In Wolfwatching, la poesia che dà il titolo alla raccolta uscita per Faber nel 1989, Ted Hughes descrive se stesso nel “vecchio lupo”, “bianco come un bruco peloso”, alle soglie di Londra:
“La massa di carne
è la sua reclusione. Probabilmente ha passato tutta la vita
dietro una rete, logorando i tentativi di fuga dello sguardo
sull’embargo del reticolo. Sbadiglia
stizzoso come un vecchio e lo sbadiglio
va a ritroso fin dentro a Kensington e lì si arresta
atterrato dal vetro. Gli occhi
l’hanno consumato. Gli sguardi affascinati dei bambini
l’hanno sbrindellato e ridotto a un goffo
e bonario lupo giocattolo lanoso. È stanco”.
Lo sciamanico Ted Hughes, che forgiava oroscopi, decollava dèi ed era esperto in reami cabbalistici, ora ridotto a poet laureate, a cortigiano fool, è stanco. “È una carta dei tarocchi”, come il vecchio lupo a cui dona vello verbale. È come “il telaio di una porta nel deserto/ tra nulla e nulla”. Forse è proprio questo il poeta: un vagabondo tra nulla e nulla, mediatore di deserti. Che gli uomini lo prendano a sassate, in una argentata indifferenza, è cosa comune.
Ted Hughes muore il 28 ottobre del 1998. Due settimane prima la regina Elisabetta II lo aveva insignito del Queen’s Order of Merit, che esattamente cinquant’anni prima era stato assegnato a Thomas S. Eliot. Come si sa, in quello stesso anno Hughes pubblica il suo libro più sofferto – non il più bello – Birthday Letters: in pratica, il romanzo in versi della sua relazione con Sylvia Plath. Al funerale, svoltosi dopo le festività dei santi e dei morti, il 3 novembre, Seamus Heaney leggerà due poesie di Hughes e una di Dylan Thomas. Ogni elemento – comprese le date – è il segno di un lignaggio: il caos, a volte, si china sui suoi accoliti e indossa la stola della provvidenza.
Per onorare i venticinque anni dalla morte di uno dei più grandi poeti in lingua inglese di ogni epoca, la Faber ristampa Lupercal, la raccolta del 1960, in edizione speciale, con la copertina di allora. A novembre celebreranno il poeta alla British Library. Lupercal è la seconda raccolta di Hughes, dalla potenza animalesca. È una poesia, come di consueto, piena di bestie: falchi, lucci, cervi, gatti, ermellini, corvi. C’è anche un lupo, appare in February:
“Il lupo con la pancia cucita di grosse pietre;
lupi nibelunghi irti come una foresta di pini neri
contro un cielo rosso, sopra una neve azzurra; o quel lungo ghigno
sopra il copriletto rimboccato – nessuno basta”.
Si parla dell’“ultimo lupo ucciso in Gran Bretagna” e di un uomo che “se ne sta seduto a fabbricare maschere di lupo”. Il poeta, smascherandosi, ha ucciso se stesso e di sé, ora, prepara il feticcio. Nel 1960 nasce la prima figlia di Hughes e Sylvia Plath, Frieda Rebecca. A chi lo accusa di ostentare una poetica della violenza, una poesia della predazione, dirà:
“Le mie poesie parlano di vitalità non di violenza. Gli animali non sono violenti, possiedono un autocontrollo molto più completo di quello degli uomini. Sono molto più in sintonia con il loro ambiente. Forse le mie poesie parlano della personalità scissa dell’uomo moderno, di quella che sta dietro la parte costruita e guastata”.
Questa dichiarazione è rilasciata al “Guardian” nel 1965; Sylvia Plath è morta due anni prima, in febbraio.
Ted Hughes è un poeta letteralmente scomparso dal contesto editoriale italiano. Le raccolte singole sono introvabili, se non nel mercato secondario; in libreria si rintraccia forse il suo libro per bambini, L’uomo di ferro. Un tempo, per dire – era il 1974 – Feltrinelli stampava Teatro come invenzione, che raccontava l’impresa teatrale di Peter Brook e Ted Hughes, Orghast, andata in scena a Persepoli. Le poesie di Hughes erano tradotte per “Lo Specchio” Mondadori da Camillo Pennati. Aver relegato Hughes in un ‘Meridiano’ che ne raduna le Poesie – era il 2008, per la cura di Nicola Gardini – significa imbrigliarlo in una illegittima illeggibilità. Per i più, Ted Hughes, poeta lunare, ambiguo, stratosferico, è un dato di cronaca, è il marito di Sylvia Plath, di cui sono, con esuberante – quanto cinica – costanza pubblicate tutte le opere (bellissime, per carità, ma d’altra altezza rispetto a quelle del lapidato, lapidario Ted).
Non ci sorprende: Hughes è poeta animalesco ma non ‘ecologista’, è poeta sinistro e non sentimentale, è un poeta che non si occupa di sociologia ma di teurgia, che non è impaniato nel ‘sociale’ ma nella dissociazione, che pende verso i rigagnoli del sacro, che non mette il cuore a nudo: lo divora. Alla morte, preferì essere cremato, che le sue ceneri fossero sparse a Dartmoor, “vicino alle sorgenti dei fiumi Taw, Dart, East Okement e Teign”. Secondo la leggenda, nel Dartmoor si aggira, da secoli, una bestia mitologica, forse un lupo, forse una pantera.
Qui, a risarcimento di un grande poeta, traduciamo alcuni brandelli di un lungo dialogo pubblico tenuto il 18 novembre del 1989 a Dacca, in Bangladesh, nel contesto dell’Asia Poetry Festival. Ted Hughes parla con Amzed Hossein, tra l’altro, anche dei rapporti tra Oriente e Occidente.
***
Il cerchio magico. “Scrivendo certe cose, evocando certe immagini, certi simboli, invochi automaticamente le energie che ad essi sono legati. Bisogna stare attenti, essere selettivi, sapere che si sta giocando con il fuoco e che invocare certe energie può preludere a problemi ingestibili. Credo che in quasi tutte le culture l’icona dei grandi animali predatori abbia rappresentato l’energia che l’uomo non può contenere. È come se, scrivendo una poesia, costruissi un simbolo in grado di controllare questa energia. Evoco uno spirito e un cerchio magico che lo controlla”.
Vivere per la morte. “Ogni elemento vivente è indifferente agli altri. Forse è consapevole, perfino profondamente, degli altri, ma deve restare impassibile, indifferente, perché deve predare le altre creature, divorarle, per continuare a vivere. Il regno animale, gli uccelli, i pesci, gli insetti, non conosce la morte. Forse la apprende nell’istante in cui inizia a morire, e si educa all’intero processo, ma è soltanto l’uomo l’essere che conosce la morte, che la sa in anticipo, che vive per la morte”.
Voglio cercare me stesso. “Suppongo di cercare ciò che tutti cercano… me stesso. In Occidente la storia ha prodotto una psicologia in cui gli esseri umani perdono facilmente il contatto con se stessi. Pare incredibile, ai limiti del ridicolo, ma la condizione della maggior parte degli occidentali è di non essere più in contatto con il proprio vero sé. Un sistema religioso che ci metta di fronte a ciò che siamo è defunto. Siamo soli. È più facile, allora, evitare l’enigma abitando uno stile di vita che ignori ogni problema”.
L’opera alchemica della poesia. “Uno dei grandi problemi su cui lavora la poesia è rinnovare la vita: rinnovare la vita del poeta e di conseguenza quella delle persone. La tendenza della vita è incrostarsi nei meandri di un alter ego che imprigiona la vita… la vita interiore per rinnovarsi deve dunque sfondare questa crosta che trattiene la nuova vita. È necessario valicare una morte per rinascere a nuova vita. Basta leggere Shakespeare per capire che questo è il processo della sua poetica: ogni tragedia è uno sforzo straordinario per eliminare qualcosa e risorgere a qualcos’altro. La tragedia parte dalla distruzione, ed è questa la vitalità dell’opera, il suo processo. L’equilibrio è saturo, è impazzito: bisogna ricostruire qualcosa, e salvare il più importante”.
Fiori & insetti. “Fin da bambino ho vissuto in campagna: il mio unico interesse era occuparmi di pesci e uccelli. Poi sono passato ad altre cose e ho usato il mondo naturale in cui sono cresciuto come una metafora. Ma negli anni Settanta, a più di quarant’anni, ho percepito che mi mancava qualcosa, che mi mancava tutto. Così, sono tornato a scrivere poesie più semplici, per recuperare gli antichi anni della mia infanzia. In quel periodo, ho imparato a coltivare i campi. Volevo realizzare un libro sui fiumi con un amico fotografo, e poi uno sui fiori e gli insetti. Si tratta di testi marginali, magari, ma per me erano e sono necessari”.
Il sistema immunitario della poesia. “Credo che la poesia sia la componente psicologica di un sistema autoimmune. La chimica del corpo è costantemente bombardata da agenti esterni: il sistema immunitario ripara il corpo e lo rinnova, di continuo. Mi pare che esista anche una componente psicologica di questo sistema. Questa componente la chiamiamo arte… la poesia è la forma verbale del processo”.
Lo scopo della poesia. “Il mio scopo, quando scrivo poesia, è semplicemente soddisfare l’impulso che ho di scrivere; cosa sia questo impulso e da dove arrivi, non lo so. Non credo ci sia bisogno di altro scopo per scrivere: di certo, non ho alcuno scopo sociale quando scrivo”.
Gli occidentali sono infelici. “Mi piacerebbe che l’Occidente fosse completamente intriso di Oriente. Penso che l’Occidente abbia bisogno dello spirito orientale. L’Oriente fluttua ancora in modi e mondi diversi: dal fondamentalismo estremista al misticismo… la società orientale accetta il fatto che l’esistenza si basi su fatti e valori spirituali. In Occidente questo non esiste più. La miseria e l’infelicità occidentale, che si svelano appena sotto la patina di una apparente prosperità, sono visibili ovunque. È la profonda infelicità in cui vive ogni occidentale. Gli occidentali sanno che ciò che possiedono non è importante, è nulla se è privo di un fondamento spirituale. Sono tagliati fuori. Non trovano più la felicità nell’uomo. Non accettano la loro religione perché è dogmatica e paralizzante; non accettano altre religioni perché costano fatica. Tendono, forse, a una nuova realtà spirituale, non ancora scoperta. Dunque, è tutta una ricerca, una ricerca, una incessante ricerca”.
Dio è morto (oppure no). “Credo che la società occidentale sia fondamentalmente materialista, mentre quella orientale non lo sia. Anche se con micidiale rapidità sta adottando la scienza, la tecnologia e via dicendo, l’Oriente non abbandona il suo fondamento spirituale. Forse riuscirà a far convivere religione e scienza. Perché no? Perché la scienza dovrebbe rimuovere il senso della nostra esistenza spirituale? È tutta una questione di reinventare il concetto di Dio, perché l’antica nozione del Dio cristiano è stata screditata dalla scienza. Credono che Dio, così, sia sparito… e che tutto, con lui, è scomparso”.
Tutto è dolore. “Qual è la verità? Che tutto sulla terra vive nella tragedia: tutti gli animali, gli uccelli e i pesci vivono una vita spaventosa perché da ogni parte sono assediati dall’uomo che li uccide, li combatte, li schiavizza, li divora… anche tra di loro si uccidono a vicenda, si divorano, per sopravvivere. Ciò non toglie che tutto sia parte di una Idea Creativa. Alla fine dei tempi, il Figlio di Dio, dopo aver ascoltato cosa è accaduto agli animali, scenderà sulla terra per unirsi agli uomini che lo uccideranno e ne faranno pasto”.