CESARE
«Roma è un crocchio di giovanotti che attendono per farsi lustrare le scarpe». È il primo gennaio 1950 quando Cesare Pavese annota sul diario questa frase tagliente e liquidatoria, che è soprattutto il segno del suo scoramento. «Roma tace – scrive –. Né le pietre né le piante dicono più gran che». Passeggia in una mattinata di bel sole, ma non ritrova più le emozioni di appena tre anni prima, quando è sceso nella capitale l’ultima volta, ancora pieno di «vita, stupore, tensione», come se fossero passati dei secoli. Non trova «niente di nuovo», dentro e fuori di sé. Eppure, la sera prima, a casa di una coppia di amici torinesi, ha conosciuto Constance Dowling, l’attrice americana che sarà il suo ultimo, disperato amore. Bella, estrosa e sensuale, l’attrice americana (meno dotata artisticamente della sorella Doris, anch’ella in Italia per girare Riso amaro) è reduce da una lunga e tormentata relazione con Elia Kazan, interrotta perché il regista americano non era intenzionato a lasciare la moglie. Ha recitato a Hollywood in ruoli e film non memorabili, e siccome la sua carriera stentava a decollare, è venuta in Italia in cerca di successo. Ma stranamente non c’è traccia di questo primo incontro nel diario di Pavese.
Bisogna aspettare il 6 marzo, con la vacanza a Cervinia per trovare il primo riferimento alla donna: «l’orgasmo, il batticuore, l’insonnia» lo tormentano, annota nel suo diario, ma allo stesso tempo è animato da «un senso di fiducia, di (incredibile) tranquilla speranza». Non si sentiva così da quando aveva venticinque anni, confessa. «Ti amo», le dichiara:
«Di questa parola so tutto il peso – l’orrore e la meraviglia – eppure te la dico, quasi con tranquillità. L’ho usata così poco nella mia vita, e così male, che è come nuova per me».
Per Connie, in quel mese di marzo, Pavese scrive le sue ultime poesie, quelle di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, e per lei, soprattutto, dedica i suoi ultimi giorni al tentativo ostinato di trasformarsi in uno scrittore di cinema. Pavese spende infatti i pochi mesi che lo separano dalla morte per suicidio a stendere soggetti cinematografici mai realizzati, rinunciando a scrivere romanzi, nonostante la consacrazione unanime ricevuta per gli ultimi libri. «Ho già imparato nella vita – scrive a Connie – a fare il traduttore, il poeta, il critico, il narratore, il correttore di bozze, il consulente editoriale, l’insegnante – tutte cose che a vent’anni non sapevo. Posso imparare a fare anche questo».
Del resto, tutto ciò che ha fatto nella sua vita, Pavese lo ha fatto per una donna: dal suo coinvolgimento nella causa antifascista fino ai suoi maggiori lavori letterari. Ma stavolta è diverso. Constance è l’amore, ma non solo. È tutto il suo passato: è l’America, la poesia, la giovinezza perduta. Eppure, in questa scelta tardiva di rinunciare alla narrativa (proprio mentre sta ancora per ultimare quel romanzo struggente, di classico nitore, che è La luna e i falò), per buttarsi anima e corpo nella scrittura cinematografica, è impossibile non vederci qualcosa di punitivo, di castrante, di autodistruttivo, che dietro l’alibi dell’innamoramento sta già spingendo lo scrittore a una rinuncia più profonda e radicale, verso il suo inesorabile «viaggio nel regno dei morti», come dirà egli stesso due giorni prima di suicidarsi all’amico Davide Lajolo.
Il primo soggetto che scrive per Connie e Doris Dowling, Breve libertà, è la storia di due sorelle innamorate dello stesso uomo, un pregiudicato senza scrupoli che finirà ucciso in un conflitto a fuoco con i carabinieri, dopo esser stato denunciato proprio da una delle donne, pensata sul modello dei gangster-movies americani degli anni Quaranta, ma con qualche eco del mélo popolare alla De Santis. Il soggetto non trova acquirenti, nonostante gli sforzi di Doris per piazzarlo, e ad aprile Constance decide di ritornare in America. Pavese intuisce che è l’inizio della fine. Nel diario, l’8 maggio, annota:
«È cominciata la cadenza del soffrire. Ogni sera, all’imbrunire, stretta al cuore – fino a notte».
Lei gli scrive: «I’ll never forget you» e lui va nel panico. Come interpretare quella frase? «Questo si dice a chi ha intenzione di mollare», pensa. Sono giorni di angoscia. Per strada, Pavese si sorprende a parlare da solo, in inglese, come se non interrompesse mai la sua conversazione con Connie. Onnipresente, l’ombra nera della sua frustrazione sessuale, l’ossessione del fallimento lo perseguita, come sempre.
Eppure, non smette di lavorare: il consenso critico su La luna e i falò, fresco di stampa, avrebbe esaltato qualsiasi scrittore, ma non lui. Vuole solo lei, la ragazza americana, il «viso di primavera», e la vuole per la vita.
«Essere un genio – scrive a Doris il 4 maggio – è una magra consolazione: sarebbe meglio per me essere un gatto a New York, una rondine nel Maine, una piccola formica sotto l’impiantito d’una certa casa in California».
Per non perdere la donna che ama, per farla tornare ha solo un modo: scrivere un film da realizzare, con lei come protagonista. E così, mentre il mondo letterario italiano lo consacra tra i massimi narratori viventi, lui continua ad accanirsi su improbabili e fallimentari soggetti cinematografici.
Stimolato dalle proposte di Doris – che è rimasta a Roma – progetta altri due abbozzi: uno per Maurice Chevalier con la regia di De Sica; l’altro per Jean Gabin. Scrivendoli, Pavese è attraversato da molti dubbi tecnici, consapevole di essere, nonostante tutto, un soggettista dilettante, uno sceneggiatore improvvisato. Ed è davvero penoso seguire gli sforzi che compie in questi frenetici giorni, nel tentativo di negare il suo statuto di scrittore, così come penosa è la sua ossessiva ricerca di produttori, e la triste sequela di progetti abortiti, finiti nel silenzio, nell’indifferenza dei possibili committenti, pur di compiacere la donna lontana e farla tornare da lui. E mentre Constance condiziona apertamente il suo ritorno alla possibilità d’interpretare un film, Pavese è riassalito dal pensiero ossessivo del suo «vizio assurdo»:
«In fondo, in fondo, in fondo – scrive il 13 maggio – non ho colto al volo questa straordinaria avventura, questa cosa insperata e fascinosa, per ributtarmi al mio vecchio pensiero, alla mia antica tentazione – per avere un pretesto di ripensarci…? Amore e morte – questo è un archetipo ancestrale».
Pavese sa, sente che a modo suo è già «entrato nel gorgo». L’8 giugno comunica a Doris: «Ho pensato un altro soggetto per le due sorelle, uno raccapricciante, (…) ha per tema “il suicidio” visto come un modo di vita contemporaneo». Un soggetto che è destinato a restare allo stadio embrionale, ma il suicidio torna, pochi giorni dopo, a chiudere il film progettato per Chevalier, riscritto con il titolo Il serpente e la colomba. In questa storia di perdizione, che si chiude con il suicidio della protagonista, una «semplice ragazza travolta dalla città», costretta alla prostituzione, l’ambientazione neorealista pensata su misura per De Sica, fatta di «caffè, pensioni, negozi, vie cittadine e interni borghesi», è inquinata da un’atmosfera «ossessionante», e il suicidio finale di Linda – che brinda a se stessa davanti allo specchio con un bicchiere di veleno – sembra chiudere un cerchio.
Appena concluso, Pavese scrive:
«Ora il lungo compito è finito e sono pieno di desideri immortali. È brutto sentirsi come un’aquila in gabbia, ma non c’è scampo».
Anche Il serpente e la colomba non diventerà mai un film. Ma Pavese non demorde: con un accanimento masochistico, continua a considerare il cinema come la sua ultima spiaggia, la sua occasione, il suo appiglio, mentre La bella estate, il 24 giugno, stravince il Premio Strega, sbaragliando con 121 voti la concorrenza di Curzio Malaparte, Nicola Lisi e Concetto Marchesi. È un’«apoteosi» – come lo stesso Pavese scriverà giorni dopo nel diario – la consacrazione definitiva come letterato (quel letterato che lui non vuole più essere). Ma a Roma, ad accompagnarlo per ricevere il premio al Ninfeo di Villa Giulia, ci sarà Doris, non Constance. E la letteratura non gli interessa più. I premi e la mondanità men che meno. Il 6 luglio comunica a Doris: «Lavorare per le sorelle è tutto quello che mi resta ora». Per il resto, si sente «come un uomo a cui tortuosamente si dice che ha il cancro», perché sa che Connie è perduta, che «non tornerà mai». Sprofonda in una crisi depressiva che lo allontana da tutto e da tutti, al punto che quando, il 26 agosto, l’amico Mario Motta gli annuncia l’imminente e inatteso ritorno dell’«americana», lui risponde, laconico, lapidario: «Ho altro da pensare».
Il giorno dopo, nella notte tra il 27 e il 28 agosto, la sua storia umana e artistica si chiude in un albergo alla stazione di Torino, con ventidue bustine di sonniferi e delle cialde lasciate sul lavandino. Lo scrittore è arrivato in albergo la sera prima e dalla camera ha fatto numerose telefonate. Inviti a cena, richieste di compagnia ad amiche. Puntuali, i rifiuti delle donne. L’ultima telefonata l’ha riservata a una ragazza conosciuta qualche sera prima in una sala da ballo. «Non vengo perché sei un musone e mi annoi», si è sentito rispondere, prima di rinunciare ad altri tentativi. E del resto, il dado era tratto. Nessuna cena galante, nessuna compagnia l’avrebbe potuto salvare. Nemmeno Connie, la donna venuta dal mare.
«Non ci si uccide per amore di una donna – aveva scritto tempo prima – Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità».
I suoi «abborracciamenti di soggetti cinematografici», nati per amore di una donna, non sono mai diventati dei film. Ma in quel cinema immaginato e mai realizzato, tutto costruito attorno a un fantasma d’amore, alla sua fisicità tormentosa e alla sua inafferrabilità, in quel cinema mentale, ma fatto di corpi e di oggetti (dove la biancheria buttata su un paravento può avere una «tristezza oscena»), Pavese ha travasato in pochi giorni le ossessioni di tutti i suoi romanzi: la donna, il sangue, l’omicidio, il suicidio, bruciando il suo ultimo falò di scrittore.
Fabrizio Coscia