
“Dal tremendo abisso di chi sono”. Su una poesia di Fernando Pessoa
Poesia
Giorgio Anelli
Perché esistono, sono esistiti, esisteranno ancora poeti che danno così tremenda importanza agli occhi? Per quale arcano motivo essi sono visti come l’indissolubile essenza di qualsiasi patria o esilio? Come mai i nostri volti rappresentano il continente dove quegli stessi occhi s’incastonano quale vero e unico cuore del mondo, pronto a resuscitare persino il più moribondo degl’innamorati?
Non abbiamo risposte plausibili in merito; non abbiamo riscontri oggettivi; non abbiamo nulla che possa dimostrare il contrario di qualsiasi amore. Eppure. Eppure li si canta in infiniti modi, e le parole usate per dimostrare qualunque fiaba o fiamma, non hanno tempo. Si entra, dunque, nell’eccesso chiamato poesia: nella vibrazione dell’anima.
Perciò è stato lo stesso anche per Boris Pasternak, in quell’innamoramento filiale, gratuito, grazie a un carteggio ‒ immortale, immeritato, memorabile ‒ con Ariadna Efron, la figlia di Marina Cvetaeva.
Quegli occhi, gli occhi cantati dai poeti, ritornano, immancabilmente, a far brillare il mondo in una lettera datata 19 gennaio 1950:
“Cara la mia Alečka,
[…] Se si parlasse del tuo talento non mi sarei dilungato tanto. Ma esiste ancora il dono di un qualche magico influsso sul corso delle cose e sull’andamento delle circostanze. Il fatto che tu, come esorcizzata, passi attraverso tutte queste disgrazie, è anch’esso un miracolo di creazione, tuo, da te originato.”
Il poeta russo, senza mezzi termini, parla di Dio ad Ariadna. Anzi, annunciandolo come quella forza particolare della sua anima che continua a trionfare, a cantare sempre. Poiché Ariadna Efron, dopo aver assistito alla tragica scomparsa di tutti i suoi cari e aver scontato una prima condanna a otto anni di campo di concentramento, l’anno successivo subirà una seconda pesantissima condanna, al confino a vita in Siberia.
Ma più di tutto, ed è questo ciò che trionfa in una lettera talmente bella quanto inattuale, Pasternak parla da poeta a una poetessa, in maniera ineffabile: “Non pensare che io cominci un romanzo con te, cercando di farti innamorare o qualcosa di simile (ti amo anche senza questo) ‒ ma guarda quello di cui sei capace: la tua lettera mi guarda come una donna viva, ha occhi, si può prenderla per mano, e tu ancora disquisisci! Io credo nella tua vita, povera la mia martire e, ricorda le mie parole, tu ancora vedrai…!”
Ecco. Questo fanno le parole. Dotate di un potere che diventa dono nelle dita di chi scrive. Questo creano delle lettere scritte, corrisposte a qualche d’un altro; bisognoso di un unico, inafferrabile, sorriso.
Allora, non dovremmo più aspettare! Scriviamo, scriviamoci ancora! Parliamo degli occhi. Di queste scintille che disquisiscono col mondo: finestre misteriche di un qualche dio. Grazie a loro, l’ignoto ci potrà salvare da un momento all’altro.
Giorgio Anelli