Il beato, spesso, è equiparato al beota. Il beato sa che ogni potere esiste per perderlo, per dissiparlo, che non esiste rischio ma continua risposta, che il potere è spaventato dalla povertà. Per questo, lo si dice beota, è alienato dal commercio, non ha relazioni, è realizzato. Il suo genio non si misura in applausi, con il metro dello stipendio, con il gregge delle amicizie doc. Egli è sconosciuto ai più, ignoto anche a se stesso, non sa cosa sia l’innocenza perché ne ha trasceso il biancore – non illumina, si lancia.
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Non cerca – non cerca nulla ed è introvabile – quando ha un pasto e nessuno a cui donarlo, senza pignolerie da puro di cuore, ringrazia.
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Di cosa devi essere felice? Di tutto. Di nulla. Il beato vive nel grazie e nel sì, in uno stato che precede Eden e le semplificazioni di bene e di male. Non è indifferente – indifeso, piuttosto. Vive l’inconciliabile, non celebra i culti, non coltiva: il suo passare ci colpisce con l’arma del se, con atrocità interrogativa, chi sei? Ci scava, con zappa di luce e vanga d’abisso. Il beato sorpassa le beatitudini, perché la purezza non ha decalogo.
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Il santo deve essere macchiato, esagitato, fuori norma, perfino violento – la santità è concessione all’eccesso. Il beato ha covo nell’insignificanza, è calibrato alla scomparsa, nell’erba vede una omelia.
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María Zambrano pubblica nel 1979 Los bienaventurados, che in italiano è tradotto come I beati. La parola spagnola ha in se l’avventura, però, la buona ventura degli avventati. Inavvertitamente, c’è un gesto di celere ferocia in chi si adagia nella cruna del creato senza domandarsi del tutto e del nulla, senza domandarsi altro.
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In cosa scorgo il beato: *in un corsivo, uno scritto che non dice ma tace, si lascia abitare e dormire, lettera per lettera, senza sanzioni o assoluzioni, sancito in una generosità priva di scopo; *nell’opera che smorza allo smarrire, il quadro che stordisce perché ti è dipinto nel nucleo vitreo dell’intestino, nel canto che ti avvolge divulgando il corpo in una corda per gli angeli; *nell’intimità di uomini passeggeri, che sperperano il nome nell’anonimato.
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Per me un beato fu frate Antonio, troppo anziano, troppo acuto, eremita di disagi e di generazioni, per stare nella furfanteria ecclesiastica. Un giorno gli feci una domanda, Spiegaci perché la povertà è un valore. Lui mi ha risposto così: “L’uomo viene dal nulla, si può essere all’origine più poveri di così? Chiunque lo desideri o lo pensi, non può pensarlo e desiderarlo per averne un vantaggio; anzi non può essere altro che un signore magnanimo che, mosso da amore ha intenzione di renderlo partecipe di quanto di meglio possiede: il Creatore gli ha dato la sua divinità e il dominio del mondo; i genitori la vita, gli amici l’amore. In questa sua verità si nasconde e si rivela anche l’aspetto regale della povertà. Finché di questa sublime gratuità l’uomo fa memoria, egli vive in benedizione. Quando se ne scorda egli è trascinato nel regno della menzogna: scambia l’arroganza con la potenza; il dominio iniquo con l’ascesa a dignità; il possesso di cose misere come ricchezza e ritiene frutto del suo genio ciò di cui con mano ladresca si è appropriato. Tanto è sublime l’uomo umile, quanto ricolo il superbo! Ezechiele, antico profeta, ci racconta il valore regale della povertà con queste parole: «Alla tua nascita, quando fosti partorita, non ti fu tagliato il cordone ombelicale e non fosti lavata con acqua per purificarti: non ti fecero le frizioni di sale né fosti avvolta in fasce. Occhio pietoso non si volse verso di te per farti una sola di queste cose e non ebbe compassione nei tuoi confronti, ma come oggetto ripugnate, il giorno della tua nascita fosti gettata via in piena campagna. Passai vicino a te e ti vidi mentre ti dibattevi nel sangue e ti dissi: vivi nel tuo sangue e cresci come l’erba del campo. Crescesti e ti facesti grande e giungesti al fiore della tua giovinezza. Il tuo petto divenne fiorente e giunta ormai alla pubertà, ma eri nuda e scoperta. Passai vicino a te e ti vidi. Ecco: la tua età era l’età dell’amore. Io stesi il lembo del mio mantello su di te e coprii la tua nudità. Ti feci un giuramento e strinsi alleanza con te e divenisti mia» (Ez. 16,2-14)”. Ascoltarlo mi sembrò bellissimo, risonante l’etica di questa nudità che è inflorescenza di fuochi, facemmo un patto di osservanza che poi si limitò al tenere per i capelli il tempo: così, sono cresciuto in arroganza. (d.b.)
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Dal fondo della solitudine e ancor più dell’infelicità, se è dato che una finestra si apra, si può, affacciandosi a essa, vedere, poiché avanzano lontani e intangibili, i beati. Essendo gli esseri perfettamente felici, si fanno presenti, si manifestano, soltanto quando l’infelicità è più profonda. Una infelicità non generica ma certa e determinata, quella che avviluppa l’essere quasi per intero, quella che investe e mette in forse l’essere stesso facendolo sentire alla mercé di tutto e di qualsiasi avversario, sul punto di sprofondare nell’avversità stessa, nell’illimitezza di qualcosa che doveva apparire unicamente come un’isola identificabile e non come un mare senza limiti di forza e di durata incalcolabili…
I beati sono esseri di silenzio, fasciati, ritirati dalla parola. Salvati dalla parola, sulla via vanno della parola unica, ricevuta e data, stata, sulla via di essere, loro, parola sola. Fasciati come bozzoli, irriconoscibili, lenti. Ma, per chi li guarda da fuori, e tutti li guardano da fuori in linea di principio, la loro lentezza risulta ingannevole. È necessario prendere coscienza di questi esseri allo stato puro, forme, figure dell’essere, categorie, dunque, dell’essere nell’uomo sulla via che lo porta ad attraversare l’ultima frontiera. Esseri di silenzio, sofferenti tutti, passivi ma non ermetici. Stanno lì, dolcemente, così immediati e remoti a un tempo. Per avvicinarsi a loro, tocca partecipare in qualche modo della semplicità che è la loro condizione, della semplicità che li ha presi per sé.
Sofferenti, dolenti e terribili quando si vuole abbordarli ed entrare in discussione con loro; quando qualcuno si lancia alla cieca dev’essere per trattarli a modo loro, gli si mostrano come fuoco, come liscia foglia di freddo acciaio, come qualcosa di intangibile. Sono intangibili, inaccessibili, perché sono. Esseri già identici a se stessi, nel che si distinguono dal santo, poiché il santo patisce e arde per essere un beato, alcuni, almeno, già invisibilmente: alcuni, gli eroici. Il beato manca di virtù eroiche, e manca di virtù come manca di parole perché non sta più nel regno del discernibile.
María Zambrano
*il testo è tratto da: María Zambrano, “I beati”, SE, 2010, a cura di Carlo Ferrucci