06 Giugno 2022

Contro la recensione, “territorial pissing” intellettuale, affare da insetti burocratici

Censire parole con parole. Misurarle col righello, non valersi di cesello. È questo realizzare una recensione. Peccato senza trasgressione. Arte che si fa mestiere. Officio declassato a tristo ufficio. Esegesi del cicaleccio, vaniloquio, chiacchiera da circolo di lettori smidollati, scampolo di provincialismo editoriale.  

Recensire libri è affare da manicure della letteratura. Scialba inanità, dozzinale pettegolezzo laccato di glamour. Eccitante come un dovere coniugale, la recensione di un libro ne decreta la morte, ne è l’epitaffio, si fa necrologio.

Il recensore, insetto burocratico più operativo che operoso, laico predicatore senza vocazione svezzato a suon di marchette editoriali, frustrato redattore della sezione cultura – troppo pavido per la cronaca e poco smaliziato per la politica – o lettore pantofolaio glassato di patina intellettuale, con velleità di velluto, tutto morbidezze da beau-monde.  

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La canonica recensione deprime il lettore e avvilisce l’autore. Ogni accenno di trama è uno sfrontato esercizio di volgarità, ogni personaggio menzionato, un passo vacillante verso il burrone della noia.

Delitto perpetrato ai danni del volume recensito e quindi bollito – sventure della virtù! – risulta attenuato solo se si tramuta in piume di letteratura, in prosa breve.   

Diversamente, diventa gesto trash. Emulazione fallita di un modello alto. Della cosiddetta critica d’autore, positiva o meno che sia. Del Manganelli che manganella il becerume papiniano, dell’isterica spirale in cui Gore Vidal stronca Capote, a sua volta stroncatore di Kerouac; del dandy di Voghera, un colpo di frusta alla signora Woolf e un altro ai grevi personaggi del Verga. Quindi, Arbasino, Gita al faro o I malavoglia? Se la sbrighi il lettore, che scelga il meno peggio, qui tutto si snobba con educato disgusto.

Tempus fugit, però, e la recensione d’autore va al passo coi tempi. Così lo squallido teatrino della Ciabatti che loda la Valerio, che accarezza la Murgia, mentre incipria la Parrella. La recensione è d’autore, sì, da copertina, belletto da vetrina, muffa con essenza di magnolia, parola tirata a lucido per l’occasione, pronta a opacizzarsi una volta chiuso il giornale in cui dimora.

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La recensione, in fondo, è un Lorenzaccio, quel gesto che nel suo compiersi si disapprova. Dovrebbe capirlo anche il recensore più imberbe. L’unica soluzione, una volta realizzata, sarebbe rinnegarla, riconoscerne la mestizia della compilazione, l’estro impiegatizio, la cattedratica posa da docente liceale con pretese di pedagogiche moralità.

La recensione, cerimonioso cerimoniale, confortante ritualità, andrebbe bandita, per pubblico decoro, se non a livello costituzionale, almeno dalle riviste letterarie, a partire da quelle pervase da spirito corsaro.  

Raccontare un libro, soprattutto se di autore vivente, è pratica mortificante, a meno che non se ne decostruisca la storia per costruirne attorno un’altra, facendo inalare al lettore gli effluvi di un mondo ignoto, il bagliore di un confronto, lo scintillio di una lotta, l’ombra di un enigma, la tenebra d’un pensiero, totalmente assente, quest’ultimo, nel romanzo contemporaneo, appannato da sguaiato narcisismo.  

Che non sia, quindi, mera operazione di territorial pissing intellettuale, ma restituisca una visione del mondo, fuori dalla frizione delle mode.

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No, please, ad improvvide improvvisazioni da critici letterari alla Edmund Wilson quando l’eco di Vanity Fair non è che un rimando neuronale alla rubrica tenuta dall’esperta di armocromia. Niente giochi da parolieri da salotto se privi dell’ironia garbata di Irene Brin o dello sferzante umorismo di Annie Vivanti. Condizione essenziale per mostrare l’abisso della superficie è velarsi di frivola leggerezza, ingioiellarsi di parole. A coprire un’essenziale nudità, pagine adagiate sulla pelle come stole di zibellino.  

Sì alle descrizioni meta-arbasiniane solo se la recensione è redatta dai campi elisi di ville patrizie, fasciati in camicie paisley, taglio uomo per ambo i sessi, portate à la garçonne, privi di lingerie, in una fluttuante androginia. O la magia non si compie.

Dedicarsi altrimenti alla botanica, stile Sackville-West o all’alta cucina, come Rex Stout.

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Allo scialacquare tempo e verbo per recensire i vivi, preferire un’escursione tombale, ridestare spiriti di autori dimenticati, editare l’inedito, tradurre brandelli di carne deteriorata, meno avariata dell’insipido attuale, letteratura che “popola un limbo di quello che non merita di essere pubblicato, e neppure di non esserlo”, per dirla con Gómez Dávila.

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Abbandonarsi, infine, senza timor di inimicizia, alla stroncatura. Impresa decorata di sconvenienza, ornata dalla decenza dell’indecenza, più discinta che distinta, guizzo di puro piacere, non orgasmo orchestrato dal recensore, libero vagabondaggio, non viaggio organizzato né gesto ormonale, dettato da lunari malumori. Atto di sprovincializzazione letteraria riccamente gradito su queste pagine. Da praticare prima che venga declassato a barbaro book shaming, prima che il gesto critico venga etichettato come condotta tossica e offensiva nei confronti di un dato genere di autori o lettori.

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Lo si può fare con feroce grazia, come Edmund Wilson, che nel 1923 accusava gentilmente l’amico Allen Tate di ricalcare senza originalità la poesia del maestro T.S.

«Caro signor Tate, sono rimasto sinceramente incuriosito dalle sue poesie – comprese queste ultime, ma penso che sia ancora troppo viva in lei l’influenza di alcuni – in particolare quella di Eliot e, mi sembra, in questo caso, di E. E. Cummings. Di certo pare esserci qualcosa di autentico, che nonostante tutto restituisce al suo lavoro potenza e godimento a prescindere da ciò che lei prende in prestito da altri. La ringrazio per averle sottoposte alla mia attenzione. Non vedo l’ora di ricevere da lei qualcosa di straordinario. Ma cerchi di uscire dalle grinfie artistiche di T. S. Eliot».

Se le avesse inviate a un redattore de La Lettura ne avrebbe guadagnato un entusiastico paginone.

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