I
Mia madre se la litigano i cani.
Giocano a simularle con la bava
gli umori vaginali e può succedere
che qualcuno tra loro abbia mascella
più forte e che mia madre così pianga
e squirti da rizzare a tutti il pelo.
I cani affollano mia madre in ogni
dove e la prendono con sdegno e lagno –
mi bagno e prego poi che me la rompano,
le si crepino i denti in un digrigno.
Raccolga il seme dei cani in ingoio.
II
In un ossario
Mia madre, la selvaggia, teme il fuoco.
Noi forti le ordiniamo di mangiare
i resti schifi di un benedettino
arso per sbaglio. Mamma, ingoia l’osso.
Nettalo con la lingua tipo il cazzo
che tu sai. Se ti soffochi c’è il premio
pio di consolazione.
Onne crosta aradunata
per emplir meo stomacone.
III
Gracchia, mia madre, matta per le botte.
Si crede rana – salta a gambe larghe
verso il fiume e mio padre le dà un calcio,
ritira lo stivale che è già lurido.
Prende mia madre tra le rocce e dice
che gli scemi si lavan poco e male.
Giochiamo tutti alla luna calante.
IV
Portiamo mamma in visita
a un mattatoio sardo.
Le mucche partoriscono
tocchi di carne anomali.
Il passo, dallo sguardo
alla bocca, è brevissimo.
Mamma fa indigestione
ma poi dorme magnifica
tra i puledri sfondati a coca e cialis.
Olimpia Buonpastore
*
Commento di Gabriele Galloni
Olimpia Buonpastore mi ha inviato via mail il canzoniere poetico più estremo degli anni duemila. Trentacinque poesie sull’aberrazione, l’abbrutimento e infine la distruzione di una madre che è di volta in volta cane, mostro antropofago, vittima, rana, oggetto-orifizi e speculazione filosofica. Non sono rimasto bruciato: troppo poco. Carbonizzato. Olimpia è nata nel 1995; a pochi mesi di distanza da me. Si è descritta come una appassionata e praticante di sport da combattimento. Influenza, questa, che più di ogni altra affiora nei suoi versi: la lotta, lo scontro; l’abbattimento dell’Avversario. La parola è un respiro da interrompere. Prima che continui, preferisco pubblicare (nota a margine: Olimpia è d’accordo) parte della mail che lei stessa mi ha inviato. Nessuno può parlare della sua opera-limite meglio di lei. “Mia madre non è mai esistita, per me. Ci tengo a specificarlo. È morta dandomi alla luce. Vivo così la strana condizione di orfana che è al tempo stesso esule. Mia madre è stata quindi, da sempre, l’oggetto assoluto di tutte le mie fantasie. Fantasie, lo specifico, di ogni tipo. Mia madre è il corpo-donna originario. Il corpo-luce. Il corpo-morte. Lo schifo e l’estasi. Mia madre è stata cremata e dispersa non so dove. Mai vista una sua foto. Non voglio vederla. Mia madre è qui, in queste 35 poesie; nel primo dei due libri a lei dedicati. Il secondo narrerà la sua elevazione, la sua Salvezza (…) questo è il suo abisso personale. Rimane qui finché lo voglio io.”
*
Commento di Antonio Veneziani
Olimpia Buonpastore è estranea a ogni tradizione. Dai suoi versi sembrerebbe estranea persino a se stessa. E forse è un bene.
Si addice, l’esilio, a certe voci: da lontano tuonano più forte. Basti pensare a coloro che spedimmo nel deserto e tornarono carichi di ossa d’oro.
Qual è la lontananza di Olimpia Buonpastore? Si misura in millimetri o in eoni? Io non so dirlo. Preferisco annullarmi nell’allucinazione marmorea dei suoi versi. Notevolissima l’attenzione metrica, l’utilizzo da manuale dell’endecasillabo che a volte dà quasi una impressione di austera freddezza, come a sottolineare lo squartamento programmatico e irrimediabile della figura-madre.