“Esistono spiriti liberi e coraggiosi a cui piacerebbe non ammettere che hanno un’anima a pezzi, tracotante, incurabile. A volte, impazzire è un travestimento, per chi ha certezze troppo infelicemente sicure”.
Incestuosa adorazione o opportunistico culto fraterno?
La domanda germoglia spontanea, leggendo Niente di vero (Einaudi), ultimo libro di Veronica Raimo, classe 1978, sorella del noto guru della sinistra massimalista, “assessore alla Cultura al Terzo municipio di Roma”, aspetto che l’autrice ci tiene a ribadire fin dalle prime pagine, in omaggio a quella consueta dinamica capitolina che rende una presentazione fra estranei una dichiarazione di redditi, immobili, genealogia, cariche istituzionali e quartiere di residenza. Perché un cognome, nell’eterna città – prezioso passepartout – può aprire più porte di San Pietro.
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Nel memoir familiare della Raimo, di diaristica noia, si staglia infatti, titanica, la figura di suo fratello – l’assessore tutto Dio, Freud e Matteotti – di cui l’autrice rimarca, fino allo sfinimento, le geniali abilità logico deduttive, l’inclinazione poetica, la destrezza politica. Quello con il Raimo maggiore – uomo sempre pronto a disquisire di testi orwelliani, storia del comunismo o scismi religiosi – è un legame che profuma di venerazione, ossequio, alleanza di penne e intreccio di genetiche ipocondrie, ma anche un groviglio creato ad hoc per ingannare, tradire se stessi e il mondo editoriale che circonda la rinomata coppia.
“Fino a quel momento il fatto che fossimo tutti e due degli scrittori si era rivelato un reciproco vantaggio. Non è che ci spalleggiassimo a vicenda, ma eravamo complici di un costante mercimonio. Negli anni ci eravamo subappaltati articoli, recensioni, prefazioni, postfazioni […] persino interi racconti e ispiratissimi versi”.
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Questa fusione fraterna, sanguigna, si spinge fino a toccare i margini della contraffazione giornalistica. “L’unica vera marchetta che abbia mai fatto in vita mia è stata opera di mio fratello”, scrive infatti Veronica Raimo. Vuole stroncare una nota scrittrice, l’editore glielo nega caldamente e lei gli rifila una recensione di fraterno pugno.
Ed è in questa creatura bifronte, camaleontica, interscambiabile, che risiede l’aspetto più letterario – forse l’unico degno di nota – di Niente di vero, la cui velleità, nitidamente dichiarata – e pertanto già tradita, disattesa – sarebbe quella di sabotare ironicamente il romanzo di formazione, ma il cui risultato si riduce a trito piattume – e pattume – contemporaneo, buono per un podio Strega, ed infatti prontamente endorsato verso il liquoroso premio da Domenico Procacci, che forse già ne immagina una mucciniana trasposizione cinematografica con famiglia nevrotica e liti d’ordinanza.
Niente di vero, con la sua banalità generazionale, va ad aggiungersi alla coda formata dai vari Teresa Ciabatti, Mario Desiati, Luca Ricci et similia, pagine buone per sventagliarsi in terrazza, durante una di quelle feste tanto care al sottobosco politico-culturale capitolino – roccaforte fraterna – in cui gli intellettuali engagé si mescolano ai palazzinari abbronzati e fra un bicchiere e un canapè si pratica mecenatismo da salotto.
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Il canovaccio è quasi sempre lo stesso, scrittura monocorde spacciata per sovversiva, cliché da famiglia ordinaria dipinta come disfunzionale, tradimenti coniugali, sedute di psicanalisi, amici con attici da rentier e velleità da sottoproletariato, gente che crede nell’agopuntura, quartieri gentrificati, narrazione soft di una qualche esperienza erotica, temi che sollazzano il coté progressista, aborti e femminismo sparpagliati fra le pagine con finta casualità.
E la Raimo le prova tutte per non sfigurare. L’aspirante Fleabag del Terzo municipio – il confronto è d’obbligo in quanto venduto dal suo stesso editore – tenta la carta del dissacrante, anelando all’umorismo di Phoebe Waller-Bridge, provando forse ad acquisirlo per osmosi tramite un binge-watching dell’omonima serie tv. Un paio di episodi narrati nel libro, sembrano infatti di chiara “ispirazione” della dark comedy, ma scorporati dello humor britannico che la contraddistingue, con il disastroso risultato di una lagna in salsa italiana, più simile a una telenovela sudamericana atta a commuovere gli animi delle colf durante la pausa pranzo.
Se in una puntata di Fleabag, la sua protagonista viene infatti sorpresa dal fidanzato dormiente a masturbarsi sotto le coperte, eccitandosi di fronte ad uno speech di Obama e pronta a regalarsi un orgasmo liberal, la Raimo finisce per narrare la stessa scena in maniera talmente didascalica da rendere la pratica autoerotica un consiglio buono per assopirsi. Masturbarsi aiuta a dormire – pare voglia suggerire la Fleabag nostrana – come se ogni insonne non ne fosse già al corrente. Per rendere il tutto più originale avrebbe potuto forse sostituire l’ex presidente americano con l’adorato fratello, eccitarsi dinanzi a un comizio sulle politiche culturali o la pavimentazione stradale, magari godere sulle eroiche gesta di un assessore che si batte contro lo sgombero di un campo rom o un’occupazione di migranti.
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Ma l’apice della stitichezza letteraria – visto che l’autrice ci tiene a rendere partecipe il lettore delle disfunzionalità del proprio apparato gastrointestinale – lo raggiunge durante il racconto della sua interruzione volontaria di gravidanza, avvenuta in età adulta, accompagnata per l’occasione, of course, dall’onnipresente fratello.
Anche in questo caso, mentre Fleabag fa sconfinare il tema dell’aborto nell’arena del politicamente scorretto – la scena è emblematica, la protagonista assiste sua sorella mentre abortisce nel bagno d’un locale durante una cena di famiglia, per poi tornare entrambe a sedersi a tavola – la sua wannabe romana lo appesantisce, lo politicizza, lo confina nell’ambito del progressismo a tutti i costi, quello per cui l’emancipazione femminile passa per la libertà di contrassegnare una vita umana come “materiale del concepimento” ed etichettarne l’eventuale sepoltura come “film dell’orrore”, frutto della “destra italiana unita al cattolicesimo antiabortista”.
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La Raimo è ben accomodata fra le poltrone d’una cricca di autori segnati da un atteggiamento trattenuto, tristemente assertivo, privo d’ogni forma di ironia, che fa della propria noia una posa esistenziale e si nasconde dietro il velo della precarietà moderna, come se questa non fosse una scelta di lusso, un modo per allontanare ogni forma di responsabilità o il vivere stesso.
Che una voce si levi fuori da questo piccolo coro che ama raccontarsela a modo proprio è cosa rara, ma basta rimanere in casa Einaudi per incrociare quella di Fuani Marino – partenopea, classe 1980 – penna spietata, di efferata autoironia.
“C’era stato come uno scollamento fra i miei desideri e i miei bisogni. Mi ero diretta verso quanto la società si aspetta da una donna di trent’anni: la carriera e contemporaneamente la creazione di una famiglia. E questo mi aveva distrutta. […] Era ottimista, Virginia Woolf a credere che a una donna, per scrivere, potesse bastare una stanza tutta per sé. Forse perché in casa sua non c’erano bambini”.
Mentre la Raimo porta lo stendardo di una generazione di pavidi, Fuani Marino ne porta la croce, ma facendosi beffe di sé. Ad accomunarle, l’espressione di una rinuncia, una per la vita che sceglie di non mettere al mondo, l’altra per la propria, dopo la nascita di sua figlia.
La protervia incolore della Raimo cede rovinosamente sotto il giogo ironico e affilato di Fuani Marino, che ride nell’oscurità, del vuoto sotto i piedi, non ha paura di assumere posizioni estreme, provocatorie. Moderna Partenope, la sua scrittura è libera e viva e mentre i coetanei veleggiano legati al palo della nave, trattenendo istinti e passioni, non si limita a lambire l’esistenza, ne sperimenta le scomodità, senza paura di sdraiarsi, per sempre, nel blu.
Brancola nel dubbio, Fuani, mentre l’altra sguazza, in maniera preteregocentrica, nel proprio narcisismo. “Scrivo cose ambigue e frustranti”, dice di sé la Raimo, mentre fa l’esegesi del proprio io, si recensisce allo specchio, questa “scrittrice che in Italia non c’era” – come scrive di lei il suo editore – e di cui onestamente non si avvertiva la mancanza.