30 Novembre 2023

Un poeta nei dintorni del Caos. In memoria di Carmelo Causale

Ci sono tanti modi di intendere la tragedia – la morte di un amico, l’amico di una vita, lo è –, ma viverla non ti lascia molte scelte nel modo in cui esprimerla. Carmelo Causale è morto, cinque giorni dopo averlo visto e averci parlato a casa sua: un po’ affaticato, ma con l’energia severa che aveva sempre nello sguardo, se non nel fisico, un po’ provato, senza che ne fossero scalfite la lucidità e la determinazione. L’asciuttezza delle parole, alla fine, è un coibente che si fa preferire ad altre forme di discrezione rispetto alla mancanza di riserbo che si ha con le persone più fidate: fra tutte, manca solo lui: ma ha dato l’esempio quando l’ho visto a casa sua, la prima volta che ci andavo senza che lui ci fosse e a piangerlo per questo.

Era proprio come lo avevo visto pochi giorni prima: sembrava non credesse di essere davvero morto: e se non ci credeva lui, perché dovevo crederci io? Questo, però, mi ha spinto a vincere il riserbo e a fidarmi di quello offerto dalle parole allineate su una pagina o un display. Ma qui il tema non è l’amicizia, quanto rendere testimonianza dei tanti anni di collaborazione, di quello che Carmelo Causale ha fatto e prodotto nella sua attività di intellettuale, scrittore, poeta, benché di poca fama: quanta non basterebbe per parlarne pubblicamente, se non ci fosse chi è disposto a dare ospitalità a chi vorrebbe dire, anche sussurrandolo, a tutta la rosa dei venti che neppure un alito, dando voce a chi non c’è più, si ruberà alla fama, che può continuare a soffiare sulle sue trombe e tromboni tutta la musica che vuole.

Leggendo Ezra Pound a Taormina: Carmelo Causale con Fulvia Toscano, 1997

Con Carmelo ci siamo conosciuti giovanissimi e abbiamo continuato a sentirci, se non a frequentarci, con una certa costanza. Fu verso la metà degli anni Novanta che si intensificò la nostra collaborazione: fondammo Colophon (rivista internazionale, sede locale, fonte finanziaria: gli stipendi di un padre di famiglia e di un precario della scuola; periodicità: quando lo consentivano i risparmi), la rivista di Lettere e Arti che ospitò interventi e diede vita a iniziative in cui furono coinvolti artisti, scrittori, studiosi, accademici, sia italiani (Pietro Barcellona, Antimo Negri, Giovanni Reale, Giorgio Barberi Squarotti, Silvano Nigro, Giovanni Fontanella, Claudio Giovanardi, Monica Centanni) che stranieri (Patrick Laude, Roger-Daniel Bensky, Simon Tanner, Cristoph A. Binkelmann, Michael McCaskey e tanti altri). Negli anni Ottanta, Carmelo era stato tra i fondatori del gruppo di ricerca poetica Vertex. A ridosso del nuovo millennio, sarà tra i fondatori dell’Officina Metapolitica Hetairia. Aveva, oltre al dono della parola poetica, molti talenti, dalla letteratura alla storia alla filosofia: interessato, in particolare, a Martin Heidegger e al Decostruzionismo, su cui intesseva serrate e sofisticate discussioni con un altro amico, Giuseppe Carbone, che in Colophon e nelle iniziativi a latere della rivista ha avuto un ruolo di rilievo.

Per farla breve, i primi due numeri monografici, il n. 6 sull’assemblaggio nella Tecnologia e nell’Arte, con dibattiti e contestuale mostra (cui parteciparono, fra gli altri, Marco Nereo Rotelli e Marco Cardini), presso l’area del CNR di Catania: e i nn.7/8, dedicati alla “Sicilitudine in questione”, segnarono una svolta importante per la nostra Rivista, perché non si trattò di proporre un tema o accogliere collaborazioni esterne, ma di svolgere un ruolo attivo e propulsivo di una riflessione non avventizia. Si rivelò particolarmente interessante il numero 7/8, che raccoglieva gli atti dei seminari, “Conversazioni siciliane”, svoltisi tra 2001 e 2002, numero di cui Carmelo e io scrivemmo l’editoriale, “La sicilitudine come questione nazionale” e il “manifesto”, “Canone italiano e codice siciliano”. Lo spunto ci era stato offerto dalla pubblicazione, qualche anno prima, del Canone occidentale di Harold Bloom: una visione della letteratura dell’Occidente che privilegiava l’anglosfera, condotta con criteri discutibili, con appassionata faziosità, come tutte le letture che selezionano e riconfigurano il panorama di una civiltà, nella cui parabola si passa da Dante ai nostri giorni: che, dal moderno disincantamento del mondo alla Scuola del Sospetto alla Scuola del Risentimento (nella definizione di Bloom), rigettano i valori di questo patrimonio storico in nome del politicamente corretto e della cosiddetta cancel culture che si intesta il merito di questa opera di “purificazione”.

A Carmelo e a me pareva di tutta evidenza che l’Umanesimo gnostico di Bloom fosse (oltre che un effetto di quella triplice azione di erosione) il padre putativo, se non naturale, dell’aborrita scolastica e dell’egemonia culturale del Risentimento, sorto all’ombra e vigoreggiante al sole dei french studies. Se quella di Bloom, comunque, era una interessante digressione sul destino delle humanities a ridosso dei peana di Francis Fukuyama sulla Fine della storia e l’ultimo uomo (figurarsi oggi che siamo nel Misantropocene, nello Schizocene, con il Transumanesimo incombente, quando l’uomo è una passione non solo inutile, ma intollerabile), ecco presentarsi l’occasione per riflettere sullo statuto del Canone italiano: cercando di capire, al di là delle mitizzazioni, il peso reale della tradizione letteraria e non solo, per il nostro Paese (sulla nazione italiana come esito retorico della poesia, non di prim’ordine, dei Prati e degli Aleardi, è stato pubblicato un libro di tutto rispetto, qualche anno addietro).

Per noi siciliani non era una cosa difficile: dall’Ottocento in poi, da Verga a De Roberto a Pirandello, fino a Tomasi di Lampedusa e a Leonardo Sciascia, il codice siciliano aveva segnato nel profondo la cultura letteraria del Paese. Un ciclo di incontri sulla Sicilitudine in questione metteva in controluce l’assetto ratificato ideologico-editoriale: imperniato, in ultimo, sulla visione di Sciascia: che, se non aveva coniato l’etichetta, Sicilitudine, dovuta al poeta Crescenzio Cane, finiva per avvalorarla nella Sicilia come metafora, per dirla con il titolo del libro-intervista a Marcelle Padovani, delineando una linea di successione in cui la generazione scaturita dal secondo Dopoguerra portava a termine un processo illuministico che aveva visto la Sicilia refrattaria al Romanticismo più di quanto non lo fosse la cultura nazionale, con l’eccezione dell’amato (da Sciascia in primis: ma per ragioni non romantiche, diciamo pure) Manzoni.

In coerenza con questa riflessione, oltre che sulla scorta della riflessione su modernità (Heidegger, Derrida, Deleuze) e post-modernità (a partire da La condizione postmoderna, di Jean-François Lyotard e Postmodernismo: la logica del tardo capitalismo, di Fredric Jameson), l’idea della letteratura come agone impegnerà Carmelo in opere in cui il rapporto con i modelli/patroni – ben oltre la bloomiana angoscia dell’influenza – assume il carattere postmoderno di una vera e propria revisione del Canone, della tradizione letteraria novecentesca. La forma letteraria intrinseca a questa dialettica è drammaturgica: una indagine sulla Nascita e morte della tragedia attraverso Nietzsche, con la dissoluzione del teatro, dichiarata e praticata da Pirandello e Beckett; il dramma Cavalcanti, sulla “relazione pericolosa fra poesia e politica”, scriveva lo stesso Carmelo: che, fra Dante e il suo primo amico, parteggiava apertamente per Cavalcanti, l’aristocratico in spirito che non si abbassa a mendicare gloria alle sante o ri-paganizzate Muse, non si affanna per una sedia curule in cima alla città né vuole estorcere salvezza a un dio che non lo tenta abbastanza. In Quale libertà, il Canone con cui misurarsi è quello storiografico (il confronto è con la versione sciasciana dei fatti di Bronte dell’11 luglio 1860), laddove la lotta di classe è essa stessa un gioco delle parti degno di Pirandello (che scriverà, sulle siciliane e per sineddoche, italiche velleità rivoluzionarie e pulsioni protagonistiche/arrivistiche, I vecchi e i giovani) fra eroi civili e “incivili” o pre-politici barbari e vittime, strumentalizzati dagli interessi di gruppi di potere locale e logiche meno circoscritte a un episodio su cui solo Verga scriverà le poche pagine che ribaltano i misteri gloriosi dell’epopea risorgimentale (un silenzio rotto quasi cento anni dopo i fatti e i misfatti della marcia trionfale garibaldina e della realtà postunitaria con Il gattopardo: romanzo ottocentesco, certo: ma nessuno aveva pensato a scrivere qualcosa di paragonabile nel 1890 o giù di lì: un silenzio, un non detto i cui strascichi giungono e gravano sulle pagine scritte senza una analisi del trauma di quella nascita della nazione).

L’agone con i paradigmi letterari e storiografici conduce a effetti paradossali: la letteratura come intervento sul Canone, azione sciamanica per esorcizzare i vuoti (una lingua nazionale venuta dopo l’unità politica e ministerialmente sancita, una tradizionale narrativa e teatrale debole a paragone di quella di altri Paesi, la mancanza di un Romanticismo “forte”) nella nostra tradizione, non può accontentarsi di lucrare sulla crisi o fine del proprio ruolo e delle proprie forme, accettando con un sì il Mondo Nuovo che si annuncia. Il paradosso della tragedia è che non può sciogliere le tensioni di cui vive, ma consumarsi con esse, con le parole con cui esprimerla: Quali parole per un nuovo canto? Un nuovo dio? L’ebbrezza della fine? Chi troverà le parole del dopo?, dice Nietzsche, nel dramma dedicatogli da Carmelo Causale, rifiutando l’amore di Lou Salomè mentre esorta a dire alla vita, nella consapevolezza che non basta neppure il sacrificio che accetta su di sé, perché dal tragico non si esce: il sì alla vita che rifiuta il tragico è tragedia esso stesso. Quel nuovo dio non può nascere neppure dalle ceneri dell’uomo vecchio: Se ci fossero dèi, come potrei sopportare di non essere un dio?, Carmelo aveva fatto dire poco prima a Nietzsche. Non ci sono dèi, ma, dice ancora Nietzsche, ci sono uomini, ed è verso l’uomo che mi spinge la mia volontà di pregare.

Ci sono le parole che Carmelo Causale ha trovato per consegnarcele nelle sue poesie. Sono quelle di un dopo che rimane con esse: frammenti di un agone, si vorrebbe dire, a dispetto di scansioni sistematiche al loro interno (il ciclo su Pirandello nell’inedito Dintorni del caos, di cui apparvero su Colophon 7/8 alcune anticipazioni): versi eleganti e furenti, immagini terse e ironiche, di cristallina levità e dolenti, di luminosamente ustoria purezza e inesorabile grazia. Di cui, per non voler dare un senso definitivo a parole che non sapevamo altre ne sarebbero seguite, sono un’eco quelle che ho sentito da lui, “pagano”, senza nessuna simpatia per la Chiesa cattolica, pochi giorni prima della sua morte. Ne tento qui la parafrasi: l’errore più madornale, terribile, imperdonabile della modernità, di tutti i sistemi ideologici, politici, tecnocratici moderni e postmoderni, è di avere voluto cancellare la religione, di aver tentato o di fare in modo, in tutti i modi possibili, di fare a meno di Dio. Di voler strappare dal cuore dell’uomo il pensiero e il desiderio di Dio.

Che Dio ti accolga nella pace e ti abbia in gloria, Carmelo.

Rocco Giudice

*In copertina: Pierre Soulages, Documenta II, 1959

Gruppo MAGOG