23 Marzo 2019

Il problema non sono i dieci milioni di poeti della domenica, ma quella decina di arrivisti e di arrapati, di famelici della fama, di portaborse, che pensano di essere poeti e fanno carriera

Silvano, l’amico pieno di spilli, il giorno della Giornata mondiale della Poesia, quello in cui tutti dicono quanto è bella la poesia e salutare e salvifica, mi gira un articolo pubblicato su La Verità. Titolo: “In Italia dieci milioni di aspiranti poeti ma nessuno legge più Leopardi e Omero”. L’oggetto della mail, pressappoco, è questo: all’aspirante poeta. L’articolo è pieno di buon senso e di alati cliché. Da sempre, in troppi scrivono – perfino romanzi – e troppo pochi leggono.

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In realtà, che “dieci milioni” di italiani scrivano poesie non è un problema, anzi. Meglio una poesia, pur brutta, di un mitragliatore, che male c’è? Si appesta l’aria estetica ma non si uccidono innocenti. Che uno scriva i propri pensieri istoriandoli sul torso del tramonto o sul ghigno della luna senza leggere, studiare, capire, non mi sorprende: tanti giocano a calcio la domenica, con gli amici, senza applicarsi. Più che poesia, quello è sgranchirsi il cuore, notoriamente grave di buoni sentimenti.

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Certo, poi i “dieci milioni” si mettono pure a pubblicare, togliendo il posto al sole ai quattro ‘laureati’, possono farlo, nessuno rifiuta gli stracci in versi al giusto prezzo. Anche in questo caso, chi ha paura dei “dieci milioni”? La poesia ha natura inafferrabile e bastarda, da sirena con muso di Cerbero: col romanzo puoi fregare il prossimo – per me è ancora un mistero il fatto che uno come Catozzella pubblichi per Feltrinelli, per dire. Con la poesia no. La poesia sceglie i suoi. Indipendentemente dalle griffe editoriali – che da un paio di decenni, ormai, non hanno alcun ruolo, se non parziale, nell’autenticare un’opera poetica – e dalle gaffe della critica.

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La natura della poesia è inafferrabile e bastarda. Nessuno può riconoscere una grande opera poetica perché si riconosce – che ovvietà – soltanto ciò che già si conosce. Eppure, è vano recitare la parte dell’incompreso: qualcuno che ti comprende c’è sempre. La fama, in poesia, è un paradosso, c’è da averne paura.

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In poesia, intendo, si è sempre aspiranti, si aspira all’ispirazione – non si è mai arrivati, si è ispirati soltanto a momenti. In fondo non si acquisisce mai lo statuto di poeta – eccolo, il poeta. Non c’è status, ma stato. Lo dice W.H. Auden, uno che, indubitabilmente, riteniamo un poeta, tra i grandi: “Agli occhi altrui si è poeti se si è scritta una bella poesia. Ai propri, lo si è solo nel momento in cui si danno gli ultimi tocchi a una poesia nuova. Un attimo prima si era ancora e soltanto un poeta in potenza; un attimo dopo si è uno che ha smesso di far poesia, forse per sempre”. Un poeta non fa teatro: se gli dicono che è poeta, fugge la didascalia, fa esercizio di contraffazione, si nasconde, agita una mania di ombre, e fa bene, perché la poesia è più importante del poeta.

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Per questo, si è sempre aspiranti: chi fa della poesia una professione sa di mentire. Si vive poeticamente, semmai, non si è mai poeti. Vivere poeticamente, ad esempio, significa sperare nel successo di un altro e armarsi per aiutarlo più che percorrere il proprio – negarsi la carriera lirica, percorrendo tutte le contraddizioni (senza perpetuare il male altrui) per il gusto di scrivere un bel verso, per regalarlo al primo che passa. Un poeta non ‘sistema’ la propria opera – la stabilisce. Poi la dimentica – c’è un certo vizio, una malattia maliziosa nei poeti che recitano a memoria i propri versi, una spudoratezza a cui bisogna rispondere domandando a costoro se conoscono a memoria la ‘Commedia’, il Canzoniere, l’opera di Leopardi, quella di Pasternak e di Brodskij, ad esempio.

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La necessità di insegnare poesia nelle accademie è di tipo meramente cerebrale. Chi non conosce la poesia resta, nonostante il talento, un sommo cretino. “Dall’incapacità di pensare in modo poetico – ossia di risolvere il discorso nelle sue immagini e nei suoi ritmi originali, per poi ricombinali a più livelli di pensiero simultaneamente, ottenendo una molteplicità di significati – deriva l’incapacità di pensare con chiarezza in prosa”, scrive Robert Graves, consapevole che “in prosa si pensa a un solo livello alla volta”, che la prosa è spesso “un susseguirsi meccanico di gruppi di parole stereotipati”. Non pensare in modo poetico – anche sul piano ‘politico’ – vuol dire arrendersi ai limiti della grammatica e della visione suprrficiale, non trovare soluzioni sontuose a superare l’impasse, appiattire il nostro destino. Per questo, la necessità di insegnare poesia nelle accademie. Ma apprendere una tecnica – va da sé – non significa fare un poeta. Il linguaggio ha un destino proprio, per questo la poesia, spesso, accade tra gli incredibili, gli incolti, gli strambi.

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Il problema, in effetti, non sono i “dieci milioni”, ma le decine di poeti arrivisti e arrapati, famelici di fama, che fanno i portaborse dei manager della poesia per scavargli la fossa e sostituirli.

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Undici anni fa la poesia era sputtanata, ieri come oggi come sempre. In un impeto di nitidezza, tentai una sintesi censendo nove poeti che celebrassero la poesia del futuro. L’antologia, pubblicata da Città Nuova, s’intitola La stella polare: poeti italiani dei tempi “ultimi”. Ultimo s’intendeva, anche, a mo’ di stimolo estetico: il poeta è quello che è al di là, che scrive parole ultimative, non ulteriori. I nove poeti stavano a indicare nove modi della poesia italiana recente, destinati a durare (ergo: non ho antologizzato chi è prossimo alle mie preferenze liriche, soprattutto chi è diversissimo). I poeti sono questi, e mi pare che siano ancora tra gli eccellenti: Maria Grazia Calandrone, Pierluigi Cappello, Francesca Serragnoli, Riccardo Ielmini, Simone Cattaneo, Isacco Turina, Federico Italiano, Alessandro Rivali, Isabella Leardini. Il più giovane degli antologizzati è più vecchio di me: sono un megalomane della glossolalia.

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A questo gesto che mi pare necessario – orientare: il titolo è tratto dal Giulio Cesare di Shakespeare: “fermo come la stella polare/ che per solida fissità e resistenza/ non ha pari nel firmamento” – e di netta ferocia – mi rileggo: “Quella del baciapile è una categoria dura a morire. Una folta falange di poeti ‘di vent’anni’, che oggi sono uomini di trenta e non più coccolati e vispi Lautréamont del circolo, opera come se dovesse costruirsi la carriera da poeta in cattedra. Hanno trent’anni, ma è come ne avessero ottanta” – ora se ne associa un altro, altrettanto necessario. Rileggere l’egemonia di un canone di cartapesta, da fette di salame sugli occhi. Lo ha fatto Silvio Raffo, che in una antologia impressionante delle “Poesie del Novecento”, Muse del disincanto – in uscita per Castelvecchi – rovina le sacre premesse dei critici da mausoleo, dei poeti da monastero delle cose consuete. Così l’introduzione di Raffo (sul libro, tornerò più avanti): “Accade spesso, più o meno sempre, che i “mostri sacri” – quelli appunto consacrati dalla tradizione ma anche dalle mode culturali – detengano nettamente il primato, di presenze e di spazi, rispetto a nomi di altrettanto indiscutibile valore, che per diversi e a volte incongrui motivi – di rispondenza o non rispondenza ai canoni e ai gusti della critica militante e delle cosiddette tendenze – vengono relegati a ranghi di insignificante livello. L ’assenza di certi nomi dalla quasi totalità delle antologie, così come la sproporzione del numero di saggi critici sulle distinte opere di autori di pari valore, mi è sempre parsa una sorta di discrasia lesiva di un’oggettiva valutazione critica in un’area così ricca di sfumature tutte apprezzabili, specie se si pensa alla prima metà del secolo. (Nella seconda alla quantità assai maggiore dei nomi non corrisponde certo la qualità dei risultati). In quest’antologia è dedicato uno spazio più o meno equivalente a poeti come Montale e Lucio Piccolo, come Ungaretti e Bigongiari, o Quasimodo e Libero de Libero. Insomma, si è cercato di abbattere l’usuale e spesso ridicola barriera che separa i “maggiori” dai “minori”, richiamando l’attenzione anche su questi ultimi”.

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Intendo: la corruzione non è nel gesto di uno dei “dieci milioni” di poeti della domenica – che magari è avventato, magari avveniristico – ma nel sacrario editoriale di chi pensa che la poesia sia cosa domestica, raggiunta.

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“Della poesia si dice sempre l’agguato, lo stravolgente, il nudo, la bambina che si alza la gonna e riempie di stupore alcuni e di colpa altri”, ritaglio da una lettera di Silvia Bre, poeta. Cos’altro c’è, appunto? Agguato, travolgente, nudità, bimba che fa fionda della gonna, l’aggraziato e l’osceno, la gloria e lo scandalo, l’indifeso. Appena l’accarezzi, e la poesia ti è in gola – che differenza parziale c’è tra vipera e vita. (d.b.)

*In copertina: W.H. Auden con Benjamin Britten, 1941, National Portrait Gallery, Londra

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