22 Agosto 2024

“Voi incantate ogni ceppo d’albero, ogni casa, ogni pietra, ogni persona. Marina! Voi siete azzurra”. Marina e le figlie

Mosca, Novembre 1919. Una giovane donna ventisettenne è rimasta sola con due bambine di sette e due anni, nella sua casa al numero 6 del vicolo di Boris e Gleb, mentre fuori imperversa la guerra civile. Mancano i viveri, manca la legna per scaldarsi, manca tutto. La donna si ingegna per sopravvivere. Indosso ha sempre lo stesso abito marrone, ormai logoro e rattoppato, striminzito; ai piedi, gli stivali di suo marito (più grandi di due misure); le mani rovinate dai lavori domestici. Vuota e svuota il bidoncino e la bacinella, pulisce, lava, stende, va e viene dal mercato cercando di racimolare un po’ di pane (dovrà barattare l’amato pianoforte materno per un pud di farina), bada alle sue bambine, si aggira per le stanze alla ricerca di un mobile da segare per farne pezzetti per la stufa. Elemosina un po’ di cibo dai vicini, pensa al marito che si è unito all’Armata Bianca e combatte, chissà dove…

Oltre ad essere madre e moglie, quella giovane donna è poeta, e tra i maggiori del Novecento, e riesce ad incastonare – rocambolescamente, miracolosamente – la scrittura delle sue giornate in mezzo a tutte le incombenze e le disperazioni quotidiane. Quella donna è Marina Cvetaeva. E se oggi possiamo leggere la (sua) storia in quegli anni terribili, possiamo solo ringraziare il suo genio, la sua tenacia e soprattutto la sua autenticità. Il suo racconto occuperà le quattrocento pagine dei Taccuini 1919-1921, pubblicati in Italia nel 2014 da Voland per l’ottima cura di Pina Napolitano.

Dai Taccuini apprendiamo che Marina di notte sta sveglia a rammendare i vestiti e le calzamaglie delle figlie, Ariadna e Irina, a fare le righe sui loro quaderni bianchi. La osserviamo impotenti, sola e disperata, che arriva ad una decisione inevitabile, che le strazia il cuore: portare le sue figliolette all’orfanotrofio di Kuncevo, affinché possano mangiare almeno due volte al giorno. Purtroppo così non sarà e la secondogenita, Irina, già affetta da un grave disagio psichico, morirà di denutrizione il 3 febbraio del 1920. La sua morte darà vita a pagine strazianti:

“Se il medico avesse diagnosticato ad Alja la malaria – se io avessi avuto un po’ di soldi in più – Irina non sarebbe morta. La morte di Irina per me è tanto irreale quanto la sua vita. Non conosco la malattia, non l’ho vista malata, non ho assistito alla sua morte, non so dove sia la sua tomba”.

Scorrendo le righe dei Taccuini, sempre più saldo e fitto diviene il dialogo tra la poetessa e la primogenita, Ariadna (affettuosamente chiamata Alja), testimonianza d’un amore irrevocabile, totale ed esclusivo, che è quasi identificazione tra madre e figlia. Marina e Alja dialogano alla pari, come se fossero coetanee: è un’affinità elettiva a legarle, al punto che il Settimo Taccuino (1919-1920) è occupato in buona parte dalle lettere di Alja e dai frammenti dei suoi quaderni, cui Marina attribuisce (a ragione) un valore speciale: “Più di tutto al mondo – tra le cose dell’anima – tremo per: i quaderni di Alja – i miei taccuini – poi le pièces – i versi vengono molto dopo, nel quaderno di Alja, nei miei taccuini e nelle pièces io sono più io: i primi due sono i miei giorni normali, le pièces la mia Festa, e i versi, forse, la mia confessione incompleta, sono meno precisi, meno io”.

Prima di lasciare la loro casa moscovita, sul suo tavolino, Alja lascia a Marina una lettera scritta con l’inchiostro rosso, una lunghissima missiva d’addio che la poetessa legge al rientro, dopo averla accompagnata, con Irina, all’orfanotrofio (e dopo aver attraversato pendii, discese, colline,  parchi, laghi gelati, gruppi di abeti e betulle, quasi come una ballerina di ghiaccio), la pelliccia e il cappello ancora addosso:

“Voglio dirvi una cosa: le mani, le vostre bellissime mani, non ve le state bruciando invano. Sarò io a ripagarvi! […] Perché vivo? Per consolarvi! […] Voi incantate ogni ceppo d’albero, ogni casa, ogni pietra del marciapiede, ogni persona. […] Marina! Voi siete azzurra. Venite a me dal cielo…Con un fiorellino. […] Mamma, mandatemi un fiorellino…e nel fiorellino Voi! […] Marina! Siete così buona. Voglio che domenica vi invitino ad un ballo”.

Segue una lunga descrizione sulla casetta col tetto a punta e l’enorme giardino traboccante di fiori che accoglie la festa dedicata “a una sola donna sulla terra” che è “Poeta, l’Amore che seduce tutti, l’Eroina Giovanna D’Arco, tutto il mondo, ma senza peccati. – Questo siete Voi. – Marina!” Alja fantastica sul loro prossimo incontro per festeggiare assieme l’Anno Nuovo. Quale sarà il regalo che le aspetta dopo la separazione? “Staremo strette l’una all’altra […] a sentire le campane, trepidando ci doneremo le nostre anime”.

*
A leggere questi (pochi) frammenti, prodigiosi e precocissimi, pare impossibile che sia stata una bimba di sette anni a scriverli. Vi si ritrova il medesimo slancio della scrittura cvetaeviana, quel tono impetuoso, quel guizzo creativo unico, iperbolico, la stessa passionalità geniale. Si è come avvolti dalla sensazione che nelle vene di Ariadna non scorra sangue, ma Anima – nelle parole della stessa Cvetaeva: “Alja. Non c’è mai stata una creatura come lei – né mai ci sarà. Ci sono stati quelli che a tre anni erano geni della Musica – della Pittura – della Poesia – ecc. ecc. – ma nessuno è mai stato a tre anni un genio dell’Anima!” Nell’Anima troviamo la chiave che fa scattare la serratura del loro magico scrigno in comune, quell’Anima che Marina ha cantato in tutte le sue possibili declinazioni, e Alja con lei, all’unisono. La loro scrittura si interseca, si fonde, diviene una cosa sola, come emerge da questa pagina, dove Marina compare (solo) tra parentesi:

Versi di Alja
17 dicembre 1919

Rami intrecciati,
Radici intrecciate, –
Il Bosco dell’Amore!

Vi ho donato un flauto
Mi avete donato il cuore.
Il flauto canta,
Il cuore batte.

Una sola persona io amo.
Vola sulla terra
In un manto di stelle.

Il treno fischia.
Il fischio d’addio –
L’anima mia porta via.
– Quante anime porta via! –
Vi amo.

Perdonate l’Amore, – è un mendicante!
(la continuazione è mia:)
Sporche le scarpe –
o senza scarpe affatto.
Ieri sul sagrato
Pregava Maria –
una scarpa s’è tolto, in voto.

L’altra – alla panetteria all’angolo,
L’ha data ai bambini di strada:
Laddove – dice – la sua amata è passata.

Ora è scalzo, come gli angeli!
Non sa che in paradiso lo attendono
Scarpe di marocchino!…

Terra russa, non vergognarti!
Gli angeli sono sempre scalzi…
(il secondo verso – il migliore – è di Alja)

*
Cosa avrebbe potuto realizzare Ariadna se avesse avuto “una stanza tutta per sé”, se non fosse stata una martire della storia, condannata al confino, ai campi di lavoro, unica sopravvissuta della sua famiglia? Cosa avrebbe lasciato dietro di sé, se si fosse messa a tavolino a scrivere? La figlia di Marina opterà invece per il “tavolino materno”: cercherà sua madre per tutta la vita, fino alla fine, fino a rintracciare Boris Pasternak (quasi l’alter ego materno), fino ad Elabuga, nell’izba dove il 31 agosto 1941 Marina scrisse i suoi ultimi versi col sangue (tre giorni prima aveva chiesto, invano, di essere assunta come lavapiatti, per sopravvivere).

Pittrice, scrittrice di talento, Alja dedica la sua vita a portare avanti l’opera della madre. Ne riordina i testi, segue la loro pubblicazione, costituisce un archivio. La sua opera, in fondo, è stata un lungo atto d’Amore. O meglio, d’Amour.  Amour – le aveva spiegato un giorno Marina – è l’incarnazione. Amore è il concetto. “Il concetto è generale, illimitato, l’incarnazione è un’estremità aguzza, verso l’alto! Tutta in solo punto. Capisci?”. Aveva capito eccome, Ariadna. Aveva solo sette anni ma, incoraggiata da sua madre, si era cimentata con alcuni esempi: la Musica è il concetto, la Voce l’incarnazione; il Coraggio è il concetto, l’Impresa è l’incarnazione; l’Impresa è il concetto, l’Eroe l’incarnazione. E lei, Alja, fu tutte quelle incarnazioni.

Marilena Garis 

Gruppo MAGOG