16 Gennaio 2021

La cultura non serve a nulla. Giorgio Colli vs. Elio Vittorini

Giorgio Colli è l’uomo che riconduce la filosofia al mostruoso, che pone la logica nell’enigma. “L’enigma appare come lo sfondo tenebroso, la matrice della dialettica… l’enigma è l’intrusione dell’attività ostile del dio nella sfera umana, la sua sfida, allo stesso modo che la domanda iniziale dell’interrogante è l’apertura della sfida dialettica, la provocazione della gara”. La dialettica è una lotta, la sapienza è un gioco mortale: chi non risolve l’enigma è lacerato, sconfitto. Ucciso. La sapienza è un movimento agonistico, la filosofia è l’agonia del desco: la sapienza crea, la filosofia ‘riflette’. Quando costruisce, per Boringhieri, la sua ‘Enciclopedia di autori classici’, Colli ragiona contro “la costrizione dello studio”: il libro è “un oggetto attraente, un rifugio e un punto d’appoggio, una fonte di vita”, scrive nella presentazione della collana. Pur essendo un supporto statico, cioè, il libro è vivente, continua a sfidare. In quella collana – autentico monumento dell’editoria italiana – i frammenti orfici, Eschilo, Gorgia e Platone stavano insieme a Machiavelli, Einstein, Stendhal, Hölderlin. Di ogni autore, nell’alchimia dei saperi – scienza, filosofia, fisica, letteratura –, Colli sceglieva il testo più conturbante, capace di cozzare contro le convenzioni del lettore: capace di vincerlo.

Il testo che qui si presenta, del novembre del 1945 – in quegli anni insegnava al liceo ‘Machiavelli’ di Lucca, dopo la parentesi a Lugano, per fuggire dalla Repubblica di Salò –, tratto dagli archivi di Colli, reagisce al concetto di cultura proposto dal ‘rivoluzionario’ Elio Vittorini. Lo scrittore, in un articolo suggestivo e confuso, pubblicato il 29 settembre del 1945 sul Politecnico, mescolando Platone e Cristo, pensando di superarlo per impeto ‘sociale’, profetizzava “Non più una cultura che consoli nelle sofferenze ma una cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini”. Dunque, una cultura serva, servile, a servizio di grandi ideali. Ma una cultura che serve, appunto, è una cultura serva. “Lo Stato non può fare a meno della cultura, neppure oggi che l’ha soggiogata, anzi tanto meno oggi”, scriverà Colli, nei suoi quaderni, anni dopo, nel 1957. “Lo Stato ha bisogno degli educatori, che agiscano secondo i suoi fini”, e poi, “Vitalità culturale… dilapidata per il dominio assoluto dello Stato sulla cultura, il quale impedisce questa società culturale e isola totalmente l’individuo di cultura, sottomettendone a sé l’esistenza”. Lo Stato ha bisogno della cultura per controllare i cittadini (forgiando un mito artefatto, e dunque un sistema di consumi, e di obbedienza al consumo), ma la cultura, in sé, invita alla rivolta, all’eversione. O a partecipare del deserto.

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Le animate contestazioni che hanno fatto seguito al rivoluzionario proclama sulla cultura, lanciato da Elio Vittorini nel primo numero della rivista Il Politecnico si sono ormai allargate a prese di posizione dottrinali, invoglianti ad un abbandono della ristretta polemica immediata e ad un tentativo di approfondimento più sostanziale nella vitalità delle tendenze. Il grido di battaglia di Vittorini, invocante “una cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini”, e rivolto in primo luogo contro “una cultura che consoli nelle sofferenze”, ha suscitato una reazione vivace da parte dei cattolici, i quali per bocca di Carlo Bo, forse spaventati dall’abisso della formula rivoluzionaria, hanno rifiutato il terreno di combattimento, proclamando che “Cristo non è cultura”. Gli ‘idealisti’, cui del pari si rivolgeva Vittorini, hanno invece affrontato coraggiosamente la battaglia, e [soprattutto] Massimo Mila (Giustizia e Libertà, 3 e 31 ottobre 1945) ha dato una tirata d’orecchie piena di garbo al rivoluzionario della cultura. Ed era naturale che così fosse, per il semplice motivo che il concetto stesso di ‘cultura’ è da un secolo [e più] in qua appannaggio quasi esclusivo degli idealisti, e che quindi servirsi del termine ‘cultura’ come qualcosa di conosciuto, onde si tratti semplicemente di determinare il fine, significa mettersi alla mercè proprio degli storicisti (come meglio ama chiamarsi Mila), che il termine stesso hanno elaborato. E allora Vittorini ha pensato, nel Politecnico del 10 novembre, di intavolare [delle] trattative con [i suoi] avversari, invitandoli anzi a divenire suoi alleati nella nuova crociata. Senonché, come sarà possibile tale riconciliazione, se Vittorini non ci dice che cosa è la cultura? Senza il suo aiuto, e costretti a considerare il termine in questione come un’incognita, non ci rimarrà che risolvere alla meglio l’equazione, trovando che cultura è uguale a Stato ideale, [oppure] meglio a struttura sociale, che non soltanto realizzi una [completa] perfetta giustizia, ma annienti e sradichi il male fisico e metafisico.

Lasciando Vittorini al suo problema, ci si può chiedere però se sia allora proprio indispensabile ricadere nell’equilibrio idealista, o se mai per avventura sia possibile tentar di scuotere il suddetto monopolio secolare, per altra via. Anche senza identificarla con lo Stato, si può forse provare una definizione della cultura che non sia precisamente quella storicistica. Agli idealisti, tanto lodati per la loro benevola obiettività, si potrà quindi dire ad esempio che la cultura, attivamente, è l’efficacia espressiva di un creatore, il suo impeto a rivivere nell’animo di altri uomini [a prescindere da una prossimità temporale o meno], attraverso arte, filosofia, scienza o religione, e passivamente, è l’assorbimento di quella creazione in chi cerca un elevato modo di vita, e non si rivolge [nella] sua scelta soltanto più a maestri ed amici in carne ed ossa. Attivamente e passivamente, si dice, perché nell’ambiguo concetto di cultura si agitano sempre una forma ed un contenuto (tengano presente, gli storicisti, i nostri sforzi di adattarci ad un modo di procedere hegeliano), cioè un creatore ed un patrimonio spirituale. Nella definizione tentata però quest’agitazione tende a placarsi, poiché colui che assorbe, se assorbe davvero, diventerà egli pure un creatore. Un ciclo insomma. A questo punto pensiamo che gli idealisti cominceranno ad impazientirsi. E lo sviluppo, la dialettica? E l’aspetto ‘oggettivo’ della cultura, che fa parlare di epoche culturali e permette la formulazione storica dei vari -ismi? Avrebbero davvero ragione di impazientirsi, perché effettivamente, secondo la nostra definizione, tutto comincia, circola e finisce nell’individualità, o nelle individualità isolate, e di un’epoca di cultura si può parlare, molto impropriamente, soltanto quando il rapporto attivo-passivo descritto si ripresenti con una certa frequenza, in una connessione cronologica, secondo un’affinità ed un parallelismo di formazione, e nella parentela vitale fornita dall’ambiente esterno. Tutto il resto, si potrebbe chiamare, secondo i vari campi, istruzione, erudizione, pensiero politico concreto, contagiosità di spiriti non originali, o in altri modi ancora, ma non già cultura.

Tornando ora a Vittorini, lo si troverà assai più lontano da noi che dagli idealisti. Che cosa è infatti, secondo il nostro modo di vedere, una cultura che ‘serve’, se non una contradictio in adjecto? Peccato però questo utilitarismo e questo materialismo in un uomo che, a quanto si può arguire dallo stile del dialogato, nel recente romanzo Uomini e no, vuol apparire un ‘platonico’.

Giorgio Colli 

Gruppo MAGOG