi non dice e non nasconde, ma accenna”. Già nell’accennare c’è un accecamento che vince la norma del comprendere.
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Non c’è altra morale che appartenere a una pratica: non occorre ‘capire’, ma affondare. I versi di Laozi, coltivano l’arte del paradosso e lo stigma della sterzata per farci scattare, come uno spillo nelle pupille.
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L’icona del maestro che volge le spalle alla città preferendo i boschi – e la foresta della propria insondabile interiorità –, che domina le forze della natura perché si conforma ad esse, senza altra tecnica che la spontaneità, che riassume i contrasti, è al di là dei giudizi, in uno stato di quiete originaria (“Il non-agire si configura come una modalità per ritornare al nostro stato di natura, qual era alla nostra nascita”, Anne Cheng, Storia del pensiero cinese, Einaudi, 2000), ricorda la fuga al deserto dei primi monaci cristiani, che decrittavano Dio nella solitudine. “Affondavano nel radicale silenzio che solo alcuni loro detti avrebbero solcato, bolidi infuocati in un cielo insondabile”, così racconta i monaci del III e IV secolo, inghiottiti “nei deserti di Scete e di Nitria, di Palestina e di Siria”, Cristina Campo, grande esegeta del misterioso (in Detti e fatti dei Padri del deserto, Rusconi, 1975). “In realtà, la maggior parte di quei detti fu pronunciata per non rivelar nulla, così come la vita di quegli uomini volle essere tutta quanta la vita di ‘un uomo che non esiste’”. Questo scuoiamento della personalità per stare sulla lingua dell’essenza pare la medesima disciplina di Laozi, l’uomo che non lascia tracce ma ideogrammi che scardinano le convenienze del divenire, dissigillano il folle, pongono nel canone scatenato del radicale.
Girolamo Settanta
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20
Senza sapienza
non hai dolore
sì e ah! distano un lampo
come bene e male
rispetta ciò che è
degno di rispetto
eterna idiozia
eccitati – tutti
ospiti a una festa infinita
come chi ha un altare
nella giovinezza
soltanto io sosto
nella quiete come un neonato
che non ha sguardo
smarrito – senza patria
sono circondato di ricchi
sono l’esclusivo – l’escluso
ho i pensieri di un idiota
capriole nel caos
gli uomini sono trasparenti
oscuro mi dicono
gli uomini sono ordinati
ho casa nella confusione
vago senza riposo
sono come l’oceano
tutti hanno un ruolo
sono l’ultimo
diverso dagli altri
mi nutro dell’origine
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55
Chi morde il bene
è neonato
api e scorpioni
serpi e vipere
non lo bucano
il feroce non ha
artigli per lui
il rapace non lo squarcia
ha ossa misere e muscoli
delicati ma impugna il mondo
non sa il maschio né la femmina
ma l’erezione è perfetta
sulla cima della luce
niente lo esige al silenzio
la sua armonia è vertigine
chi sa l’armonia
è nell’eterno
crocevia di lampi
moltiplicare la vitalità è male
controllare la mente è mentire
gli esseri toccano il culmine
e precipitano nel declino
questo è negare il Tao
chi nega il Tao perisce